[New Music Weekly] Amyl and the Sniffers e i Mötley Crüe che vi mandano a quel paese, mentre i Glassing vi invitano a darvi una svegliata
Settimana 26 – con Amyl and the Sniffers, Mötley Crüe, Glassing, Pallbearer, Pigbaby, Unleash the Archers, Sethu, Syk, The Albinos, WHY?
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Voi quarantenni metallari giudiziosi, voi pudici che vi rianimate da un momento all’altro (spesso sempre in quello sbagliato), voi con la puzza sotto al naso, sapete chi vi saluta? Amyl and the Sniffers, giusto mentre il vostro giudizio sapete dove se lo mettono? Ecco. Più o meno lo stesso discorso che fanno i Mötley Crüe ai puristi che li accusano di essersi venduti: prendetevi questo nuovo singolo bombastico, iperprodotto, cazzaro, e vedete se sapete fare di meglio. Meno diretti, con le parole, i Glassing, che per svegliarvi però screamano duro, sospesi nel baratro tra sludge metal e post-black.
Per rimanere in tema di riff aggressivi, ecco i nostrani Syk che, nonostante l’uscita dal gruppo di Dalila Kayros, riescono a gestire il loro caos controllato e chirurgico anche senza l’aiuto di una voce femminile. O i Pallbearer, che maturano il loro doom atmosferico, cupo e romantico. O gli Unleash the Archers, che provano a spingere il power metal fuori dalla palude dei soliti stantii concept fantasy, verso qualcosa di più concreto.
Il resto è gente non troppo nota al grande pubblico. A partire dal folkettino poppeggiante a cuore aperto in guisa suina del misterioso Pigbaby, passando a una morbida ballata indie a firma WHY?, per arrivare al noisy garage-psych degli Albinos, e finire sul crinale tra punk e rap, con Marco de Lauri, meglio conosciuto (si fa per dire, nonostante la conquista dell’ultimo posto a Sanremo 2023) come Sethu.
Amyl and the Sniffers: U Should Not Be Doing That
Cosa c’è di meglio di Amy Taylor che fa il cazzo che vuole? Molto semplice: Amy Taylor e Steven Ogg che fanno il cazzo che vogliono. Scherzi a parte, l’insolita (ma non troppo) coppia succitata altro non è che la bislacca protagonista del video ufficiale a supporto del nuovo singolo degli Amyl and the Sniffers, tornati in studio dopo tre anni – mica pochi – dal roboante Comfort to Me.
È proprio la punk attitude della frontwoman di Melbourne a comporre il testo attorno a cui zompetta tracagnotto il groove ballonzolante di U Should Not Be Doing That, un gentilissimo invito a ritrovare la più rapida via per andare a quel paese rivolto ai quarantenni metallari giudiziosi, ai pudici che si rianimano da un momento all’altro, a quelli con la puzza sotto al naso, pronti a dettare legge riguardo a cosa una nemmeno trentenne, fondatrice di uno dei nomi più importanti dell’ultima wave del punk, debba fare, indossare, rappresentare.
Quindi, come a sfidare la loro stessa natura dinanzi a un argomento del genere, gli Amyl and the Sniffers giocano un po’ con il freno, accantonando la furia hardcore e marciando su un mid-tempo che si aggrappa alle quattro corde di Gus Romer, come a voler ricalcare quell’apertura alla “riflessività” – un parolone, però funziona – più lenta e meditata di Knifey.
Amy Taylor balla assieme al suo compagno di avventure, parla (e percula) tutto il carrozzone di haters e, nel mentre, prova a tirar su un’esame di coscienza – «Another person saying I’m not doing it right / Another person tryna give me some kinda internal fight» – i cui esiti comunicano una sola cosa: «I know my worth, I’m not the worst».
Insomma, non sono io quella sbagliata, siete voi gli stronzi.
Glassing: Wake
Non tragga in inganno la canzone Wake, perché il disco nuovo dei Glassing, intitolato carrolianamente From the Other Side of the Mirror (da cui è tratta e che chiude), è molto più cupo e pesante, anche se l’elemento melodico condisce gran parte delle composizioni, rappresentando una specie di rampicante su muraglioni secolari di riff sludge metal affacciati, sospesi su un precipizio post-black a cui è meglio non badare mentre ci si aggrappa alla vite parassitaria dell’edera famelica in cerca del cielo.
