[New Music Weekly] Alan Sparhawk dopo i Low, Eminem alle prese con l'Uomo Ragno, Kim Deal e i Bright Eyes in versione estiva
Settimana 30 – con Alan Sparhawk, Bright Eyes, Kim Deal, Armlock, Corduroy County, Julie, Miranda Sex Garden, Michael Kiwanuka, Raue, Setti, Tribulation, Eminem & Big Sean.
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Eccoci all’ultima Weekly prima della pausa estiva, anche per questo più ricca, con un paio di pezzi in più del solito in regalo.
Non potevamo ovviamente esimerci dall’esordire con l’annunciato (ma inaspettato in termini di tempistiche) ritorno di Alan Sparhawk, al primo vagito dopo la scomparsa della compagna Mimi Parker e la conseguente fine del progetto Low. Chi si aspettava una pastorale slow-folk o qualunque altra cosa potesse guardare al passato rimarrà deluso: trap tremebonda e fantasmi witch-house per un pezzo saldamente ancorato al presente, se non, addirittura, proteso verso il futuro.
E se di ritorni vogliamo parlare, salutate Marshall Bruce Mathers III nella versione barbuta di Eminem che, in combutta con loschi figuri come Big Sean e BabyTron, imbastisce tutta una storia animata di capre, uomini e ragni (ascoltare per credere). Ma anche Conor Oberst e i suoi Bright Eyes, o l’ex Pixies Kim Deal in versione solista: in entrambi i casi, un indie che si fa pop leggero per combattere l’afa e candidarsi a hit estiva contro il monopolio reggaeton.
Per rimanere in tema di voci femminili, consigliamo poi quella di Alex Brady, che con i Julie rimastica in maniera personale la lezione dei My Bloody Valentine e dei Sonic Youth, quella della diciannovenne Paige Kalenian, maggiore responsabile (insieme alla sua chitarra) di quanto i Raue odorino di alt/grunge anni ‘90, e tutto l’ensemble di Miranda Sex Garden, che per l’occasione ripesca un brano colpevolmente dimenticato e mai pubblicato.
Il resto oscilla tra il folk di provincia del nostro Nicola Setti, che ogni volta che scende al bar sotto casa torna ragazzo, i Tribulation post Jonathan Hultén, che si confermano un marchio di sicurezza nell’ambito del metal moderno, e il jazz raffinatissimo di Michael Kiwanuka, che vola altissimo in termini di intensità ed emozione.
Come ogni anno, sospendiamo le pubblicazioni per tutto il mese di agosto. Ci vediamo con la prossima Weekly a inizio settembre, senza però prima lasciarvi con due bonus track di pura music discovery – lo spleen malinconico e sognante degli Armlock da un lato, il rock’n’roll giovane e godereccio dei Corduroy County dall’altro.
Alan Sparhawk: Can U Hear
Era difficile capire come si sarebbe mosso Alan Sparhawk dopo i Low e in fondo lo è ancora. Per l’album toccherà infatti attendere l’autunno ma – qui è la prima sorpresa – in questa calda estate riesce ad arrivare con Can U Hear per ricordarci di appuntare il titolo White Roses, My God per il 27 settembre.
In poco meno di tre minuti e mezzo Alan riesce a unire oscurità, tremebonda pasta trap e fantasmi witch-house in un brano che, nonostante tutto, alle nostre orecchie risuona come una possibilità pastorale e perdutamente rurale. C’è l’orrore, lo sgomento, una sorta di sacralità incarnata in un pezzo passionale nel senso di sofferenza, dove le melodie vocali potrebbero anche essere soltanto urla a ricordarci lo stacco emotivo da un passato molto, forse troppo ingombrante.
