[New Music Weekly] A$AP Rocky che ci prova con Taylor Swift, Geordie Greep dopo i Black Midi, Devin Townsend dopo gli Strapping Young Lad
Settimana 34 – con A$AP Rocky, Radar Men from the Moon, Sólstafir, Geordie Greep, Devin Townsend, Second Harbour, Manicburg, NECKBREAKKER, Coilguns, Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp.
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A nessuno è dato sapere se è stato un semplice errore di battitura o un modo per pararsi il culo in sede legale, ma quel che è sicuro è che il nuovo singolo di Rakim Athelaston Mayers non è andato propriamente giù ai fan della popstar più famosa d’America. Eppure il pezzo (per non parlare del video) è a suo modo brillante. Ma se tiriamo in ballo i typos, che dire dei NECKBREAKKER? Analfabetismo vichingo funzionale a una musica che se non vi manda dal dentista poco ci manca. Ma dicevamo dei video di un certo livello: guardate quello di Devin Townsend — un po’ Shpalman, un po’ Mastro Lindo, un po’ Tafazzi. Altri ex frontman di band morte e sepolte ne abbiamo? Certo: ecco Geordie Greep che da solista tira dentro forse più influenze di quanto già non facessero (e non erano poche) i Black Midi.
Il resto spazia dall’emo-hardcore dei Second Harbour ai gas mefitici degli islandesi Sólstafir, dagli scatti ferini dei Coilguns ai baratri scuri dei Radar Men from the Moon, dal genio rock dei Manicburg a quello (diverso, ma non meno genio) tutto personale di una banda che già dal nome la dice – letteralmente – lunga: Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp.
A$AP Rocky: Taylor Swif
Che possiamo dire di Taylor Swif? Forse il singolo e il videoclip più d’impatto dell’intero anno. Un filmato di poco più di tre minuti dove ci si ritrova immersi in un Europa dell’Est decadente e fantastica, con Rakim Athelaston Mayers (meglio conosciuto come A$AP Rocky), from Harlem, New York, che sfodera tutto il suo immaginario.
Il brano è talmente avvolgente e psichedelico da sposarsi a meraviglia con immagini così surreali, al punto che ci si ritrova ubriachi fra le rime, le bestie e i figuranti che appaiono in questo calembour. Non sappiamo che reazione abbia avuto la velatamente citata Taylor Swift (a quanto pare i fan non l’hanno presa benissimo, ma tant’è), anche se l’essere stata scintilla di una chicca così visionaria non potrebbe che essere l’ennesima tacca nella cintura di una popstar del suo calibro.
Comunque sia, A$AP Rocky ribadisce come al momento il più funk sia lui, tra costolette d’agnello, funzioni andate a professioniste dell’ammore e la capacità di far perdere il senso delle proprie parole, innestandole su un corpo musicale a cura di Hitkidd, che mette in pace tutti. A bocca aperta ma in pace.
Coilguns: Generic Skincare
Kevin Galland, Luc Hess, Louis Jucker e Jonathan Nido sono i Coilguns. Istituzione elvetica e sorta di supergruppo votato allo scatto ferino fra punk, hardcore e noise rock: basso, batteria, chitarra, synth e voce.
Hanno scelto Generic Skincare per iniziare a farci salivare verso il loro prossimo disco, Odd Future. Un brano ondivago dove parti più hardcore si sposano con blocchi più massicci e oscuri e voli più mobili. Se calcoliamo che gran parte della canzone è sostenuta dal canto di un Jucker opportunamente invecchiato da sembrare quasi ottantenne ci sarebbe da sotterrare la buonanima vecchietta di Robert De Niro.
I quattro scorrazzano fra la cittadina, sedere fuori dall’auto, una stanza piastrellata nella quale dar fondo alla propria energia. Un sogno, certo, forse il ricordo di quegli anni ruggenti, con la sensazione di avere ancora sottopelle quella scarica di adrenalina che portava il nostro cantante a saltare sulla batteria dimenandosi come un ossesso.
