[New Music Weekly] Il gioco delle coppie: David Lynch & Chrystabell da un lato, Tess & John dall'altro
Settimana 27 – con Tess & John, Molčat Doma, We Hate You Please Die, Monte Mai, Camerata Mediolanese, Hell:On, Elaphi, Michele Bitossi, The Troops of Doom, David Lynch & Chrystabell.
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Due di cui non sappiamo praticamente niente (ma possiamo facilmente intuire dove possano andare a parare), due di cui sappiamo fin troppo (ma ogni volta vai a sapere cosa si inventano). Probabilmente francesi, già creatori di uno stuolo di personaggi irresistibili che popolano i loro video e immagini promozionali, per un rock abbastanza sporco e due voci diverse sufficientemente interscambiabili da aver già conquistato i nostri cuori: ecco Tess & John. Ormai di lunghissimo termine, invece, la liaison tra il veneratissimo maestro David Lynch e la sua musa Chrystabell: a questo giro ci offrono un visione onirica mutuata da un vero (può un’allucinazione esserlo?) e proprio sogno, mettetevi comodi. Oppure provate la nuova versione della Camerata Mediolanese, che niente ha a che vedere con i fin troppi rigurgiti del Ventennio che troviamo in giro in questo periodo, quanto piuttosto con musica da camera mischiata con industrial marziale e suggestioni folk.
Per rimanere in Italia poi (o comunque poco oltre il confine e in tema di fuga di cervelli) fate una carezza a Michele Bitossi, lui che gli è esplosa una diga dentro, e ovviamente non era pronto. Magari potrebbe aiutarlo il pop raffinatissimo dei ticinesi Monte Mai, o l’indie molto Nineties degli Elaphi, radici italiane ormai di stanza a Dublino.
Il resto sono schiaffi che arrivano dai quattro angoli del mondo: il punk votato all’empowerment femminile dei transalpini dal dente avvelenato We Hate You Please Die, il post-punk ora più melodico dei bielorussi Molčat Doma, il trashettone paganissimo dei brutallari d’Ucraina Hell:On e il death sepulturico, da pedalare velocissimo, dei brasiliani Troops of Doom, dietro cui si nasconde un certo Jairo “Tormentor” Guedz, ovvero uno che quella roba, insieme a Max e Igor Cavalera, la scriveva e la suonava già a fine anni Ottanta.
Camerata Mediolanense: Embryo Ventosa
di Max Zarucchi
Dopo trent’anni di musica, cambi di formazione, polemiche e inutile chiacchiericcio dei detrattori di turno, la Camerata Mediolanense torna tra noi con un album che nuovamente la vede protagonista nella scena “altra”. La sua commistione di musica da camera (indignati da salotto e pettegoli da bar, capite ora il senso del moniker?), industrial marziale e suggestioni folk continua ad ammaliare per esecuzione e fantasia compositiva, regalando all’ascoltatore un piacere unico.
La scissione dalla storica cantante Daniela Bedeski avrebbe fatto traballare la maggior parte degli artisti del genere, ma non i meneghini: con un colpo da maestro, Manuel Aroldi, Marco Colombo, Trevor (Northgate) ed Elena Previdi hanno ulteriormente valorizzato il contributo di Désirée Corapi, Carmen D’Onofrio e Chiara Rolando, tre voci splendide che con i loro intrecci e armonizzazioni donano nuova linfa vitale alle sempre splendide composizioni di Elena.
Ne è un fulgido esempio Embryo Ventosa, scelta come primo singolo, dove la musica della Camerata si eleva, schizzando letteralmente fuori da ogni connotazione stilistica o temporale, abbracciando il suono primordiale dell’uomo per portarlo al cospetto dell’ascoltatore più attento.
Oggi come ieri, non è musica per tutti. Ma per coloro che possiedono una certa sensibilità è impossibile non farsi ammaliare dalle melodie senza tempo che permeano il brano e per esteso tutto il (bellissimo) Atalanta Fugiens, di cui si consiglia la versione estesa su doppio CD per un’esperienza completa.
