[New Music Weekly] Gli Horrors dopo anni di silenzio, lo spleen del Bon Iver post-Emma, Calcutta in barca con i Fitness Forever
Settimana 38 – con The Horrors, Bon Iver, Wardruna, Anti-Clone, Okay Kaya, Post Nebbia, Arthuan Rebis, Heat Fandango, Opowieść, Calcutta & Fitness Forever.
Leggi questo articolo sul sito!
Dopo una lunga pausa che ha fatto temere il peggio e dei non trascurabili cambi di formazione, riecco Faris Badwan e (nuovi) compagni: prendiamo atto che entrambe le cose (break e lineup rivoluzionata) hanno portato sensibili benefici. Tempo passato che – come da tradizione – continua a tormentare (ma soprattutto a ispirare) sia Bon Iver e la sua bonaria malinconia che gente come gli Anti-Clone (per i quali il passato si legge Slipknot).
Passato o presente che sia, certo è qualcosa di oscuro quello in cui si muovono i norvegesi Wardruna (che dilatano un generico black metal nelle atmosfere folk, fredde e salmastre della loro terra) e i polacchi Opowieść, devoti alla claustrofobia tipica di Swans e Sunn O))), mentre la povera Okay Kaya prova a tirarci su il morale con il suo pop rock di qualità elevatissima.
Il resto son tutte mogli e buoi del Paese nostro: l’ironia disincantata dei Post Nebbia, il blues sudicio degli Heat Fandango, l’infinita ricerca sonora di Arthuan Rebis, l’accoppiata poppissima che vede Calcutta prendere il largo sul 56 metri dei Fitness Forever, tra una cazzata di randa, una scansata di boma e una discreta quantità di cocktail al tramonto.
Anti-Clone: God Nothing
di Max Zarucchi
Quale musicista non ha delle influenze? Chiunque si metta a comporre musica ha prima di tutto ascoltato gli altri, preferendo qualcuno in particolare. E poi non è sempre la stessa vecchia storia delle note che sono sette? Appunto.
Gli Anti-Clone sono dei rocchettari made in UK. Attivi dal 2011, nella loro bio si legge che vorrebbero proporre una fusione di diversi sub-generi metal, messi insieme per produrre qualcosa di speciale e unico.
In realtà basta uno sguardo ai video e alle foto promozionali per capire che all’inizio avevano sul comodino (rigorosamente nu metal con forti venature industrial) gli Slipknot, mentre ora Corey Taylor si è trasformato in Marilyn Manson (il fatto che il cantante abbia anche un progetto parallelo come frontman degli Spouky Kids, tribute band del Reverendo, non è del tutto casuale).
Poco male, perché la loro proposta riesce comunque a essere valida e accattivante. Mette in secondo piano le varie influenze e regala loro quella dignità artistica che si meritano: d’altra parte il 90% del gothic rock a cavallo tra gli ‘80 e i ‘90 era praticamente la copia dei Sisters of Mercy, sia come look che come sound, no? Perché allora – se si ama il genere, ovviamente – non provare a dare una chance agli Anti-Clone? Si sa mai che possano entrare in pianta stabile nelle vostre playlist.
Arthuan Rebis (feat. Timer Shine & Mr. Jumbo): The Calling
di Max Zarucchi
Il percorso artistico di Arthuan Rebis continua a espandersi, impermeabile alla staticità, aggiungendo nuovi tasselli al mosaico sonoro della propria arte.
L’incontro con il percussionista Timer Shine e l’artista Lituano Mr. Jumbo ha dato vita a The Calling: accompagnato da uno splendido videoclip visionario a opera della videomaker Maddalena Andreoli, il brano ci presenta un Arthuan inedito, proteso verso soluzioni ritmiche più marcate, che rendono la sua musica in qualche maniera ancora più pregna di colori e sfumature. Verrebbe da dire più accessibile, se non si corresse il rischio terribile di essere fraintesi: non c’è nulla che strizza l’occhio all’ascoltatore nella speranza di essere apprezzato, qui è solo arte e amore per la musica nella sua concezione più pura e ancestrale, note e sensazioni che fanno vibrare corde sepolte in profondità dell’anima di chi ascolta.