Non sappiamo quale sia la realtà e quale la fantasia, di certo i Coilguns sono sempre più una certezza e non mancheranno di conquistare gli ascoltatori con un suono che si amalgama perfettamente nelle sue componenti, lisce e coese come una pelle adeguatamente curata. Si può essere feroci e delicati nel medesimo istante: buono a sapersi.
Devin Townsend: PowerNerd
Ha l’aria di essere un progettino niente male, forse un po’ defaticante, ma di sicuro non vengono meno il talento e la genialità di Devin Townsend. Dopo aver messo da parte la burineide degli Strapping Young Lad, sembra esplodere in una nuova veste l’attitudine puramente caciarona del canadese più lucido che ci sia sotto al sole.
PowerNerd potrebbe essere una nuova categoria musicale, il power-space. Sonorità vaste, sci-fi demente, incontinenza tastieristica e chitarre esponenziali sopra una forsennata base ritmica, piattona e che corre verso il nulla dello spazio profondo, dove nessuno può sentirti masturbare. La voce hard rock più selvaggia e cafona di Devin, spinge verso lidi metallari a metà tra Airbourne, Alec Empire, e Rage.
Il brano è l’ideale bevanda energetica per ogni inizio di mattina. Non usatela mentre siete in macchina o vi multeranno per eccesso di grida e atti di libidine con la lingua. Sorprende che un uomo ormai sugli anta, sappia infondere più entusiasmo ed energia di un gruppetto di sbarbi con gli ormoni e la serotonina a mille.
Dio ti benedica, Mr. Townsend, in qualsiasi galassia ti ritrovi al momento.
Geordie Greep: Holy, Holy
Quando Geordie Greep in una diretta Instagram, rispondendo alla domanda su un nuovo album dei Black Midi, ha risposto che la band era finita e e si scioglievano a tempo indeterminato, la reazione era stato di sconcerto. D’altra parte i Black Midi, insieme ai loro amici Black Country, New Road, rappresentavano indubbiamente una tra le band che maggiormente esprimevano grandi potenzialità e sembravano poter avere un grande futuro.
La loro fine ha aperto comunque la strada alle carriere da solisti. Per esempio bassista e cantante Cameron Picton ha immediatamente annunciato di stare lavorando al suo album, ma a quanto pare è stato battuto sul tempo da Geordie che esce con questo Holy, Holy, una vera bomba sonora che va a esplorare terreni diversi: dal noise-rock, al prog-punk , fino al math rock, avventurandosi in un sound complesso ma pieno di spunti diversi. Un festival sonoro ricco di strumentazioni, una sezione ritmica frenetica e nervosa che dà la sensazione di una scrittura tra world music, jazz e funky con un tocco inquietante reso ancora più intenso dalle liriche e dal video che lo accompagna.
Il testo traccia una storia che lentamente diventa sempre più squallida mostrando la figura di un uomo che nel narrare il suo grande successo con il genere femminile si rivela, man mano che la canzone va avanti, falso, viscido ed estremamente solo e insicuro, accompagnato da un video che lo mostra mentre beve, balla e infila uno strike dopo l’altro.
Geordie Greep, con questa nuova uscita, finisce con il farci venire l’acquolina in bocca preannunciando un album nel quale la sperimentazione e la presenza di molti musicisti sarà sicuramente capace di regalarci un sound non banale e per certo stimolante.
Manicburg: One for You and One for Me
Un pianoforte, uno studio dentistico, il pathos che ci cade letteralmente addosso come gocce di pioggia. Musica teatrale, gonfia di ispirazione e comunque significativa, quella dei Manicburg, che riprende un disegno di barcollante grandeur senza perdere di vista il nocciolo qualitativo di certo pop-rock epico. Un viaggio corredato da un toccante videoclip con protagonisti un occhio e una bocca.
Sanno essere intensi e lirici, Ray Lustig e Luigi Porto, e in un solo brano riescono a farci entrare in un mondo fantastico dove attesa, agitazione e paura si trasformano letteralmente in note trascinanti, ronzanti cambiamenti di ruolo e calembours, stacchi lirici emozionanti e sospesi e molto altro ancora.
