[New Music Weekly] Brunori e il maschio etero bianco, Paula Becker che cerca una coinquilina, gli Show Me the Body insieme agli High Vis
Settimana 37 – con Brunori Sas, The Murder Capital, Paula Becker, Bill Leeb, Exitus, We Fog, She Past Away, Then Comes Silence & Dusty Gannon, DJ Myke & CNN199, Show Me the Body & High Vis.
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Questa settimana apriamo con l’ennesima testimonianza di come la scrittura di Dario Brunori si sia sempre più perfezionata nel corso degli anni: musica che non vuole a tutti i costi consegnarci una lezioncina, ma farci fermare un attimo a pensare, almeno, quello sì. E tempo e spazio per riflettere sicuramente ne ha Paula Becker, ora che la sua coinquilina Ginny se ne è andata a Londra, lasciandola sola soletta con giusto una chitarra nella loro casa del Somerset. Problemi di solitudine che paiono non toccare invece gli Show Me the Body, vista la quantità industriale di collaborazioni che compaiono nel loro ultimo disco: qui è il turno degli High Vis, per mischiare post-punk e post-hardcore in un post-qualcos’altro che potremmo chiamare didascalicamente post-punkcore.
Il resto spazia tra i generi più svariati, come nostra consuetudine. Tornano i Murder Capital, perché sia mai che qualcuno si dimentichi dell’importanza di Dublino nel rock degli ultimi anni. Bill Leeb dimostra (non che ce ne fosse bisogno) che anche in assenza del resto dei Front Line Assembly sa il fatto suo. Gli Exitus ci ricordano cos’è il thrash metal. Gli She Past Away cucinano la dark-wave alla turca. I Then Comes Silence chiamano Goth Dad per seppellire il goth old school in una risata. DJ Myke tira bombe di scratch con i CNN199. E poi ve lo ricordate l’ex Ulan Bator Amaury Cambuzat? Ha prodotto il nuovo lavoro dei veronesi We Fog: merita (più di) un ascolto.
Bill Leeb: Demons
di Max Zarucchi
Quando ci si pone una domanda, è facile perdersi in mille parole e concetti, eppure sarebbe così semplice e infinitamente più efficace darsi delle risposte non verbali.
Ad esempio, perché i Front Line Assembly sono così importanti nella scena electro? Seminali, innovatori, visionari… davvero, è facile lasciarsi prendere la mano, ma mancherebbe sempre qualcosa. Ecco allora che a venirci in aiuto è lo stesso Bill Leeb – che della leggendaria formazione canadese è il mastermind – con il suo primo album solista, e tutto diventa subito più chiaro.
Muted Obsessions, la strombazzata collaborazione con gli Actors, è già di per sé un piccolo gioiello da tramandare ai posteri, ma è quando il nostro sta per conto suo a rovistare nelle cellule cerebrali che escono le vere gemme, e non ce n’è per nessuno.
Demons dà fuoco al concetto di pilota automatico e si sviluppa satolla di bit tra quadrature ballabili e melodie orecchiabili, su un incedere claustrofobico e marziale che toglie il fiato. Il tutto, apparentemente, senza il minimo sforzo. Dentro ci trovate tutta l’electro industrial degli ultimi trent’anni, ma filtrata da chi ha contribuito in prima persona a plasmare – per poi espandere – il genere. Mica cosette da poco.
Ma le parole, a volte, non bastano: schiacciare PLAY e alzare il volume è l’unica risposta sensata.
Brunori Sas: La Ghigliottina
Nel descrivere la struttura e il testo della Ghigliottina, Brunori Sas ha utilizzato il parallelismo con il flusso schizofrenico di immagini e video sui social e della frenesia, a noi tutti fin troppo familiare, dello scrolling. Una modalità compositiva intrigante e che rende due volte La Ghigliottina un brano decisamente attuale: la prima è appunto per come è stata scritta e sviluppata, la seconda perché si tratta di una canzone che riesce a fotografare, con l’efficace sintesi delle immagini, la crisi d’identità del “maschio etero bianco” di fronte alla società che cambia, descrivendo i suoi gusti, i suoi dubbi e le sue perplessità in contrasto con il presente.
Proprio per la sua struttura però, non è un brano da cui trarre una morale, un insegnamento o la completezza di un racconto, quanto piuttosto una serie di suggestioni e di suggerimenti, come punti sparsi su una mappa concettuale.
