[New Music Weekly] Il nuovo mondo dei Fontaines D.C., il ritorno al growl degli Opeth, una spruzzatina di eau de Tony Iommi
Settimana 31 – con Fontaines D.C., Tony Iommi, Jane's Addiction, Opeth, Sassyhiya, NX, High Vis, Karate, Half Happy, Hanumankind & Kalmi.
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Nemmeno il tempo di riprendersi da delle (sempre troppo brevi) vacanze estive all’insegna del caldo torrido che già dobbiamo slalomare nel pantano delle discordanti reazioni riguardo al nuovo, attesissimo lavoro dei Fontaines D.C. – si sono venduti, hanno perso l’ispirazione, o semplicemente tutto quello che toccano diventa oro e sono ormai i più forti candidati al trono di più grande band dei prossimi cent’anni? La verità, come spesso accade, probabilmente sta nel mezzo. Ci limitiamo quindi a constatare che i singoli, fino ad adesso, sono a dir poco azzeccati. In particolare l’ultimo: ascoltare per credere.
Se invece la calura vi ha fatto salire la nostalgia – non solo di quando d’estate ancora si poteva respirare, ma soprattutto di quando Mikael Åkerfeldt cantava con la melma delle proprie corde vocali – ecco che gli Opeth rispolverano il buon vecchio growl per rinfrescarvi le idee. Nel frattempo, i Jane’s Addiction hanno riportato Eric Avery all’ovile, e anche qui l’amarcord ci guadagna, i Karate si rifanno vivi dopo quasi due decadi, come se nulla fosse, con la stessa classe di allora, mentre contro l’inevitabile sudore di stagione, Tony Iommi presenta il suo nuovo profumo (true story).
Il resto, per fortuna, sono volti meno noti. Gli High Vis ci avvolgono nella loro versione del post-punk: incazzata, discontinua, melanconica e grigia. Gli Half Happy rovesciano un bicchiere mezzo pieno di talento nel cocktail di un’indie-pop song pressoché perfetta. Le Sassyhiya omaggiano Kristen Stewart con un brano solare alla faccia di Twilight. Domenico Genna a.k.a. NX rappa mischiando rigore svizzero, vitalità italiana, cultura statunitense e spezie mediorientali. Infine – dall’India con il furore di più di 50 milioni di visualizzazioni su YouTube – ecco Sooraj Cherukat che porta il suo moniker Hanumankind nell’Olimpo delle grandi star.
Fontaines D.C.: In the Modern World
L’impressione condivisa tra chi ha visto recentemente i Fontaines D.C. dal vivo è che la band irlandese abbia un futuro ancora più radioso davanti a sé e platee sempre più vaste davanti alle quali esibirsi. A crescere nel tempo infatti è stata certamente la qualità delle loro produzioni artistiche e la capacità di ampliare i propri orizzonti musicali, ma anche una buona dose di ambizione e consapevolezza.
In the Modern World è forse la rappresentazione più efficace di questo graduale passaggio di status, e se le cose non succedono mai per caso ma sono il frutto di un percorso e di una serie di fattori concatenati, va detto innanzitutto che – a prescindere da chi la suona e di quale storia abbia alle spalle – è una grandissima canzone, perché in grado di suscitare un ampio ventaglio di sensazioni.
A partire dal senso di soffocante alienazione che si respira nelle prime note di chitarra, in cui la voce di Grian Chatten in primo piano è intimamente penetrante, fino ad aprirsi a un senso di rinascita, a cui si accompagna un arrangiamento avvolgente in cui spiccano gli archi e i cori, come un doloroso processo di liberazione che porta a una ritrovata consapevolezza. A essere in contrasto sono i rigidi schemi del mondo moderno che sembrano chiudere ogni prospettiva alle emozioni umane contro la capacità dell’uomo di ritrovare la propria natura e trasformare le proprie percezioni, uscire dal recinto e sentirsi vivo, autodeterminare la propria condizione e annunciare, nei versi finali, «Io sono la legge / non mi sento male».
Un messaggio profondo e significativo, a cui l’atmosfera emotivamente coinvolgente del brano impedisce di sottrarsi.