One for You and One for Me è musica che amplifica le emozioni e le sensazioni, musica ansiogena che non ci lascia scampo, musica come ingrediente di un progetto più ampio, che fin dall’inizio appare figurativo, immaginifico e totale.
Totalmente rapiti da questo primo passo, ci teniamo strette le conseguenze delle nostre azioni, dei nostri ascolti e delle nostre visioni. Ma soprattutto ci teniamo ben stretti i Manicburg, aspettando di saggiarne l’intensità morbosa e circolatoria sulla lunga distanza.
NECKBREAKKER: Horizons of Spikes
Con questo gruppo prevedo dei problemi già riguardo al nome. Loro si chiamano NECKBREAKKER, tutto scritto grande e con due “K” al posto del “ck” che richiederebbe la grammatica inglese. Immagino però che questa scelta sia nata per ovviare alla sfilza di band già esistenti con quel nome scritto nel modo giusto. Inoltre, essendo danesi e avendo fama di “sdrumare” qualsiasi pubblico che abbia la ventura di assistere ai loro concerti, la scelta di onomatopeizzare la pronuncia grezza nordica e birrosa di “spaccacollo”, sia anche coerente con i personaggi in questione.
Ma insomma, chi sono i NECKBREAKKER? Non c’è molto da raccontare. Hanno firmato per Nuclear Blast, discendono dai vichinghi e in un certo senso, appena si ascolta l’attacco di Horizons of Spikes, è come se un gruppo di venti energumeni avesse sfondato la porta di casa vostra e poi messo da parte la buona educazione per mostrarvi la frustrazione del poco che avete da saccheggiare.
Dicevamo dei problemi riguardo al nome perché, se si scrive “NECKBREAKKER” in rete, i pochi siti che parlano di questo gruppo dal pesissimo approccio (sembrano dei giovani Lamb of God tenuti in cattività fin dalla nascita e finalmente liberi di mordere il cranio ai propri carcerieri aguzzini) li presentano come “Neckbreaker”, scritto tutto piccolo e nella forma grammaticalmente corretta. Ciò produrrà un sacco di guai sul piano algoritmico, ma abbiamo fiducia che la band troverà voi, anche se voi non sarete in grado di trovare lei, scrivendo su Google il nome nel modo giusto. E quando vi avrà trovato, saranno dolori profondi.
Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: Breath
Un collettivo multietnico e multiculturale nato in Svizzera, con un nome altisonante come Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp che compone musica imprevedibile e non facilmente etichettabile: bastano forse questi pochi elementi per far drizzare le antenne a chi è alla ricerca di qualità e di sonorità originali. Se poi avete già ascoltato qualcuno dei loro album o avete avuto la fortuna di vederli suonare dal vivo, la sorpresa si tramuta presto in assoluta certezza.
Breath è un pezzo che in due minuti e mezzo scarsi racchiude tante cose diverse, come nello spirito della banda, in un crescendo di strumenti e di intensità che si incanala fino al travolgente ritornello, proprio come un respiro che passa rapido dalla quiete al fiatone, per poi scendere e ricominciare da capo.
Dalle percussioni ai fiati, dall’originalità del cantato all’energia delle chitarre, quella dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp è una vitalità contagiosa fatta di energie che si mescolano nell’unione di tanti musicisti che sanno sfruttare le molte buone idee senza disperderle.
Tantissimi colori ma dosati con equilibrio.
Radar Men From the Moon: Open Door to Vices
Debuttano nel 2011, i Radar Men from the Moon, e da allora hanno sformato la bellezza di 10 album e singoli vari, tra i quali due EP con Årabrot e White Hills, giusto per chiarire in quale campionato giochino. L’ultimo album, Vomitorium, è uscito per una Fuzz Club che ormai da anni è etichetta centrale nel commercio di un tipo di musica meno allineata, fra psichedelia e sperimentazione.