Quello che sanno fare i cantautori, del resto, è stimolare i pensieri piuttosto che spiegare, aiutarci a mettere in moto le idee, accendere una scintilla in chi ascolta. La scrittura di Dario Brunori, sempre più perfezionata nel corso degli anni, è attenta e profonda nelle parole e coinvolgente negli arrangiamenti.
Un altro colpo che va a segno e che ci lascia qualcosa con cui fare i conti.
DJ Myke (feat. CNN199): Boom
Boom! Basta il titolo a spiegare la sensazione. Scratch furioso e tecnico da parte di DJ Myke, rapping senza freni dei CNN199, combo creata da Rival e Ramone. Due voci, due imperi e due visioni che si sposano ai suoni di uno dei più talentuosi DJ in Italia, ormai prossimo al suo nuovo album dopo le collaborazioni negli ultimi anni con Rancore.
Boom è un brano che semplicemente rimette in pista quello che è l’hip-hop. Lo scratch, il rap, il writing di Tex.
Se poi ci aggiungiamo le batterie di Cheesedrum, le chitarre di Svedonio e i cori di Jennifer Turri, a uscirne è un qualcosa che non fa prigionieri, che si fa riascoltare in continuazione e che aumenta l’attesa e la curiosità riguardo a quel che DJ Myke ha nel frattempo registrato. Considerando che sono sono passati quasi dieci anni dai suoi ultimi dischi (S.U.N.S.H.I.N.E. con Rancore, appunto, e Soli notturni con Kabo), c’è il forte rischio che sia roba grossa.
Exitus: Without Identity
Gli Exitus hanno all’attivo un EP, un disco e questo singolo, ma non vi ingannate. L’anno in cui sono nati è il 1989, e da allora i tre membri della formazione attuale non hanno mai smesso di mangiare e bere metal. Ecco perché, nonostante le scarse pubblicazioni, ogni nota e ogni battuta, sanno di storia antica.
Non si tira fuori un esempio così coerente di vecchio thrash, senza averlo digerito negli anni in cui ha raggiunto i massimi risultati. Solo i Kreator o i Destruction riescono a riprodurre quell’impatto e quel saldo assalto che le neo-thrash band tra Europa e Americhe provano a ricreare, senza riuscirci mai fino in fondo.
Without Identity è un brano rappresentativo per gli Exitus. In fondo loro hanno sempre creduto nel progetto, sono andati avanti in condizioni storico-politiche impervie per la libertà d’espressione e con galloni di rabbia come benzina. Hanno mantenuto un’identità, appunto, e adesso possono sparare i loro pistolotti di violenza concentrata, magari senza cambiare nulla nell’economia generale del thrash metal, ma diffondendo una lezione che i giovani non possono davvero imparare, senza trasformarla in un’altra cosa.
Paula Becker: Stuart Moved Away
Bath è città famosa per i suoi bagni termali e per la sua abbazia. Siamo nel Somerset, poco distanti da Bristol e Paula Becker è una talentuosa e giovane musicista. La sua convivente, Ginny (altra giovane e talentuosa musicista) è partita per Londra, in una nuova fase della sua vita, così Paula pensa bene di sedersi, prendere la chitarra e scrivere una canzone al riguardo. Parla di distacco, di crescita, di insicurezze e di una persona che qui diventa Stuart, partita e della quale sente ora la mancanza. L’amicizia è una cosa fantastica e importante e i rapporti più intimi sono quello che ci fanno crescere e che ci segnano. Dipingerli in questo modo in una canzone però è un altro paio di maniche: serve il talento per farlo e Paula Becker ne ha a pacchi. Ha una bellissima voce, suona molto bene e mostra uno splendido gusto per degli arrangiamenti che hanno il potere di farti sentire il profumo del mare e dei campi.
Dice Paula che dopo Stuart Moved Away uscirà un intero EP, grazie al quale potremo iniziare ad appuntarci stralci della sua poetica. Per ora però ci godiamo soltanto questi pochi minuti di fiorente e luminosa bellezza, una di quelle canzoni che potrebbero aprire una domenica mattina con una tazza di caffè in mano, nell’abbraccio di chi si ama.
Del resto Bath e Londra sono soltanto a un treno di distanza. Parte alle 07:40 e, visto che il brano dura nemmeno tre minuti, prima di correre a prenderlo potremmo ascoltarlo ancora un paio di volte… à suivre!