Half Happy: Well Done Honey
La felicità (quella vera) è una roba che capita – quando capita, lo sapeva bene quel buon vecchio saggio di Tonino Carotone – a momenti: è fatta di attimi, in questo mondo difficile, e la bravura sta tutta nel riuscire a rendersene conto prima che siano passati, per goderseli – appunto – un attimo e non, come spesso accade, con il senno di poi. Il resto sono tutte mezze felicità, da tenersi forse ancora più strette perché quello è ciò che davvero passa il convento e soprattutto perché i calici di gioia sono tra i pochi bicchieri che, anche a metà, vanno trattati sempre come mezzi pieni invece che mezzi vuoti.
A giudicare dal nome, non c’è bisogno di spiegarlo agli Half Happy, giovane progetto d’Oltremanica nato come lockdown divertissement da salotto aromatizzato al COVID di Zac Noneley e Rosalie Miller in quel di Cardiff, ma ormai da un po’ quartetto che è una (mezza) leggenda locale tra le vie della capitale gallese (chiedete a chi c’era allo Sŵn and Green Man Festival o a chi li ha visti al Welsh Music Prize) e finalmente pronto (dopo cinque singoli in crescendo) a pubblicare l’EP di debutto Conversation Killer.
Coerentemente, cantano di roba che a cose normali sarebbe foriera di sensi di colpa, dolore e frustrazione (qui, per esempio, il ritorno a casa in macchina, con le guance rigate di lacrime dopo l’ennesima giornata di lavoro in balia di un caporeparto comprensivo come un cespuglio di rovi e ortica), ma che nel giro di una strofa e di un ritornello viene rivoltata come un calzino fino a rilasciare in maniera controllata un retrogusto (mezzo) allegro, quasi consolante – che poi sarebbe proprio il semplicissimo (ma assai complicato da mettere in pratica a puntino) trucco segreto del pop di Pulcinella.
A tal proposito, ultima in termini di data di uscita, Well Done Honey si avvicina spaventosamente all’indie-pop song perfetta, di quelle che ci fanno tornare a cavallo del cambio di millennio, quando essere mezzi felici era il massimo perché troppo felici non sarebbe risultato abbastanza post-grunge. Basso e batteria in tiro fisso, voce sufficientemente cool (non senza una punta di boredom che la renda dolceamara quanto basta) per dire shoegaze senza paura di suonare melensa, chitarre mai banali eppure mai invadenti. Ciliegina sulla torta, lo stacco in parte spoken a due terzi del brano – un po’ Wolf Alice, un po’ English Teacher – a dimostrare che qui non siamo a fare solo il compitino, ma una (mezza) idea di come scrivere una canzone rock a modo ce l’abbiamo.
I fan dei Sundays e degli Alvvays troveranno pane per i loro denti. E musica per le loro orecchie, s’intende.
Hanumankind (feat. Kalmi): Big Dawgs
Uno dei video musicali più visti dell’ultimo mese (con cifre superiori ai 50 milioni) è quello, francamente irresistibile, della nuova Big Dawgs di Hanumankind, nom de plume del rapper indiano Sooraj Cherukat, qui accompagnato da Kalmi.
Artista in orbita Universal e Def Jam con un mercato interno praticamente illimitato, riesce letteralmente a trascinarci in un banger nel quale la sua voce caratteristica e granulosa viene espressa al meglio. I sottotitoli ci aiutano a districarci nella classica storia di rivalsa e crescita, coerente con uno storyboard che ben si innesta in una cultura hip hop, ma in qualche modo storto in maniera sufficientemente accattivante. Girato all’interno di una Marana Kinar, capanna nella quale si viene risucchiati in un folle Wall of Death, dove auto e moto corrono circolarmente sulle pareti mentre prima Humankind e poi Kalmi portano il brano a spaccare teste e radio, il secondo con una voce profonda che sembra uscire dall’oscurità e un senso di rischio e di comunione che ci fanno sentire come fossimo davvero lì, a cantare, urlare e scommettere su Humankind.
Scommessa ampiamente vinta, del resto: a noi solo il compito di attestare la vittoria, anche qui fra uomini e robot.
High Vis: Mind's a Lie
Londinesi e probabilmente prossimi al loro terzo album, gli High Vis riescono, con questa loro Mind’s a Lie, a fondere rabbia post-punk con linee vocali che sembrano provenire da uno spettro R&B, creando uno stridente insieme che ci avvolge in una incazzatura discontinua, melanconica e grigia.