Se possiamo fare un parallelo, questo è forzatamente con Kim Gordon, e il fatto che musicisti che hanno alzato l’asticella della musica per così tanto tempo con progetti che a tutt’oggi tolgono il fiato riescano ancora a sporcarsi, sperimentando con un suono del presente, rappresenta la forza delle loro unghie. Unghie che si aggrappano, che lacerano, che possono convincere, deludere, ma mai lasciare indifferenti. Come altri grandi prima di loro (pensiamo solo a David Bowie), continuano a lasciare tracce di un percorso lunghissimo che starà a noi seguire se lo vorremo: del resto l’intenzione non è di indicare la via, ma di perderla per sempre nel suono.
And anyway, yes: we can hear you, Alan.
Armlock: Ice Cold
In un mondo in cui il peso delle cose sembra sfuggente, gli australiani Armlock sembrano andare in una direzione del tutto contraria, ovvero quella di una ricerca del suono, delle sue combinazioni e delle relative sfumature di significato che ogni variazione comporta. La scrittura di Simon Lam e Hamish Mitchell sembra essere estemporanea, quando, al contrario, è il frutto di una scelta oculata e di una sensibilità che non vuole essere per nulla scontata.
A distanza di tre anni dall’esordio Trust, gli Armlock pubblicano il sophomore Seashell Angel Lucky Charm di cui Ice Cold è la traccia anticipatrice. La visione poliedrica di Lam e Mitchell si posiziona sul terreno indie di Stephen Malkmus e dei Pavement, con una stratificazione sommessa di electro-pop e spleen di derivazione The Go Find.
Il riff circolare di Ice Cold detta la linea armonica come in un loop lineare senza gravità in cui si aggiungono elementi che non alterano una spina dorsale attraversata da momenti di elettricità lievemente disturbante e glitch sintetici. Le voci sono dentro al suono del brano, immerse in un’unica placenta avvolgente, come se si trattasse di una parte del tutto, di uno strumento tra gli altri. Si avverte chiaramente un’attitudine ninety nel trattare la spinta delle chitarre che accarezzano anche quando si dissolvono in nuvole di fuzz etereo, cosa che contribuisce a trasmettere un’idea di malinconia sognante in cui rifugiarsi, lontana dalle sovrastrutture dello shoegaze. E finalmente la fragilità diventa il più potente mezzo per distinguersi da tutto il resto.
Brigt Eyes: Bells and Whistles
Bello scoprire come, nonostante tutto cambi e tutto invecchi, riascoltare alcuni gruppi riaccenda le medesime sensazioni.
Conor Oberst dei Bright Eyes mi ha sempre dato l’impressione di essere una persona troppo sensibile per mantenere un contatto prolungato con la fama, ma devo ricredermi. Sono passati ormai più di venticinque anni dai suoi esordi su Saddle Creek, l’etichetta formata dal fratello Justin e da Mike Mogis, suo sodale e membro dei Lullaby for the Working Class. E invece – dopo uno stop di più di una decade che ha visto rientrare i Nostri nel 2020 – ecco un nuovo segnale di vita: un brano pop, quasi “estivo”, nel quale Conor sembra sereno, fischietta mentre si racconta, sciorinando i passaggi di una vita squinternata ma in qualche modo retta da quella musica che ha fatto nascere tutto, facendo anche la voce grossa nell’attesa del contorno, ma assicurandosi che il piatto che ci arriva in tavola sia come quelli ai quali ci aveva abituato. Gustoso, casalingo, una madeleine che ci riporta a a quasi trent’anni fa quando era solo una giovane promessa e mai, giuro, mai, avremmo pensato di incontrarlo di nuovo qui.
È un piacere essere smentiti a volte: cento di questo giorni, Conor!
Corduroy County: Midnight
Due ragazzi e due ragazze: vagamente androgini i primi, piccole lolite dark queste ultime. Un quartetto pronto per disporsi su un palco di una simmetria quasi inquietante: il cromosoma Y lungo l’asse della profondità (voce / batteria), il cromosoma X lungo quello della larghezza (chitarra / basso). Vestiti il giusto: maglie di rete, intimo nero, pizzi emo senza merletti, pantaloni di pelle o short inguinali – poco altro. Sessualità ambigua di chi non sai bene se ci è, ci fa, o semplicemente sta ancora perso in quel limbo di fase post-adolescenziale quando sul serio non hai ben capito nemmeno te dove andare a parare e allora continui a sperimentare un po’ di tutto, poi vedremo.