David Lynch & Chrystabell: Sublime Eternal Love
Qualche settimana fa il buon David, abbandonate per un attimo le sue previsioni del tempo, aveva annunciato che ci sarebbe stata una novità: un qualcosa di nuovo «da vedere e sentire». E sì, tutti noi abbiamo riposto un piccolo barlume nella speranza che si potesse trattare di un nuovo film. E perché no? Anche in un qualcosa legato a Twin Peaks. Hype a manetta, naturalmente. Ma – lo sappiamo – i gufi non sono ciò che sembrano.
Fatto sta che – disillusione o meno – ci siamo trovati fuori a firma David Lynch Theater Presents: Chrystabell & David Lynch, questa Sublime Eternal Love: ovvero una nuova collaborazione tra il regista e la sua ultima sensuale musa ispiratrice che vedrà il suo spazio (profondo) nell’uscita dell’album Cellophane Memories il prossimo agosto. E sì, a noi Laura Palmer manca tanto oggi come ieri, almeno da quando l’abbiamo scoperta incellofanata sotto quella scogliera ormai più di trent’anni fa. Che ci volete fare? Siamo ancora dei nostalgici, dopotutto.
Che tra i due ci fosse del magico lo si sapeva già da un po’ (ricordiamo ancora con piacere Crazy Clown Time del 2011) e ora tornano a far viaggiare oniricamente le nostre orecchie con questa suadente piccola gemma. Accompagnata – dice la musa stessa – da «un video musicale artisticamente minimalista, ma emotivamente sorprendente» ispirato da un sogno che l’ha vista protagonista.
Citiamo ancora: «Si tratta di una visione che David ha avuto durante una passeggiata notturna in una foresta di alberi altissimi, sulle cui cime ha visto accendersi una luce intensa. Stando ai suoi ricordi, quelle luci si sono poi trasformate nella voce di Chrystabell e la voce gli ha confidato un segreto. Nei versi cantati da Chrystabell le pause si susseguono, la sua voce emerge, scompare, torna indietro in sovrapposizioni di armonie e storia. La sua voce viene avvolta sia da quella di David che dagli strumenti dell’orchestra di Angelo Badalamenti, tra archi, chitarre oniriche e nuvole di reverberi».
Non sarà poi molto ma – per certe cose – noi siamo gli stessi di anni fa e siamo rimasti romanticamente e fanciullescamente attaccati a questi misteri.
Elaphi: The Wind
di Max Zarucchi
Elaphi è il nome di una band fresca fresca, di stanza a Dublino ma con radici italiane e una spruzzata di Svezia dietro le pelli. Sara Barberio (voce e chitarra) è la portavoce che trova in Federico Camici (basso, già con Motta, Piotta e Carotone) Jacopo Stofler (chitarra) e Grim Nordahl (batteria) la solida base per lasciarsi andare liberamente alle interpretazioni canore.
Dopo un paio di singoli hanno pubblicato un EP di tre brani, di cui The Wind è il pezzo conclusivo. Le coordinate sonore sono varie, ma si muovono comunque in quella zona che una volta veniva chiamata indie (oddio, pure ora lo chiamano così all’estero: è da noi che il termine è stato scippato per descrivere ben altro), tra Slowdive, Radiohead, Sigur Rós… insomma, ci siamo capiti.
The Wind è un pezzo intenso, sognante e con una forte densità malinconica, che si sviluppa pian piano prendendosi tutto il tempo necessario per entrare sottopelle e trasportare l’ascoltatore nella polaroid in bianco e nero di un testo tutt’altro che allegro. Se da una parte manca quel guizzo che riesca a far spiccare gli Elaphi in mezzo alla moltitudine infinita delle band simili, non è difficile riconoscere in loro dei germi stilistici e compositivi che potranno portare nel tempo a vedere il loro nome sempre più in alto nei cartelloni dei festival a tema.
Perché se le note sono sempre sette, è il modo in cui vengono usate che può fare la differenza e la band in questo dimostra di avere molto gusto nel saper dosare come si deve gli ingredienti, senza mai strafare, rendendoli sempre più efficaci a ogni ascolto.