La voce di Graham Sayle ce lo fa immaginare allo stremo delle proprie forze: il canto, come passo successivo alle lacrime, su una condizione e una situazione ormai sfuggita di mano. Tuttavia, il suono che accompagna tale angoscia è leggero, etereo, e si fonde con atmosfere pop oniriche e romantiche.
Difficile dire cosa potrà succedere dopo questo brano, perfetto nel presentare una band che si dimostra capace di fare letteralmente di tutto come prossimo passo. La speranza è che questo mix perfettamente riuscito non sia solo un elemento isolato in un eventuale album, ma che possa farsi spina dorsale, accompagnando le avventure degli High Vis su diversi livelli: il basso per i bassifondi, la voce cruda per la periferia, la batteria a unire questi due estremi, mentre una chitarra panoramica accompagna il tutto. Infine quelle vibrazioni che si trasformano secondo dopo secondo, ora alba ora tramonto.
Mind’s a Lie, ma la musica invece, quella non mente.
Jane's Addiction: Imminent Redemption
di Max Zarucchi
Dopo quasi sette lustri, Eric Avery torna all’ovile (perlomeno in studio, dal vivo aveva fatto una capatina tra il 2008 e il 2010) ed è la prima cosa evidente nel nuovo singolo dei Jane’s Addiction. Le sue quattro corde sono sempre state una delle gambe su cui si poggiava dal 1985 il sound caratterizzante della band di Los Angeles, che in sua assenza ha pubblicato altri due album (Strays e The Great Escape Artist) con l’ottimo Chris Chaney, due lavori davvero belli che però giocoforza suonavano molto diversamente.
Con Imminent Redemption il sound originale dei Jane’s Addiction è tutto lì, seppur ammaliato e stemperato. Inutile e fuori luogo aspettarsi il seguito di Ritual De Lo Habitual: trentaquattro anni non sono bruscolini, si cambia e si invecchia e ci mancherebbe altro. Ecco allora che le visionarie liriche di Farrell qui sono davvero semplici (qualcuno direbbe banali), la musica è eccellente ma infinitamente meno tossica (altrimenti che redenzione è?) e i rimandi nostalgici e malinconici fanno capolino qua e là (gli atonali in chiusura dei soli di Navarro, i rimandi chiari a Moonage Daydream di David Bowie nel ritornello). Ma insomma, che chiedere di più?
Il brano è catchy, titilla la curiosità e funge benissimo da antipasto per il prossimo album (dove magari i nostri proveranno a sperimentare un po’ di più) e il tutto gira alla perfezione. Se proprio uno volesse fare le pulci, la produzione in generale non è ottima: un filino troppo flat, senza i giochi di pieno/vuoto e crescendo che caratterizzavano i Nostri, con la voce di Perry davvero troppo davanti e Perkins affogato sullo sfondo in maniera quasi inintelligibile.
Ma per il resto, un grande ritorno.
Karate: Around the Dial
Appena parte siamo immediatamente riconnessi con Geoff Farina, Gavin McCarthy e Jeff Goddard. I loro fraseggi riescono a mantenere quella sottile arietta jazz, muovendosi in un ambito che hanno contribuito a unire e a creare insieme ad altri fari del passato quali Slint, Fugazi, Codeine.
C’è poco, pochissimo nei due minuti e mezzo di Around the Dial, una delle tre canzoni (le altre sono Defendants, che aprirà la tracklist, e Silence, Sound, che la chiuderà). Ma anche tanto, tantissimo. C’è la ritmica inimitabile dei Karate, la voce di Geoff, sogni che smettono di essere riscontri, una tristezza che probabilmente è la consapevolezza che appare a molti quando si rendono conto della loro situazione adulta. C’è un brano che ci parla, una chitarra che ci trascina, un suono che ci riapre cassetti nei quali, impolverati, avevamo lasciato un po’ di noi. C’è, soprattutto, la possibilità di risentirsi dentro a un suono personale che il trio aveva creato a Boston ma che più di una volta si era poi rivolto anche all’Illinois, e in qualche caso, come in questo, riecheggia anche di suggestioni kinselliane (di scuola American Football più che Cap’n Jazz), trovando una perfetta mistura fra i passaggi strumentali e quella voce.
