[New Music Weekly] Il (post) post-rock dei Mogwai, il surrealismo dei Buñuel, il rock'n'roll old school degli Hellacopters
Settimana 36 – con Mogwai, Discoverland, Buñuel, The Hellacopters, Rosetta Stone, Vamberator, Amiata, Cigno, Cosmic Room 99, Ottone Pesante & Lili Refrain.
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C’è chi ha la necessità di sperimentare (anche solo aggiungendo o cambiando una piccola variabile a una formula ben consolidata) e chi quella formula preferisce non toccarla, ma girarle attorno per rifinirla a colpi di cesello.
Danno cenni di voler far breccia nel primo gruppo i Mogwai, che da un po’ ormai stanno provando ad andare oltre quel concetto di guitarmageddon che hanno contribuito a fondare. Possiamo dire la stessa cosa dei Discoverland di Roberto Angelini e Pier Cortese, che chiamano l’amico Niccolò Fabi per allontanarsi dalle cover e tentare per la prima volta la strada delle composizioni originali. Della categoria fanno parte da sempre invece i Buñuel, sempre più la cura adatta per la musica del Belpaese, così come gli Ottone Pesante, che, insieme a Lili Refrain, mischiano metal, psichedelia con un’intensità epica e lancinante, Diego Cignitti (in arte Cigno), una delle cose più interessanti nel panorama italiano dai tempi dei primi Bachi da pietra, e gli swissitaliani Amiata (pop musik), che mettono insieme punk, teatro-canzone e poesia senza peli sulla lingua.
Al contrario, capostipiti dell’amore per lo status quo, ecco gli Hellacopters di Nicke Andersson: rock’n’roll e via andare. Ma anche (seppur in misura minore) i nostri COSMIC ROOM 99 (shoegaze polveroso come il deserto e non poco groovy), i Rosetta Stone di Porl King (gothic rock abbastanza wave) e i Vamberator di Boris Williams (art pop mai noioso e raffinatissimo).
Amiata (pop musik): Il potere (genitori genitali)
Amiata (pop musik), allora. Al suono storto si accompagnano le rime tortuose di Marko Miladinović, le chitarre ispide di Marco Guglielmetti (già attivo anche con lo splendido progetto Infesta), il basso di Filippo Zanoli, i synth e i cori di Claudio Büchler e Matteo Simonin (che porta in dote anche il suo sax).
È un flash, nemmeno due minuti e mezzo prima che tutto finisca e ci rimandi all’esordio Alti Eldoradi appena uscito. In dote portano le ispirazioni – parole loro – dei Doors, dei Fall, degli Area e di Alfredo Cohen, ma, fidatevi, non credete a una parola di ciò che raccontano. Piuttosto, buttatevi con loro nel flusso di suono e parole, mordendo cosce e cagando denti.
Il potere è soltanto un insieme di due parole, tutto sta nel significato che gli diamo. Di certo si sentono i profumi del punk più libero, del teatro-canzone, il sudore del pubblico, la poesia e una certa levità di suono, come se avessero in qualche modo riguadagnato una verginità post-coitale.
Ripartono così, due minuti alla volta, fastidiosi come una zanzara, esili e brillanti come sempre. Ci riserveranno sicuramente ancora molte sorprese, ma per ora facciamo girare più e più volte questo pezzo, lanciando le braccia a ogni impennata di synth e volando letteralmente su un mondo mediocre e arrivista. Musica perfetta per questo buco di culo di piombo, per sfuggire alla cristallizzazione del microfascismo. Del resto, potere non significa superpoteri, mentre Amiata (pop musik) significa supermusica.
Buñuel: Drug Burn
«In ogni disco di Buñuel si ritrova una scrittura automatica, una sorta di flusso di coscienza, infatti non ritrovate i personaggi del Teatro degli Orrori o degli Afterhours, ma le loro ombre staccate che parlano da sole. Questo è il nostro surrealismo.» — Così Franz Valente nel 2018, ovvero all’uscita di The Easy Way Out, definiva l’attitudine hardcore di Buñuel e la sua collocazione anomala in una scena culturale sempre più sull’orlo di un precipizio.