Hell On: He with the Horse's Head
He with the Horse’s Head in apparenza è solo una versione centrifugata dei vecchi Sepultura, quelli più sulfurei e aggrappati agli stilemi thrashettoni degli anni ‘80, ma ascoltandolo e riascoltandolo si riscontrano sfaccettature interessanti. Per cominciare sotto l’impalcatura brutallara e satanassa, fatta di urla, riffettoni in palm-mute e altri aberranti tecnicismi ritmici ormai tipici e abusati nell’estremo heavy, c’è sopra un mellifluo corollario di melodie esotiche, con cui elevare il brano dalla terra marcia alle selve eteriche del cielo oltre le montagne bombardate.
Gli Hell:On sono ucraini, paganissimi e invischiati in una retorica cattiva e rumorista della libertà. Il concetto va inteso sul piano puramente spirituale, quindi suggerisco di non leggere alcuna implicazione politica e storica, a dispetto della geografia in cui si trovano e della situazione ben nota nel loro paese. Il rutto libero di He with the Horse’s Head è reiterato vagito di protesta verso i falsi dèi che hanno sempre costretto l’uomo a un regime di sofferenze e ingiustizie in vista di una ricompensa in un fasullo regno della retribuzione e della punizione, a seconda di come ci si sia comportati.
Le band metal più invischiate nella ricerca interiore e nell’elevazione personale scelgono raramente versanti morbidi e sperimentali. Il più delle volte, ammesso non si tratti di pose conformi alla dimensione commerciale, optano tutte per la violenza e la rabbia controllata delle gabbie in cinque settimi del death o del thrash. Dalle sbarre di una musica invero molto statica e prevedibile, impugnano quelle stesse sbarre e berciano come belve il proprio desiderio di uscire e vivere la propria vita nel pieno della propria volontà e responsabilità. In tutto questo c’è una sublime contraddizione, non trovate?
Michele Bitossi: DIGADENTRO
«Mi è crollata una diga dentro, ovviamente non ero pronto».
Il potere della musica, forse, è quello di riuscire a raccontare cose che succedono a tutti, esperienze comuni che molti non potrebbero esprimere in maniera così bella e puntuale. Quando questo accade, si crea una sorta di magia, frutto del talento di autori e artisti che, semplicemente, sono toccati dal destino. Oppure, potrebbe essere il risultato del lavoro meticoloso di artigiani che smussano, scrivono, cancellano e riscrivano per ore il medesimo verso, affinché tutto sia perfetto, in maniera ossessiva e spaventosa.
Non so come operi Michele Bitossi, ma so che quando le nostre strade (la sua musica e le mie orecchie) si incrociano, sento il bisogno del tempo necessario per capirlo, mi suscita un intrigante desiderio di esplorarlo ulteriormente. E così, mi sono ritrovato profondamente coinvolto in questa bellissima canzone. D’altronde, credo che a tutti, prima o poi, sia crollata una diga dentro. Un tumulto, la sensazione del mancamento della terra sotto ai piedi, un groviglio di sentimenti e la bellezza di avere qualcuno al nostro fianco.
Il videoclip, girato in una Genova in bianco e nero, mostra persone che si muovono nella quotidianità, come se tutto fosse normale. Ma forse qualcosa sta accadendo dentro alcuni di loro, anche se non sappiamo esattamente cosa. Michele riesce a portarci proprio sul bordo della diga, su un baratro che è pronto ad accoglierci. Noi, però, siamo tutti ragazzi gentili e diciamo sempre alle voci di entrare, come suggerisce Michele, e conosciamo perfettamente cosa può succedere, proprio come lui.
«Ci è crollata una diga dentro, però almeno ci stiamo accanto».
Molčat Doma: Son
di Max Zarucchi
Il pericolo per i Molčat Doma, dopo un inizio quasi inaspettatamente scintillante, era quello di rimanere con i piedi incastrati nell’argilla del suono quadrato odorante di acciaio e cemento dell’Est pre-crollo del blocco sovietico. È successo a moltissime band che avevano intrapreso lo stesso percorso, ed era anche fisiologico: quanti brani “così” si potevano avere nel cassetto senza risultare una fotocopia allo specchio di se stessi? Ma i bielorussi sanno il fatto loro, e prima che i nodi venissero al pettine, hanno avuto la lungimiranza di rasarsi a zero spalmando la capoccia di crema protettiva, che nello specifico si chiama melodia.
