[New Music Weekly] A lezione di ripetizioni dai Porridge Radio, di poesia dal Muro del Canto, di coraggio temerario da David Gilmour e Body Count
Settimana 39 – con Porridge Radio, Il Muro del Canto, I Melt, The Courettes, Swallow the Sun, Vieri Cervelli Montel, Christ vs. Warhol, Warmduscher & Coucou Chloe, Kazumichi Komatsu e altri
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Vecchi di quasi ottant’anni che non ne vogliono sapere di ritirarsi a vita privata per campare di rendita ne abbiamo? Ecco David Gilmour che regala un pezzo iconico dei Pink Floyd ai Body Count di Ice T. Anzi, lo risuona pure insieme a loro. Il risultato (non) è quello che potete immaginarvi. Da capire se sarà la classica botta e via o l’inizio di una proficua relazione. Relazione che, a sentire le sue canzoni, proficue raramente lo sono state per Dana Margolin: i suoi Porridge Radio continuano a ripetercelo, con un indie-rock diretto, ma sempre e comunque stratificato. Poesia, a modo loro, come poesia più vecchio stampo era ed è stata quella del Muro del Canto, che oggi cita Montale continuando a parlar come Trilussa, o quella di Vieri Cervelli Montel, che riprende i versi di Salvatore Sini per accompagnare la lingua sarda su un altro livello di raffinatezza. Rimanendo in tema di idiomi difficili da decifrare, da provare anche lo shogaze elettronico di Kazumichi Komatsu, qui accompagnato da Yumea Horiike.
Il resto va dal death rock ri-attualizzato dei Christ vs. Warhol al doom radiofonico degli Swallow the Sun, passando per il rockabilly anni ‘60 dei Courettes, attraverso i punkeggiamenti adulti degli I Melt e l’eclettismo spinto degli Warmduscher (chiamatela strampalaggine, se preferite) per l’occasione coadiuvati dall’ottima Coucou Chloe.
Body Count (feat. David Gilmour): Comfortably Numb
di Max Zarucchi
David Gilmour (ex Pink Floyd per chi avesse vissuto su Marte negli ultimi sessant’anni) ha pubblicato da poco il suo ultimo lavoro solista, Luck and Strange. Disco più che dignitoso, dove il Nostro cerca qua e là di spaziare nel suo modo di fare musica pur rimanendo ben ancorato nella sua comfort zone.
D’altra parte è un signore di quasi ottant’anni, che da tempo ha preferito una serena vita in campagna circondato dalla numerosa famiglia e da milleuno animaletti, serenamente cullato nelle braccia di madre natura e tenuto per mano dalla sua compagna di vita, Polly Samson. Quindi è uno tranquillo che non ama correre rischi, no? No.
Con un colpo di scena inaspettato da ogni essere vivente del sistema solare, eccolo dare non solo la sua approvazione, ma addirittura comparire come ospite (sia in studio che nel videoclip) della cover di Comfortably Numb a opera di Ice T e dei suoi famigerati Body Count. Ora, parlare del brano in sé è quantomeno inutile: la base musicale è quella del riff portante (non del ritornello) ripetuta a mo’ di loop, il testo al vetriolo che sostituisce quello di Roger Waters è un pugno dritto allo stomaco e forse il mega assolo continuo di David (che non si limita alla coda del brano ma che è presente in tutti i sei minuti e passa del pezzo) alla lunga può lasciare un po’ così, ma il punto è un altro.
Se due mondi apparentemente così distanti riescono a trovare un accordo per fare qualcosa insieme, è segno che, a prescindere da background e fama, è l’obiettivo comune che diventa collante, alla faccia di chi non ci avrebbe mai scommesso nemmeno un centesimo.
Qualsiasi accordo si può fare. Basta volerlo e trovare un punto d’incontro. Capito, Vladimiro uno e due? È chiaro il concetto, Nety & Co.?