I Glassing sono, nel loro genere, una piccola e sorprendente realtà. Irrequieti e in cerca di se stessi in un micro-mondo fatto di suoni molto effettati, rumore bianco e voci in scream disagiate, vanno comunque per la loro strada, o almeno ne cercano una. C’è chi li paragona ai Deafheaven e li considera quasi i loro eredi, e chi invece li sostiene semplicemente come Glassing, vale a dire uno dei gruppi più particolari della scena core texana.
Nel caso di Wake è possibile scorgere la componente più solare della loro musica. Si tratta però di un sole che acceca su un mondo ricoperto di neve nucleare. Niente di veramente allegro. L’emotività dei Glassing brucia in se stessa, senza esprimere davvero fiducia in un mondo che si sgretola tra le dita tremanti della sopravvivenza pura e dura.
Mötley Crüe: Dogs of War
di Max Zarucchi
La cosa buffa del nuovo singolo dei Mötley Crüe è l’alzata di scudi da parte dei puristi. Accuse svariate, di essersi venduti (invece prima facevano musica per pochi eletti, no?), di essersi fatti aiutare in studio da session man e produttori e forse addirittura pure dall’intelligenza artificiale (invece da Theatre of Pain in poi era tutta farina del loro sacco, vero?), insomma di non essere più quelli di una volta, tipo Dr. Feelgood (la cui title track era di Slash non accreditato e il resto dell’album gridava Bob Rock da ogni solco). Ma da una parte va bene così: i Mötley sono diventati ciò che sono anche grazie alle storielle, vere o inventate, che ormai da più di 40 anni fanno in modo che di loro si parli, sempre e comunque.
E poi hanno cacciato Mick Mars, no? E al suo posto mica hanno preso uno qualsiasi: Giovanni Cinque, uno dei mostri più mostri della sei corde sulla piazza. Eppure non va bene. Perché ai detrattori dei Crüe non va mai bene niente a prescindere, manco Dogs of War.
Che suona come ci si aspetterebbe da loro nel 2024: bombastica, iperprodotta, cazzara, forse un po’ banale, ma terribilmente irresistibile (e comunque superiore a mille altre canzoni uscite recentemente nello stesso genere). Si fa piacere, al secondo ascolto già battiamo il piedino e al terzo conosciamo il ritornello a memoria: che importa del resto, godiamoci il party finché siamo vivi, che dall’altra parte, se c’è qualcosa, sarà una noia infinita.
Pallbearer: Endless Place
Se il cosiddetto post-metal (nella sua macro-accezione) ha vissuto, nell’ultima decade, un’epoca degna di nota, è sicuramente anche grazie a gruppi come i Pallbearer. Il loro doom atmosferico, cupo e romantico, melodico e dilatato, psichedelico e opprimente ha da sempre deliziato i palati dei fedelissimi al verbo Neurosis: i Pallbearer sono stati capaci, infatti, di offrire album che possono ben stagliarsi fieri nell’Olimpo del genere (sul quale mi piace citare, su tutti, Foundations of Burden).
A conti fatti, si può ben considerare il nuovo Mind Burns Alive all’interno di questo contesto. Uno dei suoi meriti, infatti, è stato quello di essere capace di inserirvisi, solidificando la propria proposta nel solito doom atmosferico post-metallizzato, ma ampliandola e rendendola “al passo con i tempi”. Niente innovazioni speciali, però, niente eccessivi tripudi sperimentali, solo una vena ancora più melodica, quasi mite, talvolta poppeggiante in alcuni chorus, che risulta statuaria nella sua dimostrazione di maturità, cuore ed efficacia.
Emblema di questa facciata è senza dubbio la monolitica Endless Place, momento centrale del disco, che riesce a innestare sul finale perfino un mega solo di sax, a opera di Norman Williamson, riempito di delay e chorus da cattedrale gotica, integrato con i rintocchi doom delle chitarre rallentate e della trascinante melodia “romanticotta”, marchio di fabbrica degli americani, qui nelle sue migliori manifestazioni (massì, anche di mestiere).
Endless Place inizia in modo tale da ricordare immediatamente Sorrow and Extinction, così come le gentili e pesanti sortite del recentemente riesumato mezzo capolavoro degli Warning Watching from a Distance (ristampato in vinile): una gentile intro acustica, che viene spazzata via da una calda ondata di overdrive e dalle lyrics da Bibbia dell’emo.
Già, dopo un intenso processo di registrazione, i Pallbearer hanno prodotto un album che è più maturo di qualsiasi cosa sia venuta prima, infinitamente più esposto nella sua fragilità, e anche soddisfacentemente pesante, per appagare un po’ tutti.