Il nuovo percorso dei Nostri, pur rimanendo fedele a un certo tipo di estetica sonora e figurativa, fa infatti proprio della melodia (nel cantato, negli intrecci di chitarra, nelle linee di basso) il perno portante attorno al quale gira la musica, dove anche l’austerità della batteria elettronica è addolcita da una scelta di pattern meno spigolosi e acidi, più pieni e meno monotoni, nonostante – e non potrebbe essere altrimenti – rimanga comunque presente la rigidità formale della ritmica.
Tutto questo e altro ancora si trovano nel nuovo singolo Son, brano malinconicamente catchy quanto basta per portare altra acqua al mulino dei Molčat Doma. Non deve quindi stupire il fatto che le date del tour autunnale già in programma andranno a occupare sale da concerti molto più capienti che in passato: segno che i nostri sanno quello che vogliono e anche come ottenerlo.
Di certo tra le realtà contemporanee più interessanti e credibili di quella nuova scena che affonda le proprie radici nella vecchia darkwake che fu.
Monte Mai: Japanese Girl
Japanese Girl è il singolo di rientro dei ticinesi Monte Mai, dopo il disco Eyes Sea Double dello scorso anno.
In questo periodo di transizione, che li vedrà impegnati con la pubblicazione di tre singoli, Fabio Pinto, Anaïs Schmidt e Fabio Besomi scelgono di attaccare con un brano ritmato e acidulo che inizia a spron battuto, batteria a tenere il tempo e un arrangiamento lieve, nel quale si sente una reminiscenza degli anni ‘80 più delicati e morigerati, come se qualcuno avesse trasportato Chris Frantz e David Byrne all’interno di uno studio fatto di origami. Quando poi i cori partono a ondate il tutto si accartoccia, quasi come se Charlie non riuscisse più a surfare e si ribaltasse sotto la potenza del tratto di Katsushika Hokusai e della sua massa acquatica. L’attimo è però dotato di una sua grazia, si esprime in un ralenti che mette in evidenza un suono che si fa bolla e plana leggero fra la strumentazione e che ci lascia nel silenzio.
Nella nostra testa intanto risuonano le loro tastiere, siamo ormai fradici e soli sulla spiaggia, a rimirare la schiena della japanese girl che si allontana, canticchiandole senza speranza la nostra canzoncina.
Tess & John: Barstow
Quel che colpisce in prima battuta della coppia di Tess & John sono le loro voci. Calde, misurate, in un brano che ci conquista immediatamente, dal primo scampolo. Ci sono un calore e un carattere, in questa coppia, che appaiono come un colpo di fulmine. Prima un’entrata a basso e batteria, poi la voce di lui, che viene completata con quella di lei: i due si passano la parola, si raddoppiano, si armonizzano, si sposano perfettamente. Intorno a loro gli strumenti mantengono la rotta di quella che è una bellissima canzone pop ma che è anche un viaggio nelle praterie, una fuga e un sogno. Decisa, orecchiabile, perfettamente rifinita, azzeccatissima.
Certo, sappiamo ben poco dei due: come, cosa, quanto succederà ancora dalla loro unione? Ma di una cosa siamo certi: il loro duetto non potremo dimenticarlo facilmente e così come la curiosità di scoprire cosa stanno macchinando non farà che montare. Si direbbero francesi, anche se Barstow sta in California, circa a metà strada fra Los Angeles e Las Vegas. Vai a sapere.
Di sicuro il Reverendo Jacky T, Bambi “Disco” Fever, Darling “Irish” Pantera, Bill “Mr. Clean” sono personaggi destinati a entrare nei nostri cuori, proprio come questo brano.