Christ vs. Warhol: Kick!
di Max Zarucchi
Chi si ricorda dei Christ vs. Warhol? Di sicuro tutti coloro che ne sono rimasti orfani all’inizio degli anni Dieci. Dopo uno splendido debutto (quel Dissent che era stato un must per tutti gli amanti del Death Rock più chitarroso), infatti, i nostri si erano messi in pausa a tempo indeterminato, allontanandosi dalla musica per dedicarsi alle proprie vite al di fuori dei palchi e degli studi di registrazione.
Sotto la sempre paterna ala protettrice di William Faith, tornano oggi con un album, We… the Victims of History, che è il degno prosieguo della loro carriera: non perdendo di vista ciò che sono stati, i Nostri nemmeno fingono che il tempo si sia congelato e apportano – probabilmente in modo involontario – una serie di modifiche sostanziali al loro sound che, pur senza snaturarsi, risulta ora attuale e fresco invece che una semplice rilettura di quello che fu. Lavoro eterogeneo (dal già citato death rock al goth rock, passando per l’indie e soluzioni più cabarettistiche), è un album da assaporare più volte per riuscire a gustare fino in fondo le sue mille sfaccettature.
Prendete ad esempio Kick!, forse il brano più diretto del disco: non sembra un matrimonio improbabile tra i Banshees e le soluzioni armoniche alla Cobain? Che c’azzeccherebbe? Eppure il tutto funziona alla grande, a dimostrazione che i Christ vs. Warhol possono anche aver acquisito qualche ruga, ma di certo non hanno perso la voglia di stupire e stupirsi cercando sempre e comunque la strada meno banale per convogliare la loro arte e metterla in musica.
Il Muro del Canto: Montale
La formula alla base del progetto Muro del Canto era, agli inizi della sua storia, quella della riscoperta della musica popolare romana, in una originale rilettura in chiave moderna di stilemi del passato attraverso brani inediti avvolti in un’atmosfera oscura, notturna e una scrittura profonda e viscerale. Una fusione di passato e presente che ha sempre avuto il tratto comune della ispirata penna di Daniele Coccia e della rappresentazione di un’umanità logora e provata dalle difficoltà dell’esistenza, ma sempre viva, capace di lottare, pronta a non rassegnarsi.
Nel corso degli anni la loro musica si è sempre più trasformata in un cantautorato di qualità, pur mantenendo salde le proprie origini: una trasformazione per certi versi inevitabile e frutto dei cambiamenti intercorsi nel tempo nella formazione della band, da cui prima è uscito il chitarrista Giancarlo Barbati, che come Giancane ha intrapreso la sua carriera solista da ormai diversi anni, e poi Alessandro Pieravanti e Alessandro Marinelli.
Una “nuova era” di cui una canzone luminosa come Montale sembra indicare il percorso: un brano d’amore e di fragilità, di paure e di consapevolezza delle proprie difficoltà, con sonorità coinvolgenti che rimandano più al rock che al folk. Determinanti in questo senso l’utilizzo di una vera batteria al posto del particolare set utilizzato da Pieravanti nei lavori precedenti della band, e delle tastiere.
Montale è un pezzo sulla personale determinazione che segue il filo concettuale della consapevolezza e della rinascita: un racconto universale perché parla di sentimenti e sensazioni senza tempo.
I Melt: Chiusi fuori
di Max Zarucchi
Si può essere delle punk pop star anche se non si riempiono gli I-Days? Certo che sì, basta abbassare le aspettative e godersi al cento per cento quello che si ha. Chiedetelo ai Melt, che a cavallo tra i due millenni riempivano i club, le piazze e i festival di tutto il Veneto (e non solo) con estrema facilità. Poi, come spesso accade, subentra altro: cambiano le mode, cambiano i musicisti, cambiano le priorità: chi arranca alla ricerca di una stabilità economica necessaria nel post laurea, chi mette su famiglia, chi si dedica semplicemente ad altro.
Eppure, nonostante gli anni passati, quelli che stavano sotto il palco continuano a ricordarli con affetto, ed ecco allora che (con qualche capello in meno e un paio di chili in più) il trio si rimette assieme nel 2023 per una serie di date che fanno la gioia sia di chi all’epoca c’era, sia di quelli che per questioni prettamente anagrafiche se li erano persi. Naturale quindi ricominciare da dove ci si era fermati: poche ciance e i Nostri buttano fuori un singolo nuovo di pacca, che sembra letteralmente uscito da un cassetto dimenticato di vent’anni fa.