Vengono dalla Bassa Sassonia, nello specifico da Pinneberg, a una ventina di chilometri da Amburgo: un posto un tempo parte del regno di Danimarca, ma oggi ormai dimenticato da tutti gli dèi del Valhalla e famoso giusto per ospitare l’antennona da cui viene sparata la maggior parte delle radio-telecomunicazioni meteo ai naviganti del Mare del Nord. Di più non sappiamo. Al momento, nemmeno uno straccio di album in saccoccia: appena tre singoli che comunque già puntellano su coordinate ben definite – rockettino danzereccio e maudit, eppure molto più classico di quello per cui vorrebbe spacciarsi con le sue scodate pop da un lato e post-punk dall’altro.
Midnight, per esempio, scivola via come fosse scritta dai primi Rolling Stones posseduti dallo spirito di Peter Murphy dopo un festino sulla Sunset Strip con i Mötley Crüe più piacioni, tra un basso tanto semplice e scolastico quanto solido, drum fill in crescendo e riff di chitarra ripetitivi a sufficienza, mentre il cantato al femminile – decisamente sensuale se siete fan della categoria teen – si alterna e si rincorre con l’acerbo baritono maschile di uno che ha appena lasciato il coro delle voci bianche per entrare nel meraviglioso mondo dell’acne. Colpisce nel segno, questo è un dato di fatto, con quel ritornello pronto per essere gridato a squarciagola da cinquantamila persone con le mani alzate sul prato dell’Olympiastadion, anche se verosimilmente i Corduroy County a oggi non sono andati oltre i palchi laterali dell’Oktoberfest. Poco male, e in ogni caso non credo ci sarà da aspettare molto: se c’è una cosa che possiamo affermare senza paura di essere smentiti è che – come direbbero in terra d’Albione – questi saranno pure squat-hall-sized, ma già belli che arena-equipped.
Parla di sesso violento ma comunque consenziente da entrambe le parti, di tirate per i capelli, mani alla gola, morsi, schiaffoni, manette, cinture borchiate e strisce di coca a notte fonda. Di un’urgenza musicale e non solo, di un rock’n’roll naughty & kinky, sempre in bilico sul crinale di un gioco ammiccante e malizioso che manca nulla per trasformarsi in tragedia. O, se vogliamo essere ottimisti, per mandare in vacca quel poco che ci si aspetta, visto il suo suonare in fin dei conti abbastanza naïf. Una roba che se l’avessero scritta i Måneskin li avremmo ricoperti di merda. Ma quella è un’altra storia.
Eminem (feat. Big Sean & BabyTron): Tobey
Il ritorno di Eminem ha posto qualche domanda al mondo hip hop. Al netto della sua valenza, visti gli ultimi album, sarebbe stato in grado di rimettersi ai vertici della competizione? Di sicuro l’uccidere Slim Shady, il suo alter ego, è una mossa coraggiosa, ma in questo ennesimo viaggio c’è molto altro. In Tobey il rapper di Detroit si fa accompagnare da Big Sean, nato in California ma cresciuto a Detroit e da BabyTron, da Ypsilanti, Michigan, già con gli ShittyBoyz.
Tobey è Tobey Maguire, Spiderman, l’Uomo Ragno. Come lui anche i rapper in questione (BabyTron nel caso) sono stati morsi, ma è stata una capra, the goat, a trasformarli nei Greatest of All Time. Occhio a chieder loro spazio, potreste ritrovarvi a soffocare nei pressi di Venere, in missione come Obi-Wan Kenobi, fumando su una Tesla con BabyTron e passando il tutto a Big Sean, che non vuole lasciare gli altri a dissanguarlo: non ha bisogno di lasciare qualche spicciolo sottobanco al DJ, sta con Cole Bennett, del resto.