She Past Away: Inziva
di Max Zarucchi
Per molti, soprattutto per chi ha sostituito da tempo lo shot della buonanotte con il Gaviscon, il successo degli She Past Away è incomprensibile: dopotutto che fanno di nuovo? Niente. Tutto già sentito e risentito, mille basi sul palco, dischi per lo più difficili da ascoltare per intero.
Ed è forse qui il punto che non viene compreso appieno dalla vecchia guardia: i due ragazzi sanno benissimo di essere nel 2024 (ma pure prima lo sapevano, con le uscite precedenti) e che le cose, a conti fatti, non funzionano più come prima. Il concetto di album, di originalità, di concerto dal vivo, oggi, è molto diverso da quello che era trent’anni fa. A poco serve fare la morale: le nuove leve vogliono una manciata di brani da ascoltare, ballare, ripostare sui social: pezzi che siano immediati e vadano diretti al punto, magari accompagnati da immagini che abbiano un appeal di un certo tipo.
Ecco allora che, vista in questa ottica, la nuova uscita di Volkan e Doruk rasenta la perfezione: ossessiva, ballabile, di facile presa, oscura, tutta drum machine quadrata, synth, vocione, chitarre liquide distanti, zero caciara, poserismo a mille e – dulcis in fundo – accompagnata da uno splendido e stiloso videoclip a opera della crew di Muted Widows (Nedda Asfari, Michael E. Linn e Michael Zumaya) che è un vero e proprio tributo al cinema espressionista di inizio Novecento.
Onestamente, cosa chiedere di più per avere un nuovo pezzo riempipista? This is the way now, prendere o lasciare, e i turchi hanno imparato (e bene) come rimescolare le carte del genere a loro favore (con buona pace di chi, comunque, preferisce rimettere sul piatto Song & Legend).
Show Me the Body (feat. High Vis): Stomach
La crew hardcore sbarazzina di New York Show Me the Body ha dato il via al 2024 con l’EP Corpus II, che vede la partecipazione di Zulu, B L A C K I E, King Yosef e altri, a un pastiche di featuring nel giro della cricca underground “che conta”, impostandosi così come la band figa con cui tutti vorrebbero collaborare. Nel frattempo, un’altra delle band del momento – i britannici High Vis – si sta preparando a svelare il suo nuovo album Guided Tour a novembre. È un anno importante per entrambe le band e questa joint venture era necessaria per sancire l’ascesa di due tori da monta del post-punk e del post-hardcore che viene “dal basso”.
In preparazione al tour statunitense che li vedrà uniti, Show Me the Body e High Vis fanno infatti combutta in un pezzo firmato da entrambi, per l’enorme gioia di chi ha già nel cuore un piccolo spazio per tutti e due. Così Stomach è già in ripetizione quotidiana, con quel suo piglio stradaiolo e quel suo ritornello che farà la felicità sia degli amanti del sound made in USA che di quello più tipicamente UK: una roba che avvicina i Beastie Boys agli Stone Roses, in un sodalizio felice.
Come provenisse fiabescamente da un’atmosfera lo-fi quasi anni Ottanta, Stomach riesce a rapirci e traghettarci nel malessere bruto eppure sempre romanticamente vicino alle periferie suburbane marcescenti, ma che forse, in un’epoca imbellettata di Chat GPT, basi elettroniche e suoni plasticosi, è pure capace – grazie al piglio di gente come Julian Cashwan Pratt (sicuramente uno da non fare incazzare!) e Graham Sayle – di risultare cosa vera, buona e giusta. Questi due infatti, nei panni di potenziali salvatori da votare alle prossime elezioni, sembrano essere persone che non mentono. Non solo per la working class verso cui si affacciano come leader intellettualmente onesti, ma un po’ per tutti quelli che credono ancora nell’underground fuori dai radar.
The Murder Capital: Can't Pretend to Know
Un 2024 prosperoso per la Dublino del rock alternativo: i debut di Sprints e Gurriers, l’attesissimo Romance dei Fontaines D.C. e – seppur non ci sia ancora alcuna data e nessun titolo – anche i Murder Capital riaggiornano le loro pagine social, tinteggiandole di un corposo blu e marchiandole con un logo stilizzato a tre lettere, pesanti come macigni.
Sì, perché trascinarsi dietro non solo l’aspettativa dell’essere figli della wave irlandese, ma anche il fardello di emozioni (e consensi) che Gigi’s Recovery ha fatto germogliare attorno al loro nome, non deve essere esattamente un’impresa semplice.