Sono minuti spaziosi nei quali poco basta a farci capire che, in fondo, le cose non sono poi così cambiate. Certo, siamo un po’ più vecchi e più canuti (non ricordo nemmeno più che anno fosse quando li ho visti per la prima volta dal vivo, al CPA di Firenze insieme ai Brutopop), ma ehi, è la vita. «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» diceva Tancredi nel Gattopardo, e direi che tutto intorno a noi è cambiato moltissimo. Ma abbiamo comunque le nostre certezze e i Karate sono sicuramente una di queste.
NX: Vi abbiamo sgamato
Ridendo e scherzando sono venticinque anni di carriera per NX, nome d’arte di Domenico “Nico” Genna, rapper ticinese con profonde radici nel Sud Italia.
Qui, a braccetto con il produttore Luca Costanzo a.k.a. Costa, fonde realtà e virtualità in un viaggio fra old school e arie mediorientali. Il risultato non è un semplice esercizio di nostalgia, ma un percorso ipnotico che esplora le sue origini. Un brano brevissimo (non arriviamo ai due minuti) ma che riesce ancora una volta a farci entrare in un vero e proprio carillon vocale e strumentale, fra rime che colpiscono come un uno-due pugilistico e suoni che ubriacano guardando a luoghi di incroci culturali. È come se una piccola Istanbul prendesse vita a Chiasso, città che, anno dopo anno, si sta rivelando sempre più un crocevia di culture.
Rigore svizzero, vitalità italiana, cultura statunitense, spezie mediorientali, visioni fuori dal tempo: tutto si mescola in questa traccia, dove NX riesce a trasformare la quotidianità in un sogno. Le linee vocali sono quadrate e precise, arricchite dall’intervento di Costa e dall’autocitazione del progetto Massakrasta che Nico condivideva con Francis, a pochi passi dalla dogana.
Storie vissute, inventate e immaginate si intrecciano fino a creare mondi e collegamenti al di là e al di qua della frontiera. Vi abbiamo sgamato è il ritorno di NX: una veloce dimostrazione del fatto che, dopo un quarto di secolo, il suo stile è ancora intatto, pronto a riprendersi ciò che è suo.
Vi stavate muovendo? Vi abbiamo sgamato, è giusto così.
Opeth: §1 (Radio Edit)
Åkerfeldt è tornato a cantare in growl! È bene dirlo subito e arrivare subito al dunque. D’altronde, basterebbe questo a ridestare un qualunque fan degli Opeth di vecchia data, e forse anche quelli più recenti. Ridestarli dal torpore di alcune produzioni un po’ sornione e – francamente – di livello inferiore al materiale che era tinto di un’oscurità specifica non indifferente. Già, perché solo con questo assunto si può ben affermare che “gli Opeth sono tornati”. Quelli veri, si intende.
Alt, alt. Fermiamoci un attimo. Sì, certo, non se ne erano mai andati. Ma provate a spiegarlo a quelli che erano rimasti a Blackwater Park, o a Deliverance, o al limite a Watershed, ultimo baluardo di un gruppo che aveva fatto della sua voce grossa e delle sue partiture sghembe uno dei punti più alti della musica progressive tinta di estremo. Quel death metal contaminato di influenze Seventies che da Orchid e Morningrise aveva incontrato Steven Wilson, abbracciato le diramazioni lisergiche, quelle semi-acustiche (anche con preziosi risultati come l’incantevole Damnation) e poi, complici forse alcune defezioni nella line-up, si era andato a scontrare, con la volontà del suo capomastro (e perdendo numerosi fan) nei territori ibridi di un rock progressivo all’inglese senza mai svettare del tutto, se non in alcuni brevi momenti, in originalità o personalità particolari.