Per intenzioni ed efficacia, l’unico personaggio contemporaneo che potrebbe sedersi allo stesso tavolo e capirsi con uno sguardo con Arthuan è Jonathan Húlten: chissà cosa potrebbe venirne fuori? Tenete d’occhio le date dal vivo di Rebis, e se potete non fatevelo sfuggire: potrebbe essere – magari inaspettatamente – uno dei concerti della vita.
Bon Iver: S P E Y S I D E
È ancora un po’ presto per augurare propriamente un bon hiver ai nostri lettori musicofili, ma le lancette dell’aujourd’hui scorrono ancora più inesorabili: così sembra in questi tempi dove l’usa e getta intercorre in spot sempre più brevi. Eppure il passato – e una sua malinconica forma bonaria – assume in questo modo un grande senso, in un rewind così dilatato e dunque così lontano. Un forever ago, si potrebbe dire.
«Nulla è realmente andato come pensavo», ammette Justin Vernon alias Bon Iver in S P E Y S I D E, il primo singolo estratto dal prossimo EP SABLE,. Un eufemismo, forse, considerando l’attuale posizione di Vernon: gran visir di tutti gli hipster, vincitore di Grammy, headliner di festival, co-sceneggiatore di Taylor Swift, sostenitore del raduno dei candidati presidenziali. Tutto è andato bene, compreso il buon riscontro che gli ultimi più sperimentali lavori (i,i e 22, A Million) avevano ricevuto all’interno di una carriera costellata di soddisfazioni.
Ma S P E Y S I D E – che contiene poco più della sempre suadente voce e della chitarra acustica di Vernon, insieme a qualche sobrio rintocco di viola – non perde nulla del potere tipico del suo cantore, anche proprio grazie alla sua dolce semplicità. È una canzone per scusarsi – ci piace pensare – e per ricordarsi di un passato che aveva in For Emma, Forever Ago il suo punto di partenza più importante. «Amico, mi dispiace così tanto», canta verso la fine: una delle battute più schiette e disadorne della sua carriera, in una canzone che è tuttavia tra le sue più sentite.
Quello che brilla in questa piccola rêverie specifica è luminoso non tanto per via di un cast di collaboratori o per la lussureggiante orchestrazione o la sperimentazione elettronica che Vernon ha favorito negli ultimi tempi, ma per per come ci ricorda quanto poco gli serva per evocare un tipo specifico di malinconia che, negli anni, lui stesso ha contribuito a plasmare con la sua musica.
L’inverno è arrivato in anticipo, con tutto il suo magnifico e mellifluo spleen. È bene accoglierlo come si deve.
Fitness Forever & Calcutta: A vele spiegate
Se qualcuno dovesse chiedermi cosa sia la musica pop risponderei inserendo Cosmos dei Fitness Forever nello stereo, lisciandomi i baffi, chiudendo la vestaglia e preparandomi un cocktail.
Quando quindi ho avvistato questa chicca, ovvero l’unione con Calcutta in mare aperto, A vele spiegate, non potevo che immaginarmi scenari da Love Boat, tramonti e Grand Marnier. E in effetti ci siamo: lo yacht rock che avevamo subodorato sull’ultimo disco del talento di Latina si sposa (ma cosa dico “si sposa”: si accoppia, si fonde!) letteralmente con il brio partenopeo di Carlos Valderrama e compagni. Arrangiamenti cremosi che sembra sul ponte sia apparso il gelataio con i soft ice, cartoline che sfilano sullo sfondo e ci passano attraverso i capelli come colpi di vento e di sole. Fiati e percussioni che uniscono i continenti, attraversati dai pirati più eleganti del mondo, in procinto di varcare le Colonne d’Ercole con un suono che scioglierà letteralmente le generazioni, dalle più giovani alle più anziane, chi vergognandosi in privato e chi sbandierandolo in pubblico.
Noi? Dateci solo un giorno di sole e dei finestrini abbassati: ci alzeremo fino a diventare un mezzo anfibio fra le onde.