Chiusi fuori a livello musicale ha il loro tipico tiro, ma la differenza rispetto al “prima” sta nelle liriche: non sono più dirette ai giovani uomini che saranno, ma agli adulti che sono, con tutte le loro contraddizioni e delusioni, outsider forse un po’ troppo cresciuti ma ben coscienti che anche volendo un cerchio non può diventare un quadrato.
Un gradito ritorno per un piccolo culto che in fondo in fondo non se n’era mai andato, aveva solo avuto qualcosina da fare.
Kazumichi Komatsu (feat. Yumea Horiike): Hikari
Basta sentire la musica, lontana, di un’arrembante frenato, con una potenza che avvicinandosi si fa sempre più nebbiosa. Poi la sua voce, cristallina, eterea e misteriosa. Lei è Yumea Horiike, qui con Kazumichi Komatsu a regalarci uno dei brani più toccanti del suo ultimo album Computer Music.
Sebbene nel disco l’ispirazione sia ampia e raccolga diversi stili e generi, qui ben si lavora nel tratto del less is more: nemmeno tre minuti di lunghezza, la sensazione di ascoltare un nastro sul quale siano state registrate miriadi di canzoni, un’emozione che lacera il cuore e viene trattenuta a stento, mentre cerchiamo di capire cosa succederà in questa storia. Hikari dovrebbe significare “luce” e da questa semplice parola potremmo immaginare di tutto: lontananze, passioni, amori, distanze.
La fantasia sognante la fa da padrona e noi sotto alla pioggia bofonchiamo parole che ci risultano incomprensibili, sentendoci più scafati di quel che siamo: così come facevano da piccini con i brani in inglese, ora proviamo a imitare questa splendida voce e i sui incomprensibili vocalizzi. Percepiamo un «endless I love you» che già significa molto, moltissimo, e ha la capacità di strapparci il cuore definitivamente.
«Watashitachi no kokoro ga mier mizutamari ni anata no kotsu ga utsuru to, kore modo utsukushī mono wa arimasen.»
Guardarsi le scarpe non è mai stato così bello se riflessi nelle pozzanghere possiamo vedere i nostri cuori.
Porridge Radio: God of Everything Else
Suona più come un’urgenza incontenibile che un vero e proprio schema compositivo. Un automatismo di difesa, diciamo, mica una strategia pensata a tavolino. Una cosa di cui non si riesce a fare a meno, insomma, che ha ben poco di razionale, viene dalla pancia e sale in gola, raschiando via quel che resta delle corde vocali in un reflusso di coscienza a metà tra il sollievo e la rassegnazione, tra la liberazione dell’anima e la dipendenza da Gaviscon.
Fatto sta che in quasi tutte le canzoni dei Porridge Radio arriva un momento in cui l’intensità sale oltre la soglia della distorsione (intesa in senso lato, non solo acustico, melodico o di semplici decibel), il ripetersi didascalico e ossessivo di un verso o di un ritornello esplode in una frastagliata, bizzarra euforia disperata. E dico “euforia” nonostante il livello di avvilita inquietudine dei contenuti, perché, nel caso della band di Brighton, ripetizione difficilmente fa rima con monomania: è più spesso sopravvivenza, perseveranza, rifiuto di fare marcia indietro di fronte a (o, peggio ancora, di farsi abbattere da) il suono del proprio cuore che si spezza.
Questa nuova God of Everything Else non si sottrae al complicato, quasi incoerente, pattern di cui sopra. Non esattamente una breakup song, quanto piuttosto un piccolo uragano privato che scortica la superficie di una ferita aperta, una poesia di pugni nello stomaco che prova ad autocompensarsi con del rumore catartico e vede Dana Margolin continuare a navigare lungo i bordi del suo stile di scrittura a botte di amore malato sotto forma di diarismo spinto, flirtare con la follia vendicativa, trovare un attimo di tregua per poi schizzare come una saetta nel cielo scuro dell’alienazione mentale, di nuovo, quasi con masochistico compiacimento, fino a ritrovare magicamente consapevolezza di sé.