E infatti è difficile dire cosa stiano facendo i Radar Men from the Moon: di certo la loro è musica che appare sospesa fra diverse direzioni, e il video di Open Door to Vices ce ne mostra alcune. In primis le immagini, una sorta di found footage nel quale il vocalist della band (il neo-acquisto Niels Koster) si aggira incappucciato con una giacca a vento, sbraitando come un ossesso, mentre intorno a lui gli strumenti portano la musica letteralmente nel baratro, andando in una profondità che rammenta gli albori di Bauhaus e Christian Death. La batteria picchia come se non ci fosse un domani, basso e chitarra pulsano e grattano come se stessero preparando delle mine in una cava e il canto rimane a metà fra radici hardcore e stigmate williamsoniane. Il tutto nello spazio più buio. Chiaro, no?
In realtà Open Door to Vices, brano che va a chiudere l’album, è il grimaldello che può farci entrare in un mondo profondo, scuro e gibboso ma libero, dove dimenarsi e urlare, dichiarandosi amanti di Fred C. Bannon (regista del serial di fantascienza dal quale la band ha preso il nome, in italiano tradotto con I conquistatori della luna) e dell’uomo razzo, è cosa normale. Anzi, buona e giusta.
Second Harbour: The Most Dangerous Game
«When you dig through the pit of my stomach / Find I’ve never felt a love like this.»
Ah, l’amour. Un sentimento di una complessità disturbante, trait d’union e onnipotente capo di tutto quello che concerne il resto delle emozioni e conseguenti reazioni fisiche. Farfalle nello stomaco e occhi dolci da un lato, distruzione e senso di vuoto dall’altra.
Testa o croce, perché l’amore, talvolta, ricasca sulla faccia sbagliata: lo sanno i giovanissimi Second Harbour che scavallano la via fiorita – cuoricini e bacini non ci saranno, per capirci – andando a eradicare il dolore dal “dark side” del sentimento.
The Most Dangerous Game suona un po’ da avvisaglia fin dal titolo, d’altronde c’è bisogno di stomaci belli tosti per inserirsi tra le fredde linee dell’ultimo singolo della band di Montréal (Canada): un freddo che stride contro il caldo rossore che avvolge l’ideale atmosfera a cui siamo abituati, totalmente annichilito dall’imponente presenza della morte come metaforica compagna nel clou di una relazione tossica.
L’amore che devasta, che usurpa, che riempie e poi svuota tutto d’un colpo, accartocciando l’anima e gettandola nel più vicino cassonetto: tutto passa in questo ibrido contenitore riempito a emocore, ficcandoci dentro gli scream accennati, le melodie decadenti, le distorsioni irascibili e strusciandole su una base pop-rock che rimane, però, in seconda luce, giusto per qualche venatura di morbidezza.
Un sound che fa risuonare nell’aria quelle vibes malinconiche che sgocciolano dai Movements e dagli Holding Absence del self-titled, ma comunque capace di riscrivere una sua identità ben precisa, sintomo che i Second Harbour hanno ben più di qualcosina da dirci.
Sólstafir: Hún andar
I Sólstafir provengono dalla fumosa Reykjavík, città islandese antichissima, forse il primo insediamento umano da quelle parti. Il gruppo viaggia attraverso parecchi generi, dal post al black metal, con un senso di irrequietezza tipico degli avventurieri creativi e degli esploratori che non inseguono nulla, ma fuggono, non cercano ma trovano.
Hún Andar è un mid-tempo pieno d’atmosfera, di gas mefitici e di gelo che ti avvolge le ossa e te le blocca, obbligandoti a rimanere in mezzo al nulla, vasto e desolato, tra una natura brulla e intrattabile. Ci sono posti sulla terra che sembrano antichissimi pianeti lontani, su cui non c’è la minima istanza materna per noi parassiti. Sembra che i Sólstafir arrivino proprio da lì.
Il brano va dritto lungo un minutaggio corposo ma non eccessivo. Tutto scorre, come il tempo indifferente, con un arpeggio dilatato che forse abbiamo già sentito da qualche parte, ma che sa esprimere ancora un nordico adagio di tristezza. La voce a tratti sgraziata e lamentosa di Aðalbjörn Tryggvason ci sospinge come cattivi pensieri, lungo un umidissimo pertugio della nostra stessa anima, dove tutto è più freddo, brullo e ingeneroso.