Difficile trovare un fuzz più urticante e obliquo di quello di Xabier Iriondo oppure un personaggio come l’ex Oxbow Eugene S. Robinson, interprete di un linguaggio viscerale fatto di amore e follia, che sul palco diventa portavoce di un flusso di coscienza misterioso e minaccioso allo stesso tempo. Se il nostro Paese ha bisogno di essere preso a ceffoni, di ridestarsi da un sonno profondo delle coscienze, i Buñuel sono la cura adatta, quel proiettile che ti sfiora la pelle come un bacio o un bisbiglio all’orecchio che serve a ricordarti di essere (ancora) vivo. D’altronde basti guardare la copertina programmatica di Killers Like Us. Due anni dopo i Buñuel, sempre con l’ottimo Andrea Lombardini al basso, annunciano l’uscita del nuovo album Mansuetude anticipato dalla traccia Drug Burn.
La chitarra metallica di Iriondo disegna una impossibile geometria infiammata lungo cui corre il drumming di Valente, mentre le declamazioni di Robinson suonano come inappellabili sentenze di morte del perbenismo e dei suoi derivati sociali. In questa rabbia c’è ogni cosa e il suo contrario: il punk spinto oltre i limiti fisici sino esplodere subito dopo essersi imbrattato nella polvere di un deserto da cui si potrebbero scorgere tracce stoner, ma anche un blues che canta di micro-apocalissi postmoderne. Ascolto come sempre irrinunciabile come un kit di sopravvivenza.
Cigno: Il tuo schiavo sta arrivando
Cigno è ormai riconoscibile, nella sua intensa lettura dei canovacci che segnano la nostra vita. Il lavoro, il tempo libero, gli ideali, le storie.
Qui si fa sostituire direttamente dalla classe operaia: è il rider stesso a prendere le redini del microfono e del videoclip, mentre il ventre molle italico dell’ascoltatore aspetta in mutande sul divano. Ma c’è molto altro dietro a una canzone come questa, molto altro dietro a una condizione come quella descritta. Sogni, possibilità e legami, il papa Bergoglio, la voglia di un poke, il proletariato in bicicletta, lo Stato e il lavoro, maledetti loro, Giulio Regeni e lo smart-working. Qualcuno si vesta ed esca, hanno suonato alla porta.
Il tuo schiavo sta arrivando è punk sardonico che lancia in maniera incredibile il prossimo album, per la precisione il numero tre. E di Buonanotte Berlinguer possiamo iniziare ad avere paura sin d’ora: di certo la furia si sente già, e dopo Morte e pianto rituale e Nada! Nada! Nada!, Diego Cignitti è di nuovo pronto a dar fuoco alla benzina dei nostri peccati e dei nostri malandati corpi.
Starà a noi allinearci e unirci a quella che – a conti fatti – è una delle cose più pregne ed eccitanti accaduta al rock in italiano dai tempi dei primi Bachi da pietra.
COSMIC ROOM 99: E Corp
La sensazione è che i tre COSMIC ROOM 99 (Antonio Angeli, Matteo Scarpa e Diego Menegaldo) sappiano molte più cose di quel che vogliono farci credere. In primis, arrivano da due band (Kill your Boyfriend e New Candys) che già si caratterizzavano per un certo stile personale e avevano al loro arco un sacco di frecce. In secondo luogo, poggiano la loro poetica su enigmatiche dichiarazioni di Bob Cohen, il quale affermava che poteri misteriosi avevano intenzione di annientare la maggior parte degli abitanti di questo pianeta per renderlo vivibile per pochi eletti. Nulla di buono (forse), ma ottima è invece la mistura di Jesus and Mary Chain, rock desertico e psichedelica alla Velvet Underground che portano in dote. Del resto Shyrec è una delle etichette italiane che molto raramente sbaglia colpo quando si mette in testa qualcosa e qui riesce a montare un muro di feedback, voci ficcanti e una nebbia che piacevolmente ci confonde le idee.
Ma forse è meglio così, per lo meno forse riusciremo a render loro più difficile il compito di correrci dietro. Che ognuno scelga la propria linea di difesa: il consiglio che posso dare è quello, come sempre, di alzare il volume giusto un filo oltre l’umana sopportazione, scalciare come se non ci fosse un domani e armarsi di mattoni belli pesanti, proprio come questa E Corp. E vendere cara la propria psichedelica pelle.
Discoverland: Terza età
Fin dalla sua nascita, nel 2011, l’idea alla base del progetto Discoverland era quella di assecondare il desiderio di Pier Cortese e Roberto Angelini di cimentarsi con brani altrui sperimentando soluzioni ricercate e rivisitazioni estremamente personali. Perché se è vero che non è mai facile suonare pezzi di altri musicisti restituendone una propria visione che sia al contempo rispettosa dell’originale e abbastanza diversa da giustificarne una nuova versione, l’impressione è sempre stata che per i due artisti romani si trattasse di un’esigenza espressiva oltre che soltanto della voglia di divertirsi.