Ed Eminem? Una leggenda come Melle Mel, salta sul beat sentendo continuamente Eye of the Tiger nella sua testa, chiudendo un triangolo con i due rapper di sopra e dimostrando che se non è il GOAT in questione lui, beh, è comunque di nuovo tra noi, con il suo baricentro basso: non sarà per nulla facile scalzarlo, potenziale villain tanto da mettere in difficoltà lo stesso Spiderman, ne siamo certi.
Julie: Clairbourne Practice
Già lo shoegaze piace per natura (alternativa), ma incorporaci dentro un carattere schivo, artwork a metà tra il fumettistico e il goth, quella polverina lo-fi a rendere il tutto ancor più intrigante (e ronzante) e nel 2024 avrai sicuramente successo, ancor prima di tirar fuori il tuo primo album – vedasi l’evanescente Wisp, arrivata all’EP di debutto (Pandora) con un già abbondante numero di seguaci.
In realtà i Julie mi avevano folgorato già con il corto Pushing Daisies del 2021 – dentro ci avevo sentito i My Bloody Valentine di Isn’t Anything e i Sonic Youth di Dirty, amore al primo ascolto – e mi avevano attirato nel loro trappolone fatto di singoli, doppi singoli e sussurri riverberati – maledetti, peggio delle sirene di Ulisse – generando, non solo attorno a me, ma anche a una ben vasta comunità, un hype praticamente dal nulla.
I milioni di visualizzazioni e stream parlano da soli, difatti la Atlantic li ha inglobati piuttosto velocemente nel suo roster: ne consegue l’attesissimo annuncio del debut album, che si chiamerà My Anti-Aircraft Friend e che uscirà il 13 settembre, preceduto dalla già nota Catalogue del 2023 e dall’ultima Clairbourne Practice.
Gemma cristallina di nu-gaze, il rombo della chitarra di Keyan Pourzand in ingresso, che ricalca l’arrembaggio di (When You Wake) You’re Still in a Dream dei sopracitati di Kevin Shields, fa da apripista a una canzone che collega apparenti assonanze a contrasti nascosti, infilati tra la dualità “sovrapposta” al microfono – orchestrata dallo stesso Pourzand e dalla frontwoman Alex Brady – e tra le brusche inchiodate che sezionano efferatamente la seconda parte, in una rappresentazione fragorosa di quella che è l’incomunicabilità, o meglio, la mancanza di connessione tra due persone.
Sostenere la stessa tesi, ma su due lunghezze d’onda diverse: una distanza camuffata come artificiosa vicinanza da una band a cui, invece, ci sentiamo già troppo legati, realmente.
Kim Deal: Coast
Dopo aver risposto a un annuncio apparso sulla rivista Boston Phoenix, la carriera di Kim Deal è decollata: l’inizio della frequentazione con Joey Santiago e Charles Thompson (altresì noto come Black Francis): quelli che sarebbero stati i Pixies, insomma. Poi, da bassista, la Deal è passata alla voce con i suoi Breeders. L’approdo al disco solista era già scritto (ricordiamo i singoli pubblicati per una serie in 7” Kim Deal 7″ Solo Series).
Ma arriviamo a oggi. Le radici di questa canzone risalgono al 2000, quando Kim si trovava sull’isola di Nantucket, nel Massachusetts. Un rifugio improbabile per la nativa dell’Ohio («Odio il sole, la spiaggia e gli sport acquatici» è uno dei refrain che si sentono citati nelle sue ultime dichiarazioni), un posto dove tutti controllano il WAM per le condizioni del surf. Il testo di Coast, invece, è stato scritto nel 2020 dopo essere stata al matrimonio del suo amico Mike Montgomery quando la band di casa, i Grape Whizzers, ha suonato Margaritaville di Jimmy Buffett del 1977 con «livelli rivelatori di bassa autostima».