Heat Fandango: Danza con me
Tommaso Pela, Marco Giaccani e Michele Alessandrini sono gli Heat Fandango. Prossimi all’esordio con ONDE, iniziano a farci prendere confidenza con la loro materia sonora – ondeggiante e calda, appunto – che sposa tastiere psichedeliche, chitarre twang e rock, batteria polposa e miraggi dettati dal calore e dall’alcol.
Del resto da tre residuati di progetti come Lush Rimbaud e Jesus Franco & the Drogas non ci si poteva aspettare altro, anche se il veder applicati certi suoni al canto in italiano fa sempre un effetto dirompente, in una sorta di tradizione che degli anni ‘90 prende l’alcol a poco prezzo e le espressioni più laterali per farle letteralmente brillare, esplodendo in tanti coriandoli senza peso che colorano l’aria dei Nostri.
Sarà da capire che tipo di onde saranno quelle che ci aspetteranno nel loro album, ma se tanto ci dà tanto sarà bene preparare un surf o un supporto che possa aiutarci a trovare il ritmo e la direzione giusta per seguire gli Heat Fandango in maniera adeguata.
Mare Adriatico, sempre dritto, segui i cartelli bruciati dal sole e Danza con me.
Okay Kaya: Spacegirl (Shirley's)
La profondità, la convinzione, la forza con cui Okay Kaya decide di fare quel che ritiene giusto in Spacegirl (Shirley’s) apre letteralmente il cuore. Una voce spettacolare, che viene forzata solo quando è necessario, una voglie di esplorare i propri limiti che spacca le pareti, una voglia di conquista che è quella della propria indipendenza, del proprio spazio, del proprio universo e di un mondo che ogni bimba, ragazza e donna può e deve avere. Una madre che dallo spazio è già tornata e che sicuramente, chiudendo la porta della stanza, quelle parole canticchierà sottovoce, sorridendo: «But I did, I did, I did.»
Artista, modella, cantante e attrice, Okay Kaya sembra essere una di quegli esseri umani baciati dal talento, ma soprattutto si dimostra una persona in grado di immedesimarsi in qualcosa, battendosi per un’ideale e per una fantasia, facendolo con una voce che forse non è di questo mondo e una musica che è letteralmente carburante spaziale.
New Jersey, we have no problems, Okay Kaya is ready for takeoff.
Opowieść: Ostatni Będą Następni
di Max Zarucchi
Ci sono molti buoni motivi per andare ai festival minori, quelli sotto i mille partecipanti, per essere chiari. L’ambiente è spesso accogliente e non dispersivo, è facile fare nuove conoscenze e chiacchierare, i prezzi sono umani e la musica scorre a fiumi. Un po’ quello che succede da molti anni a Wroclaw, in Polonia, con il Return to the Batcave Festival, che anche a questo giro ha radunato trecento persone da tutto il mondo per una tre giorni all’insegna della musica oscura.
È lì che, in apertura alla seconda serata (quella del venerdì) molti dei presenti hanno avuto il battesimo del fuoco con i polacchi Opowieść, rimanendone rapiti. La loro proposta (qui rappresentata dal singolo appena uscito, Ostatni Będą Następni) è affascinante e va a mescolare sapientemente lo spirito anarchico di ciò che fu la nowa fala (quella che in Italia chiamavamo new wave o dark) arricchendolo di tribalismo ritualistico e massicce dosi di nero pece, per un risultato incredibilmente claustrofobico e visionario, in bilico tra la trance spirituale e la carnalità assoluta.
Non è musica facile quella dei ragazzi di Breslavia: niente strizzatine d’occhio ai dancefloor, nessuna melodia da canticchiare in testa, né tantomeno qualcosa da ascoltare mentre si sta facendo altro. È arte che richiede attenzione e concentrazione, per lasciarsi trasportare nel loro mondo e carpirne ogni sfumatura. Solo per ascoltatori esigenti, di quelli che si nutrono abitudinariamente di Swans, Sunn O))) e simili, che troveranno qui pane per i propri denti.