Eppure James McGovern e soci si sono dimostrati sempre sul pezzo, pronti, anche stavolta, a lustrare la silhouette di sentimenti celati: a differenza di Heart in the Hole, che metteva sulla bilancia carezze folk e zampilli di rock melodico, Can’t Pretend to Know ci va giù più diretta, collocandosi più vicino alla durezza di When I Have Fears che alla variopinta esplorazione sonora del suo successore.
Sei corde ai limiti dello shoegaze, roboanti e ronzanti tanto da far venire meno le ritmiche, mantenute negli argini dalle bassline decise di Gabriel Pascal Blake, mentre McGovern volteggia con le corde vocali, allargando le parole per poi soffocarle al cambio strofe.
Un saliscendi di tonalità che rompe le schematiche e che prova a ricalcare l’istinto dell’infanzia e l’uragano emotivo che scombussola l’adolescenza: rumoroso, impattante, sfaccettato. Un singolo che dimostra quanto i Murder Capital sappiano scavare nel passato e portarcelo davanti intatto, nonostante gli anni, nonostante le teste siano cambiate già da un po’.
Then Comes Silence (feat. Dusty ‘Goth Dad' Gannon): Stay Strange
di Max Zarucchi
Siete a metà settimana. Stanchi. Disillusi. Il lavoro vi sta massacrando e ogni pensiero positivo affoga in mezzo al traffico mentre mestamente tornate a casa. Solo l’idea di dovervi mettere a cucinare qualcosa vi mette ansia, eppure avete fame. Ma poi la sorpresa! La vicina, la mamma, la zia, la qualunque vi ha portato una porzione abbondante di pasta al forno che le era avanzata dalla sera prima. Certo, non è fatta sul momento e probabilmente la ricetta sarà lievemente diversa da quella alla quale siete abituati, ma insomma… in certi momenti non si fanno i puntigliosi e anzi, si è grati di poter gustare con calma qualcosa che si conosce già ma che ci coccola, facendoci sentire al sicuro e, soprattutto, sazi. Alla faccia di Cracco e compagnia.
Ecco, l’effetto di questo nuovo singolo dei Then Comes Silence (affiancati qui dallo spassosissimo Goth Dad), alfieri moderni del goth rock che fu, è proprio questo: non c’è assolutamente nulla di nuovo in questa pietanza, al punto tale che qualche volta sembra anche riscaldata (ci si può trovare di tutto, dagli Altered States / UK Decay delle strofe ossessive, ai Cinema Strange – Red & Silver – dell’inciso circense e decadente), ma suona così maledettamente bene. E per una volta il testo non è la solita solfa, ma va a riprendere quell’attitudine positive punk gridata a testa alta che purtroppo si è un po’ persa nel corso dei decenni a favore di «sangue del pipistrello uho uha», varie ed eventuali.
E al diavolo la cucina molecolare.
We Fog: Kind Warrior
La voce oscilla fra il recitato e il disperato, mentre gli incroci strumentali parlano la lingua degli Stati Uniti che preferiamo, quelli che da Washington salgono su su fino a Boston.
Ma in realtà qui siamo a Verona: al lavoro con i We Fog ci è finita quella vecchia lenza di Amaury Cambuzat e il risultato è una piccola chicca che non sfigurerebbe su una musicassetta registrata con gli One Last Wish da un lato e i Massimo Volume dall’altro. C’è uno storytelling, una furia hardcore, una triste bellezza che sa di abiti sdruciti e scoloriti, la sensazione di essere di fronte a dei veri e propri outsider. Non so nemmeno come ci sia cascato sopra nel mare magnum di YouTube, ma quello che ho realizzato subito è che Kind Warrior è uno di quei brani in grado di toglierti il cappello di dosso, e che quindi ignorarlo sarebbe criminale.
Certo, non inventano nulla. Certo, suoneranno antichi, forse anacronistici, ma dei cori così quest’anno non li avevo mai sentiti e se i movimenti degli strumenti sono in grado di curvare l’asfalto sul quale i Nostri camminano, dando l’impressione di essere su un mare in tempesta… beh, questa cosa a casa nostra si chiama talento. Talento e intensità: doti che prima o poi ti portano verso una meta che ancora non conosciamo, ma che di sicuro sarà sudata e onesta.
Siamo nebbia, una sorta di guerrieri.