Coast è stata registrata da Steve Albini nel suo studio Electrical Audio a Chicago. Lindsay Glover e l’alunno dei Breeders Mando Lopez sono la sezione ritmica della canzone, la sorella di Kim, Kelley (già nei Breeders pure lei), suona la chitarra e i fiati sono a cura della banda musicale di Chicago, i Mucca Pazza. Un classico anthem indie dai toni sbarazzini, suonato da gente che sembra divertirsi e rivolgere un tono distaccato a quei «beautiful kids on the coast» che popolano le trame del brano.
Una genesi e una descrizione che non può che far pigiare PLAY per far (ri)partire un brano che si innesta come la colonna sonora dell’estate che non ti aspetti. Naturalmente per coloro che, come noi, ne hanno già le balle piene del tu-patum-tu-tà del reggaeton estivo da stazione balneare. Musicofili indie-lover e un po’ nostalgici, buone vacanze da Kim Deal.
Michael Kiwanuka: Floating Parade
Abbiamo bisogno di Michael Kiwanuka, della sua musica, della sua voce, della sua sensibilità. Abbiamo bisogno del suo timbro intenso ed emozionante, abbiamo bisogno di un artista che sa modellare materia grezza trasformandola in una pietra preziosa.
«Non possiamo essere più forti della vita stessa» dice nella prima strofa di Floating Parade, in un’ammissione di umana fragilità carica di significati. Conoscere i propri limiti, del resto, è un passaggio obbligato per invertire la rotta e cambiare direzione. In questo senso, Floating Parade fa riferimento al potere della mente umana di tirarsi fuori da una situazione non più sostenibile e cercare conforto altrove. Un andamento ondulatorio che viene sostenuto dalla concretezza dei bassi e dalla forza spirituale degli archi e dei cori, come a sottolineare la necessità di un percorso che per essere completo deve attraversare la testa e il cuore, come fossero la terra e il cielo.
Michael Kiwanuka vola sempre molto alto perché ci fa sentire quello che c’è dentro e dietro le note: forse per questo continuiamo ad avere così bisogno di lui.
Miranda Sex Garden: Velventine
di Max Zarucchi
Il ritorno sui palchi delle Miranda Sex Garden è stata una delle notizie più entusiasmanti e – diciamocelo – inaspettate degli ultimi due anni. Sia chiaro, nessun mega tour celebrativo o cose simili, solo una manciata di date sparse perlopiù nel Regno Unito (con un paio di rapide puntatine nel vecchio continente), che hanno però riacceso l’interesse verso una delle band più originali del movimento oscuro (anche se è estremamente riduttivo catalogarle così) degli anni ‘90.
I più attenti le ricorderanno per essere stati di supporto al Devotional Tour dei Depeche Mode e per il loro capolavoro (minore, ma indiscusso) Fairytales of Slavery, ma la loro carriera non è mai stata avara di ottima musica.
In concomitanza con i concerti di quest’anno, le Nostre hanno aperto i cassetti della memoria e ripescato un brano dimenticato e mai pubblicato ufficialmente, Velventine, che è stato per l’occasione registrato come si deve in studio dalla lineup attuale. Se da una parte l’effetto “salto indietro nel tempo” è innegabile, dall’altra stupisce quanto le composizioni della band siano sempre state uniche e staccate da ogni riferimento temporale, tanto che questo brano “vecchio” suona nuovo e attuale tanto quanto (e più di) molte altre uscite del genere.
Che questo sia il nuovo inizio di un percorso artistico che porterà a nuovo materiale è tutto da vedere, ma per oggi tanto può bastare: la bellezza intrinseca del mantra ipnotico di Velventine è tale per cui farsi troppe menate è inutile: per una volta, godiamoci il momento per quello che è.