The Troops of Doom: Dawn of Mephisto
Questo gruppo porta il nome di un brano dei primi Sepultura, ma non è un semplice omaggio alle origini di quella band seminale e ormai canonizzata. Dietro il progetto dei Troops of Doom, thrash-death e pedalare, c’è infatti uno che quelle prime canzoni insieme a Max e Igor Cavalera le scriveva e suonava, un membro di quella prima incarnazione del gruppo metal più popolare dell’intero Sud America. Sto parlando di Jairo “Tormentor” Guedz.
I Troops of Doom non sono qui per scompaginare le carte del destino: le cose sono andate come dovevano andare, è chiaro, niente recriminazioni o vendette fuori tempo, ma è giusto che Jairo si riappropri di quel pezzettino d’eredità che gli spetta. Lui era lì e combatteva con gli altri Sepultura in una giungla di indifferenza e superstizione.
Eccolo, Jairo, suona la chitarra, si è mantenuto bene, è un bell’uomo con una dignità robusta e verticalmente sinistra. La direzione cavalcata dalle sue truppe è devota al classico metal estremo degli anni Ottanta ma – pur nella semplicità assoluta di una celebrazione umile e dichiarata – si avverte che dietro, a scrivere riff e strutture, c’è un artigiano che nel proprio piccolo qualcosa da dire ce l’avrebbe pure.
Dawn of Mephisto scompiglia e seduce non tanto con l’andatura forsennata della vecchia scuola, in una rigorosa e spoglia struttura “tupatupa” senza un domani, ma nelle sottili armonizzazioni delle chitarre, che arricchiscono il brano con una veste fresca e avvolgente. Non c’è traccia nel pezzo delle stucchevoli malinconie da gruppo cover. Qui si mena e basta. I Troops of Doom sono qui per farvela pagare a tutti.
We Hate You Please Die: Stronger Than Ever
«She doesn’t need your validation / She’s gonna be herself».
Vuoi un po’ per la reference a Scott Pilgrim vs. the World – film della vita –, vuoi perché un moniker del genere puzza di garage, incazzature e (rivoluzionari) cazzotti in faccia a distanza di chilometri, gli We Hate You Please Die ci hanno conquistato istantaneamente, già dalla precedente Adrenaline.
Francesi dal dente avvelenato, ridottisi a trio dopo un interessante – seppur da sgrezzare – Can’t Wait to Be Fine con formazione a quattro e doppia voce, con Stronger Than Ever perseguono audacemente la nobile missione di veicolare schiaffoni punk sulla fase R.E.M. dei dormienti del 2024, provando a sensibilizzare un popolo con gli occhi rimangiati da una cataratta indotta dagli smartphone e con la testa assuefatta dall’apparenza di una vita patinata al di fuori, totalmente marcia al suo interno.
È l’empowerment femminile a colonizzare i testi e a scoperchiare orgogliosamente il container di gain che sbocca dalla sei corde di Joseph Levasseur, un testo piuttosto semplice da interpretare, ma si sa: con argomenti del genere, oggigiorno ancora tabù manco fossimo nel dopoguerra, bisogna essere il più espliciti e concreti possibili. Allora prendi una melodia come amo, facci crescere attorno un rampicante tozzo di basso/batteria e poi premi il grilletto del refrain, ammassando insieme giusto un pizzico di English Teacher con una grossa dose di Sprints e di quell’irruenza controllata, di quell’hook facile, di quella sana voglia di sbatterti a terra e vomitarti addosso quanto faccia schifo la realtà in cui viviamo.
Piazzaci pure dentro Be Your Own Pet, Mannequin Pussy e Bully, tutto veicolato tra gli artigli vocali di una Chloe Barabé ritrovatasi unica frontwoman: non è per nulla un minus, anzi, il sound degli We Hate You Please Die pare aver scovato una quadratura più chiara partendo proprio da un’acquisita uniformità al microfono e assorbendo (a livello strumentale) non solo parte della crank wave, bensì tutto un blob di post-grunge e alternative-rock. Insomma, cominciano a ritagliarsi una dimensione internazionale.
Bisogna dire altro per decidere di ascoltarli? Lesti, che si incazzano.