Pigbaby: Crying in Burger King
Di Pigbaby non si sa molto. Guisa suina, debutta nel 2022 con un EP e lo ritroviamo ora, dopo un paio di anni, con un album che è colmo di riferimenti e piccole chicche, come uno scrigno ritrovato casualmente.
Prendete Crying in Burger King ad esempio: una sorta di batteria super minimale, accompagnata da qualcosa che assomiglia a un venticello jazz. Sax che suonano lontani, un pianoforte o una tastiera che paiono lacrimare assorti in primo piano. Pigbaby piange al Burger King, lasciato solo dalla sua amata. Celiaco, pensieri suicidari, vita tragica e immobile, in attesa di qualcosa che forse non accadrà. Nemmeno le patatine potrà consumare, morto dentro.
È una vita complicata, ma Pigbaby riesce a spiegarcela facendosi vicino a noi, quasi prendendoci sottobraccio e raccontandoci il perché della sua sofferenza. Noi non possiamo fare altro che ascoltarlo, accoglierlo, cercando di nascondere la paura e il disagio di primo acchito. Solo così facendo potremo riuscire a entrare in un mondo terribilmente onesto, umano e straziante. Un mondo dove le barriere e le difese non hanno più senso, un mondo dove forse basta solo un cenno, una manica o al limite un fazzoletto per rimettersi in sesto dopo che tutto sarà concluso.
Il mondo di Pigbaby, il mondo di ognuno di noi.
Sethu (feat. Jiz): Vandalizzami il cuore
Dopo l’esordio al Festival di Sanremo e la conquista dell’ultimo posto nel 2023, torna Sethu, in compagnia del produttore Jiz (alias Giorgio De Lauri, fratello gemello del cantante) con Vandalizzami il cuore, singolo che conferma la freschezza di un progetto che, attivo dal 2018, riesce a inserirsi nel pop mainstream con la perenne sensazione di essere un bug fuori posto. Sarà per la voce, a tratti come quella di un pulcino imberbe, in grado però di inchiodarti, proprio come le mani del cattelaniano Charlie, ripreso appunto da Sethu insieme ai Bnkr44 nella serata sanremese dedicata alle cover.
Qui ci sono lacrime, rapporti, beat e sample che vengono fatti girare, l’irruenza che vive sul crinale fra punk e rap, che talvolta possiamo non comprendere, ma si incolla come le migliori strenne pop (nonostante passaggi radiofonici pressoché assenti e visualizzazioni tutt’altro che mainstream) a farla girare un paio di volte. Sarà il fischio, saranno le voci infantili che arrivano a una certa, sarà il vigore teen di Sethu, ma il tutto funziona perfettamente: pianti, rimpianti e posizionamento nel mondo compreso.
Ci sarà tempo: non è pioggia, è solo un’altra lacrima, su di me, su di noi, rimanendo ad aspettare che il cielo ci cada addosso, uccidendoci.
Syk: The Cross
di Max Zarucchi
L’uscita di Dalila Kayros dal gruppo, seppur amichevole, aveva messo in affanno i fan dei Syk. Inutile negare che uno dei punti di forza della band era proprio la voce femminile, in grado di coprire diversi registri e dipingere infinite combinazioni emotive.
Ma Stefano Ferrian, unico membro fondatore rimasto, non si è perso d’animo e ha spostato il suo baricentro, continuando sì a macinare riff su riff, ma mettendosi anche dietro al microfono. Il risultato è eartHFlesh, un album che in pochi si aspettavano, dove le soluzioni sonore dei Syk si fanno, se possibile, ancora più intricate, ma spingendo decisamente l’acceleratore sull’aggressività, mai fine a se stessa.
Ne è un chiaro esempio il singolo The Cross, tre minuti e tre quarti di caos controllato, un assalto asfissiante operato in maniera chirurgica che inchioda letteralmente l’ascoltatore lasciandolo frastornato quanto basta per volerne ancora. Il rimescolamento di carte e di idee all’interno della band, invece che ammazzare tutto, ha donato nuova linfa vitale per un continuo che sa anche di rinascita artistica e fa ancora centro.
Solo per anime nere avvezze al dolore.
The Albinos: Bet You Don't
Si definiscono «A small group of dirtbags that hack together Noisy Garage-Psych tunes», etichetta indubbiamente catchy ma che – come spesso accade, a parte escludere estremi tipo il rap tamarro, la dance anni ‘70 e i canti gregoriani – non restringe granché il campo né aiuta a farsi un’idea precisa riguardo a chi o che cosa siamo effettivamente davanti.