Perché ci sono certi tipi di dolore che finiscono per farti sentire invincibile, se te li porti dentro a macerare abbastanza a lungo. E infatti qui non siamo di fronte a un’amante umiliata, ma a una sapiente bombarola dei sentimenti che risponde picche avvelenate al minimo concetto di placida risoluzione di un contenzioso e che, musicando la colonna sonora di una detonazione nucleare appassionata, rade al suolo il suo Sansone, tutti i Filistei, e pure l’intero pianeta su cui hanno avuto la malcapitata idea di abitare.
Appurato che la ragazza, in termini di casting dei partner, non pare essere stata tanto fortunata, visto che sul tema “se mi lasci non vale e comunque peggio per te” c’ha quasi ormai costruito una carriera, rimane un retropensiero seducente a stuzzicarci l’ego: se da un lato deve risultare abbastanza terrificante ritrovarsi a essere l’oggetto di un affetto così intenso, anche il fatto che qualcuno scriva con tanto fervore una canzone per te… son soddisfazioni!
Swallow the Sun: MelancHoly
Difficile dire qualcosa di nuovo in un genere come il doom metal. O si giunge a paradigmi innovativi dal punto di vista timbrico, a estetiche particolari, o tanto vale pensare, ancora una volta, a scrivere belle canzoni accattivanti che riescano a catturare subito un ascoltatore, sempre più saturato da un’infinita possibilità di scelta e da uno span attentivo sempre minore.
Gli Swallow the Sun, nuovi padrini di un certo doom / melodic death, sembrano aver fatto propria questa lezione e infatti con MelancHoly puntano a offrire un singolo catchy fin dal primo ascolto, con un ritornello che si stampa subito nell’orecchio e un’attitudine che sembra ricordare i più radiofonici Katatonia. Seguendo perfettamente l’esempio di Moonflowers – un gran bel disco, c’è da dirlo –, i finlandesi riescono a colpire nel segno e a inquadrarsi in uno status di ormai difficile scalfimento. Anche qui, dove la cara e vecchia malinconia assurge a entità sacra.
Il commento del cantante Mikko Kotamäki: «Ho sentito in questi giorni persone che chiamano le canzoni più fighe e orecchiabili “bangers”. Beh, questa lo è davvero.» Vero è infatti che, dei tre singoli proposti per il nuovo album Shining, questo è il più facile all’ascolto ma per questo ancora più capace di mostrare il lato immediato – e mai scontato – di una band che sta mietendo consensi anno dopo anno ed esibizione dopo esibizione.
The Courettes: Keep Dancing
Batteria, chitarra, tastiera e una splendida voce femminile. La melodia risuona in testa fortissima, inizialmente non riusciamo a capire… ma poi arriva! Il brano è uno splendido omaggio (plagio? Furto? A chi importa, è bellissima!) a Be my Baby di Vanessa Paradis e l’impianto non ci fa per nulla sentire la sua mancanza: i Courettes hanno carisma da vendere, una splendida chimica e il giusto mix nel DNA. Groove a pacchi, soprattutto, e infatti continuano a danzare, lanciare versetti con le loro voci flautate e i loro coretti. Sembra la Swinging City, ma come fosse improvvisamente zittita dallo scalpiccio di un paio di tacchi da virago, che rendono il tutto ancora più elettrizzante.
Di loro sappiamo poco o nulla, se non che sono una coppia (Flávia e Martin Couri i loro nomi) e che hanno disseminato una sequenza quasi incredibile di album dal 2018 a oggi, per non dire dei singoli e dei 7”.
Vero rock’n’roll, di quello più bastardo che non ha paura di mischiarsi con il pop e con il romanticismo, in grado di farci aprire il cuore e di strizzarlo per poi scagliarlo a terra. Il meglio, da sempre, e in effetti questo brano si fa ascoltare a ripetizione, portandoci a cercare di immaginare quali altri luccichii potrà contenere il loro imminente lavoro.