Raue: Vodka & Soda
di Max Zarucchi
La forza dei Raue è la freschezza che supera di gran lunga il retrogusto di andato a male. Dire che il loro sound sia moderno è un’eresia: tutto odora maledettamente di indie/grunge primi anni ‘90, quelle cose che stavano benissimo dentro le prime edizioni del Lollapalooza o nei tour del 1991 (tipo quello splendidamente documentato nel famoso home video The Year Punk Broke a nome Sonic Youth), eppure…
Eppure la purezza ormonale in subbuglio sia compositiva che interpretativa di cose come Vodka & Soda colpisce proprio per la sua primordiale efficacia: non si usano linguaggi sonori o lirici astrusi, eppure il tutto arriva dritto allo stomaco senza fare prigionieri. Una produzione adeguata con registrazioni praticamente in presa diretta (niente aggiustamenti di sorta: si sente, per fortuna!) è il tocco di classe finale per una band che si sta facendo conoscere quanto basta in questo periodo storico dove se da una parte è più facile arrivare al primo step (disco, video e concerti), dall’altra è quasi impossibile passare al secondo (leggasi notorietà, anche se underground).
Non voleva spezzarle il cuore – lo ripete più volte – ma lo ha fatto, e un po’ le vecchie ferite le ha fatte riaffiorare anche a noi.
Lunga vita a questo straordinario e giovanissimo (diciannove anni per Paige Kalenian, voce e chitarra, diciotto per Jax Huckle, batteria e samples) duo di Santa Cruz, che in un mondo perfetto sarebbe in cima ai nomi trainanti di un certo qual revival indie.
Setti: Cazzo
Una chitarra, un beat, un bar. Un luogo dove perdersi, fra persone e sostanze, fra le quali Setti fa uno slalom di presentazioni, raccontandoci una classica giornata: il popolo che abita tavolini e banconi, ricordi, incomprensioni e ritratti abbozzati. Una melodia minimale, la capacità di descrivere un ambiente e i suoi abitanti come fosse uno scrittore che ricostruisce un piccolo mondo. La bravura non scontata di essere leggero mentre mette in vetrina piccole storie che hanno il sapore non del dramma ma della realtà con le sue zone grigie, rimanendo assolutamente unico e personale.
Nicola Setti si conferma talento e segreto ben riposto nella scena cantautorale italiana, un personaggio che di certo continuerà a narrarci le sue cronache, così minuscole e dettagliate da riuscire a diventare universali, accogliendo tutti noi a un bancone infinito, ai tavolini per un tè freddo da sorseggiare insieme alle brioche esposte lì accanto, tra le quali di sicuro ci sarà qualche parente della mitica Luisona.
Carla e il suo cane gay, il professore, Anna, il passaggio dietro al flipper, le morti rock’n’roll, «Non capire quasi un cazzo / Tornare ragazzo», ma farlo con il suo stile, stringendoci il cuore.
Tribulation: Saturn Coming Down
Difficile perdersi nel panorama delle nuove uscite di quel metal che riesce – o tenta – di essere alla moda, poiché pochi sono veramente i nomi a cui si può chiedere una certa sicurezza. Sicuramente tra questi c’è quello dei Tribulation, ancorati a un gusto sempre più distante da quella ruvidezza metal estrema tipicamente nordeuropea e tangenti sempre di più un percorso alternativo di sicuro gusto specifico.
Qui, con la nuova Saturn Coming Down, sembra che grande piede l’abbia preso il minimalismo dark-goth – bello brillante in un ritornello che sarebbe potuto calzare a pennello agli Unto Others – che si innesta sopra la consueta impalcatura del metallaro svedese old school. Titani e pianeti, già, ma con l’eclissi che vediamo nel video, è sempre di oscurità che si va a parlare.
Certo, in qualche modo strano oggi mischiare Bloodbath con Sister of Mercy sembra una cosa cool. Detta vent’anni fa suonava come un’eresia per entrambi i lati della barricata. Invece adesso in un nuovo singolo dei Tribulation ci aspettiamo che le clean vocals facciano capolino, anche se magari molto meno Moonspell di così. Ma poco male, perché il pezzo funziona senza dubbio.
Anche senza il prodigo Jonathan Hultén, disperso nei boschi sacri con le sue suadenti melodie folk soliste, la band riesce a mietere consensi e a convogliare nel proprio nome, ancora una volta, un marchio di sicurezza. Johannes Andersson e soci, con la giusta spinta, potrebbero essere davvero un fenomeno da grandi numeri. Staremo a vedere.