Dopo un lungo periodo di pausa e con alle spalle un ulteriore bagaglio di esperienze, i Discoverland tornano per percorrere la strada fin qui inesplorata della composizione di pezzi originali, a dimostrazione del fatto che si può mutare aspetto pur rimanendo se stessi e che le cose vengono ancora meglio coinvolgendo amici del calibro di Niccolò Fabi.
Terza età è un brano profondo che parla della vita e del tempo che passa, posandosi su una struttura semplice di chitarra acustica, pedal steel e intreccio di voci, in un crescendo di intensità e di forza comunicativa. Non un qualcosa dalla presa immediata, ma che ha bisogno di più di un ascolto per imprimersi e permettere di raccogliere i suoi messaggi e i suoi colori.
Mogwai: God Gets You Back
Mogwai gets you back. Ogni volta. È infatti così che i post-rocker scozzesi ti fanno sentire, ogni volta che presentano una nuova uscita, soprattutto se anticipatrice di un album o – come in questo caso – di un bel tour succulento (a cui sarà difficile dire di no). Pur con qualche lavoro forse non all’altezza della situazione, almeno per tutta la durata dell’album, i Mogwai restano dei capisaldi a cui appigliarsi e da cui trarre eterno entusiasmo. Una di quelle formazioni che ti fa sentire a casa, ecco.
Qui il video sembra un po’ uno dei modi più forzati per “mostrare” quello che in realtà la musica degli scozzesi ha saputo fare benissimo senza immagini. Ed è così che ci piace pensare a questa canzone. A meno che, naturalmente, non si tratti di immagini a cui la loro musica ha fatto riferimento specifico (impossibile non aprire la mirabile parentesi della serie televisiva Les Revenants).
La voce di Stuart Braithwaite è entrata a far parte di un immaginario strumentale ormai evolutosi in qualcosa di cangiante, pur mantenendo certamente la sua originale capacità specifica. In un genere così ricco di cloni, fotocopie e rivisitazioni, i Mogwai riescono sempre a essere identificabili: vuoi per la storia che hanno contribuito a plasmare, vuoi perché sono arrivati prima, vuoi per la qualità effettiva del loro operato. God Gets You Back ce lo ricorda. E a noi va ancora bene così.
Intanto il documentario sulla loro storia è stato presentato al South by Southwest (SXSW) di Austin, in Texas. Si intitola If the Stars Had a Sound, è diretto da Antony Crook e sembra un buon modo per ricordarsi (o riscoprire) una delle formazioni pilastro per quello che generalmente viene indicato con il termine di “post-rock”.
Ottone Pesante (feat. Lili Refrain): Battle of Qadesh
Ecco ancora le note di Francesco Bucci, sopra il telaio sonoro organizzato da Beppe Mondini e Paolo Raineri. Gli Ottone Pesante rientrano dopo un paio d’anni con un brano che è assolutamente spaziale. Ruggito strumentale che riesce ad alzarsi di livello grazie all’arrivo (a circa metà strada) di una delle vocalist più brillanti di tutta la penisola, quella Lili Refrain, che sta giustamente girando il mondo con i progetti più bui e intensi sulla piazza.
In quest’epica Battle of Qadesh ogni colpo, rullata e vibrazione è una botta a un corpo già martoriato, un corpo che probabilmente si aspettava di ascoltare “solo” della musica e si vede caricato di più di tremila anni di intensità e tormento, un vento che segna la pelle e la sensazione di muoversi liberamente in un ambiente che è diventato forte sulla polvere d’ossa dei nemici periti durante il cammino.
Metal? Psichedelia? Difficile analizzare e scomporre questa musica: di certo è epica e intensa, semplice eppure lancinante, in grado di lanciare spezie e ricordi a seconda della modalità di ascolto.
Se pensate a quale colonna sonora possa essere la più adeguata per sopravvivere all’interno di una tempesta di sabbia, siete nel punto giusto. Provateci anche voi, urlando contro il cielo e muovendo la testa ondeggiando come se non ci fosse un domani. Non c’è domani infatti, siamo ancora a ieri, in un 1274 a.C. che sembra ieri.
Rosetta Stone: Under The Weather
di Max Zarucchi
Certe cose non passano mai di moda. O meglio, certo che passano di moda, ma riescono comunque a continuare ad ardere sotto le braci dell’underground. Ecco allora che il ritorno sulle scene dei Rosetta Stone, di per sé, stupisce fin là.