Costretti quindi all’empirismo spicciolo e all’osservazione/ascolto sperimentale, riportiamo innanzitutto un dato di fatto: abbiamo di fronte l’ennesima band che, nell’annosa diatriba che vede da un lato i fan del “The” nel moniker e dall’altra coloro che lo tolgono anche quando ci vorrebbe (diatriba, tra l’altro, responsabile di non pochi fraintendimenti nei secoli dei secoli), abbraccia decisamente la prima mozione. I ragazzi infatti, oltre che nel nome, il “The” lo mettono anche nel titolo dell’album di debutto, dove, onestamente, suona abbastanza di troppo.
Per il resto, anche quel mare magnum di notizie e ragguagli ai più noto come internet in questo caso ci delude miseramente, cosa in parte giustificata dall’unica altra informazione in nostro possesso, ovvero che gli Albinos si sono formati nemmeno un anno fa. Pare sia successo «nei boschi poco fuori Houston, Texas», il che se non altro ci fa scoprire che intorno alla più grande metropoli della Galveston Bay c’è un po’ di verde, noi che pensavamo fosse tutto deserto e shuttle pronti a essere sparati nello spazio profondo — non si finisce mai d’imparare!
Deserto che, comunque, qui la fa da padrone: l’orecchio infatti ci conferma uno stoner rock psichedelico e polveroso, dove la sabbia incrosta i pickup delle chitarre, la batteria pizzica secca e dura come un cactus in riserva e il cantato (dovremmo piuttosto dire il cantilenato) mostra deliziosi cedimenti che suggeriscono un uso di quaalude danzante ai confini dell’abuso.
Sono gli anni Sessanta essiccati al sole dei primi Duemila, i Brian Jonestown Massacre che incontrano i Queens of the Stone Age per limitarne le pulsioni distorte ed eccessivamente metal, i Dandy Warhols presi male, gli Uncle Acid presi bene, gli Warlocks finiti a dormire per una notte sul divano dei Limiñanas, i Black Angels confinati sui nastri di un 8-tracce di seconda mano.
Roba scialla che vive l’oggi in uno stato di lucidità precaria, guardando al passato, ma senza nostalgia: piuttosto, come unico passatempo che ti può permettere di arrivare a un qualunque domani.
Unleash the Archers: Blood Empress
Gli Unleash the Archers hanno il coraggio di spingere il power metal – genere canonicamente indirizzato a concept fantasy piuttosto sterili ed escapisti – verso qualcosa di più concreto e ancorato alla realtà, per quanto sempre rappresentando paure odierne in un contesto narrativo creativamente molto spigliato.
La band canadese, ormai giunta al terzo album, ha rappresentato negli ultimi anni una grande rivelazione per gli appassionati di doppia cassa e melodie multicentrum, ma per brani come Blood Empress, la rapidità delle ritmiche e l’esasperazione canterina tipiche del power sono piegate alle necessità emotive del racconto. Il brano specifico punta sull’enfasi del cantato e spinge sull’acceleratore solo dopo una lunga e sentita rincorsa.
Blood Empress è la chiusa del disco e rappresenta la malinconica conclusione delle avventure di un’AI in un mondo climaticamente compromesso, dove gli uomini veri sono relegati in capsule biologiche, al riparo dall’ambiente invivibile. Gli Unleash the Archers hanno sacrificato la propria dose di tamarreide per dare a questo viaggio futuristico la necessaria e drammaticissima teatralità.
WHY?: The Letters, Etc.
Non è mai il momento giusto per perdere le proprie certezze ed essere costretti a cambiare una parte importante della propria vita. Per quanto siano alcune scelte a determinarlo, non lo si decide del tutto consapevolmente e quando ci si ritrova a guardare il mondo da una prospettiva così diversa si inizia inevitabilmente una fase nuova.
Gli Why? trattano il tema in un modo talmente diretto in The Letters, Etc. da riuscire a far coincidere quasi perfettamente le parole del testo con le esperienze dirette di ognuno. La canzone infatti racconta della fine di una storia d’amore mescolando i gradevoli ricordi del passato con le oscure sensazioni di solitudine del presente, senza il gravoso fardello del rancore, ma piuttosto accogliendo questa nuova condizione con una ritrovata consapevolezza.
Un invito a riprendere il controllo della propria vita lasciandosi alle spalle il dolore dell’abbandono, in una ballata morbida in bilico tra l’allegro e il malinconico, la cui formula sonora combacia perfettamente con le sensazioni che evoca e che, per questo, riesce a spezzare il cuore lasciando in bocca un sorriso.