Vanessa ascolta, ancheggia e sorride sorniona: oh, mais oui!
Vieri Cervelli Montel: A Diosa (Non potho reposare)
Scritta sotto forma di poesia da Salvatore Sini e musicata da Giuseppe Rachel come valzer lento nel 1920 A Diosa (Non potho reposare) è una canzone enorme, vasta come il mare che contorna l’isola sarda. Molte le versioni conosciute, da quella di Andrea Parodi a Pierangelo Bertoli, da Mahmood a Bianca Atzei, a tutti i cori sardi. Un brano che chi ama la Sardegna finisce per sentire suo, tumultuoso e complesso, selvatico e succoso.
Vieri Cervelli Montel, dopo il suo debutto I del 2022 (ma ricordiamo il suo primo vagito con una splendida Almeno tu nell’universo l’anno prima), si prepara al rientro e approfitta della compilation della sua etichetta Trovarobato (che compie dieci anni, auguri!) per regalarci una splendida versione di questo brano.
Dieci minuti secchi, nei quali l’uomo, il suo cuore e il suo sentimento sembrano guidati direttamente dal flusso delle maree, ora lasco e sommesso, ora alto e impetuoso. La sua voce e la sua lingua sono mutevoli, visti e considerati i suoi lavori in Tanca Records (che di Trovarobato è sotto-etichetta gestita direttamente da IOSONOUNCANE e che vede Daniela Pes tra le sue fila), la cosa non stupisce. Sorprende invece la facilità con la quale si erge come massa impenetrabile e stoica all’orizzonte.
«Nuoro 23/7/ 1915 ore 15 e 50 a ore 16, A diosa. Non potho reposare, amore, coro, pensande a tie so donzi momentu: no istes in tristura, prenda d’oro, nè in dispiaghere o pensamentu. T’assicuro chi a tie solu bramo, ca d’amo vorte, d’amo, d’amo, d’amo» scriveva Sini poco più di cento anni fa. Parole che ancora spezzano e che Vieri Cervelli Montel ci regala ancora una volta, salate di mare e lacrime.
Warmduscher (feat. Coucou Chloe): Cleopatras
«Bills and grief, it’s all you leave.»
Ecco, dall’IndieRocket Festival di un paio di anni fa – rassegna musicale “alternativa” che è un vanto per la città di Pescara – è sbocciato un amore tra colui che vi scrive e i Warmduscher: strampalati, impattanti e fottutamente divertenti. Un post-punk contaminatissimo, a tratti quasi irriconoscibile per quanto rimodellato e adattato a improvvisi languorini electro, eruzioni hip-hop e sgangherate mosse da discoteca dance punk.
Insomma, un disco dei Warmduscher sai come inizia, ma non sai mai come finisce. È esattamente per questo motivo che non siamo affatto sorpresi del nuovo singolo Cleopatras, che andrà ad arricchire il prossimo Too Cold to Hold, in uscita il 15 novembre, in una maniera che… beh, è tutto un programma. Chiamata alle armi la producer e cantante Coucou Chloe, i londinesi mettono su un pezzo insidioso, che basa la sua efficacia sul progressivo inserimento di strati via via più ingombranti – il pattern di batteria e l’astuto riff di basso, ripetuti allo sfinimento, i bastioni di synth che paiono imitare il barrito cupo di un sax, le sei corde che danno prurito ronzando nel finale – su cui si passano il microfono l’artista francese e l’eminente Clams Baker Jr, dando vita a un botta e risposta sgangherato e ipnotico a mo’ di invettiva contro tali “vampiri succhia-energia”, ossia esseri alieni che tentano di disintegrare la voglia di fare, sperimentare e costruire di chi abita sul pianeta Terra.
Una danza ricolma dell’irriverenza di casa, ma questa volta con un tocco di amarezza che aleggia attorno a una storia che pare fantascienza, ma che olia, invece, i meccanismi portanti del mondo, soprattutto quello dell’arte: state alla larga da chi vi tarpa le ali, sfoggiate le peggiori dance moves mentre vi sparate i Warmduscher nelle cuffiette.