La cosa che invece lascia piacevolmente sorpresi è la qualità del nuovo brano: spesso le nuove composizioni delle vecchie glorie ormai attempate del gothic rock non solo non sono all’altezza del materiale passato, ma risultano essere anche imbarazzanti, vere e proprie cadute di stile e ispirazione che sporcano i bei ricordi dei tempi che furono.
Questo non vale per i Rosetta Stone appunto, che, in barba all’originalità, riciclano il loro stile aggiornandolo giusto quel tanto che basta per non risultare vetusto. La creatura di Porl King (attiva a fasi alterne dalla seconda metà degli anni ‘80) sta attraversando, nella rinascita dell’ultimo lustro, un nuovo periodo prolifico, che trova in Under the Weather qualcosa che da solo si mette al pari (se non addirittura supera) sia con quanto prodotto dalla stele di Rosetta sul finire dei ‘90, sia soprattutto con i suoi Miserylab. Ballabile, semplice, orecchiabile, morbosa, riconoscibile. Tanto basta per farla diventare un nuovo piccolo tormentone da ballo svita-lampadine, e non è poco.
Dato che Dr. Avalanche ha il divieto di comparire su album nuovi in studio da più di trent’anni, i riflettori della gloria sintetica sono ora tutti giustamente puntati su Madame Razor! Tirate fuori pizzi e merletti dagli armadi e crank up the volume!
The Hellacopters: In The Sign of the Octopus
Rock’n’roll e poche chiacchiere. Gli Hellacopters sono sempre stati questo e niente di meno. Un ritorno alle radici pure della musica che ti prende a calci nel sedere finché non ti butti nella pista della vita e, ispirato dalla diabolica guida tribalistica del quattro quarti, non metti in scena il tuo ballo personale, individuale, irripetibilmente selvaggio in faccia al mondo.
La ricetta non è mai cambiata davvero. Pochi minuti, un riff netto, asciutto e implacabile, l’hai sentito mille volte ma sembra sempre qualcosa di unico, inatteso. Poi un flipper di accordi squadrati in cui la tua mente è la pallina impazzita, sospinta dalle manopole della melodia. Il resto è un gioco che non puoi padroneggiare, un riflesso condizionato di ribellione verso le pressioni dominatrici.
In the Sign of the Octopus sembra un pezzo degli Starz fino al ritornello, quando esplode come i Kiss delle origini, grande amore di Nicke Andersson, anche al tempo in cui smantellava cimiteri con il death metal primordiale degli Entombed e Nihilist.
Oggi c’è un senso di purezza negli Hellacopters guadagnato programmaticamente nel tempo e che suscita rispetto. Sanno di passato ma sono sempre stati il futuro.
Vamberator: Sleep The Giants Of Sleep
di Max Zarucchi
Mentre i fan sono in delirio per il nuovo – attesissimo – album dei Cure, là dietro nel mondo degli ex le cose si muovono senza far troppo rumore.
Ecco allora ritornare sulle scene Boris Williams, che per molti rimane il batterista dei Cure (perlomeno quello degli anni del successo), qui affiancato da Jemaur Tayle dei mai troppo ricordati Shelleyan Orphan. Questi ultimi hanno dato supporto ai Cure nel Prayer Tour del 1989, e la loro cantante Caroline Crawley si è sposata proprio con Williams pochi anni dopo, condividendo con lui lo splendido progetto Babacar in seguito all’abbandono dei Cure da parte di Boris (che comunque ha suonato anche sull’ultimo album degli Shelleyan Orphan). Purtroppo la malattia se l’è portata via otto anni fa.
Vamberator è dunque un lavoro fresco fatto da due vecchi amici che sanno bene come fare il proprio lavoro: è incredibile quanto questa Sleep the Giants of Sleep riesca a suonare ariosa e rilassata nonostante a un orecchio attento non può sfuggire l’enorme lavoro di fino che c’è dietro gli apparentemente semplici arrangiamenti. Un piacevolissimo brano art-pop con tutti i crismi, orecchiabile ma non di facile assimilazione, che conquista proprio grazie alla sua complessità e stratificazione. Mai noioso, cattura l’attenzione e appaga anche gli ascoltatori più esigenti. E poi, suvvia, risentire dopo anni quello swing solo apparentemente seduto che spinge sornione in avanti con i piccoli fills e il rullante non può che far piacere.
Se le premesse sono queste, sarà un gran bel disco, magari lontano dai gruppi madre ma non per questo poco interessante. Aspettiamo curiosi.