Post Nebbia: Pastafrolla
Da quando hanno fatto la loro comparsa sulla scena della musica italiana alla fine degli anni Dieci, i Post Nebbia si sono distinti per uno stile molto riconoscibile e una grande personalità nonostante la giovane età. È una cosa che fa pensare, in un Paese in cui di solito succede tutto in ritardo: la band di Carlo Corbellini invece sembra venire da un posto in cui si hanno le idee chiare e sempre alti livelli di ispirazione.
Pastafrolla rimanda immediatamente alla loro estetica musicale, anche se con un piglio più rock. Un brano ironico e disincantato, in cui nel testo si affronta il tema dei crolli, inteso sia nel senso figurato della fragilità di un’epoca in generale e di una generazione in particolare, sia come una beffarda cronaca della scarsa solidità delle infrastrutture che abbiamo intorno («Quei tramonti innevati / Mi chiedo se muoio prima di vederli asfaltati»).
Una poetica cinica e una scrittura originale, che si lega a un pop-rock psichedelico dal ritmo sostenuto e una salda coesione di chitarre e sintetizzatori, in un particolare amalgama in cui la voce viene tenuta a un volume più basso, affondando nei suoni.
Funziona e funziona bene. I ragazzi sono in gamba e continuano a dimostrarlo.
The Horrors: The Silence That Remains
di Max Zarucchi
È un periodo felice per gli amanti della musica oscura meno underground: prima i singoli dei Cure e ora quello degli Horrors.
Si erano un po’ perse le tracce della band inglese negli ultimi anni, al punto tale che qualche voce di corridoio parlava anche di scioglimento a tempo indeterminato.
Se l’ipotesi sia stata mai davvero vagliata dai Nostri non è dato a sapere: quel che è certo è che la formazione ha subito una rivoluzione non da poco ma, paradossalmente, la musica è tornata ad abbracciare alcune atmosfere più legate alle proprie origini, qui rivestite di un’esperienza ventennale.
The Silence That Remains è una finta ballata, cantata con piglio da crooner su una base nervosamente sincopata (a opera del neo assunto Jordan Cook), dove il basso regge insieme tutto lasciando tastiere e chitarre sul fondo, fumose e rarefatte, mentre una sensuale e sofferente voce femminile (l’altra new entry, Amelia Kidd, qui anche ai synth) suggella il finale melodrammatico del tutto.
Non è un semplice cambio di pelle, ma un vero e proprio nuovo inizio, un tornare – dopo sette anni di silenzio discografico – in maniera coraggiosa e sfacciatamente British a camminare nelle uggiose strade sonore londinesi al crepuscolo, bavero alzato e sguardo stanco ma sul pezzo, quello che hanno i tizi che ne hanno viste abbastanza per cercare di stare fuori dalle grane ma che, all’occorrenza, ti tagliano in due con un solo gesto della mano.
Se le premesse sono queste, Night Life (in uscita per – ma pensa un po’ – Fiction Records a marzo 2025) sarà davvero un gran disco.
Wardruna: Himinndotter (Sky-Daughter)
A volte l’immaginario prende il sopravvento e insieme al suono porta lo scalpitìo, il sapore freddo e salmastro, il freddo e la stazza delle voci dentro le nostre orecchie. A volte una lingua incomprensibile come il norvegese suona come assolutamente necessaria in un canto, sintomo di un’espressività che si fa universale.
Qui tutto parte da un albero, unico superstite in una natura brulla nella quale Einar si connette alle voci femminili, ai corpi dei musicisti e di uomini e donne, e insieme a loro si mette in cammino. Un cammino fisico e lirico, con gli strati cantati che sembrano attorcigliarsi su se stessi, intorno al corno suonato e al ritmo delle percussioni. Una musica che sembra abbia millenni e ritrae perfettamente una terra dura e salace come quella scandinava.
Un brano che sembra ancora una volta un atto d’amore per la propria terra, per la propria tradizione per la propria cultura, per un progetto che dell’estremismo black metal ha serbato l’ardore e l’intensità mettendosi a servizio di un mondo talmente illuminato da spaventare, ma che riesce a colpire per tanta bellezza e rigore.
Himinndotter è nata, viva Himinndotter, viva le danze, viva il canto delle donne e viva ciò che non conosciamo ma che ci affascina e si apre a noi.