Åkerfeldt, immergendosi sempre di più nei suoi trilioni di vinili anni Settanta, aveva deciso che gli Opeth non dovevano più abbaiare e dovevano andare avanti. Per un certo periodo era stata perfino abbandonata dal vivo, la voce in growl: decisione questa di tutto rispetto artistico, naturalmente, ma che già dopo poco era stata ritrattata in favore di una setlist che teneva conto anche del fatto che i fan degli Opeth volevano certe canzoni. Senza contare che i nuovi membri della band che aveva deciso di tirare in mezzo erano dei metallari belli e buoni e non certo degli epigoni dei Jethro Tull. Che alla fine Mikeal si sia finalmente arreso a ciò che la gente voleva da lui e dai suoi Opeth? Per ora diciamo solo che ci scherza su con il suo solito umorismo di dubbia comprensione: «Perché riportare in vita quel tipo di voce death metal proprio ora? Volevo che accadesse quando la gente aveva smesso di interessarsene… e immagino che questo fosse il momento!».
Insomma, vuoi o non vuoi, con questo assaggio di The Last Will and Testament, fuori la prima metà del prossimo ottobre, capomastro Åkerfeldt sembra mettere d’accordo l’ultimo In Cauda Venenum con Watershed e Ghost Reveries, anche grazie al nuovo batterista Waltteri Väyrynen che ci mette la sua parte progressive. Ecco, così quel tocco di nostalgia pura delle vecchie copertine viene rispolverato come una vecchia cartolina. Il tutto è assolutamente convincente, soprattutto se immaginato nel contesto più dilatato di un concept album.
Siamo sicuri che in ogni testamento o volontà finale di un fan degli Opeth ci sarebbe stato scritto qualcosa come “Mikael, torna a cantare in growl!”. In questo senso, c’è già uno spoiler nel concept di cui sopra.
Sassyhiya: Kristen Stewart
Nata il 9 aprile 1990, Kristen Stewart è una delle attrici che più hanno delineato gli ultimi anni di cinema e ognuno di noi ci si è affezionato per qualche motivo. I miei due cent vanno per le partecipazioni a Panic Room e alla sua interpretazione di JT Leroy e Joan Jett.
Qui le londinesi Sassyhiya (Kathy Wright e Helen Skinner – coppia nella musica e nella vita – anche se le ultime voci dicono di un allargamento dell’organico, forse per il loro debutto?) arrivano al loro primo singolo del 2024 dopo un paio di EP digitali autoprodotti, riallacciandosi alla più grande tradizione indie-pop: chitarrine, belle voci, batteria minimale e un’ode infinita a un’icona amata dalle ragazze, una e unica, resa in maniera brillante da questa canzone e dal delizioso video che la accompagna.
Che altro? Speriamo di vederla realmente con la canotta targata Sassyhiya, come nelle animazioni di Em Charlier, e magari a mettere la propria voce su una prossima versione del brano.
Fantasie impossibili? Chissà, intanto il brano si è ben piantato in testa e non accenna ad andarsene.
Tony Iommi: Deified
di Max Zarucchi
Ci sono dei pro e dei contro. Iniziare da questi ultimi aiuta a togliersi i sassolini dalle scarpe prima di immergersi nell’ascolto di Defied, il nuovo brano di Tony Iommi. Si potrebbe fare un lungo giro di parole, cercando di indorare la pillola e mascherando il motivo dell’esistenza di questo pezzo sotto chili di paroloni e retorica, ma la questione è semplice: si tratta semplicemente della colonna sonora che accompagna l’uscita di un nuovo profumo. Roba da oltre 250 euro a boccetta, ça va sans dire. Ma non c’è da stupirsi: lo aveva già fatto tre anni fa con Scent of Dark e poi insomma, i dischi non si vendono più, Ozzy non riesce a fare concerti, Dio è morto (ma non come intendeva Nietzsche) e le bollette vanno pagate (e il suo castello consuma più del vostro monolocale, suvvia).
Storielle, alla fine. Perché i profumi evaporano, ma la musica resta. Ecco allora che una volta raddrizzato il nasino storto, non si può rimanere indifferenti di fronte al brano che ulula “Iommi” da ogni secondo. Il Riff Master per eccellenza fa quello che deve: butta giù una manciata di giri e ci costruisce sopra un’orchestrazione epica, drammaticamente oscura, dove possono muoversi i suoi assoli nervosamente blues. È in quel momento che capiamo perché è stato e resta il re indiscusso del metal e non solo.
Fosse anche solo per quello, gli si perdona volentieri un gadget spilla-denaro come la fragranza che porta il nome del singolo.