[New Music Weekly] La mezza stagione è femmina: parola di Batbait, Coca Puma e Men Seni Suyemin
Settimana 20 – con Batbait, Menagram, Pinhdar, Crumb, Date at Midnight, Deserto Parallax, Violet Vendetta, Coca Puma, Men Seni Suyemin & Kristina Li, X.N.X.
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Sarà l’effetto della Festa della mamma, ma questa settimana le quote rosa prendono il sopravvento. Partiamo con le Batbait, dalla Svizzera al Perù alla ricerca di un personale Pavement effect da declinare al femminile. Dal Kazakistan arriva quindi Minona Volandova – produttrice e chitarrista meglio (poco) nota come Men Seni Suyemin – che, in compagnia di Kristina Li, si trasforma per l’occasione in odalisca, mezza strega e mezza fata, e danza un’elettronica ipnotica. Made in Brooklyn, poi, lo psychedelic rock dei Crumb di Lila Ramani. Basta invece andare a Roma per trovare Costanza Puma (Coca per gli amici) e lasciarsi inebriare dal suo dream-pop a tinte soul che promette solo buone cose. O a Milano, dove Cecilia Miradoli fa coppia con Max Tarenzi per un duo dark/trip hop a nome Pinhdar che poco ha da invidiare ai nomi più altisonanti di bristoliana geolocalizzazione.
Giusto per rimanere in Italia, ecco i veterani Date at Midnight con il loro death rock nitido e cristallino, Diaconus Dei (ma preferisce farsi chiamare Menagram) che coverizza Le vene di Lucretia, e gli X.N.X., ennesima reincarnazione post-Disciplinatha di Cristiano Santini, uno che dice le cose come stanno, anche quando stanno male, da più di trent’anni ormai.
Last but not least, c’è chi prova ad andare al di là del nome del padre, ovvero Eden Gallup con i suoi Violet Vendetta, e chi della strada fa una ragione di vita, come i bernesi Deserto Parallax: una band che è un viaggio, mica una destinazione!
Batbait: Dry plant friend
Le Batbait ritornano dopo l’exploit del loro bel disco d’esordio, Dirty Clothes, ormai datato 2022. In Dry Plant Friend volano in Perù per seguire un antico rito amazzonico nel quale, a Pucallpa, tre donne schiaffeggiano con le loro mutande delle piante che non riescono a fruttificare, per cercare in qualche modo di risvegliarne la fertilità.
La musica delle zurighesi viaggia come ricordavamo fra ritmi sghembi e storti memori di enciclopedie indie – quando questo termine aveva una precisa connotazione artistica. Gianna Brühwiler seguita ad avere una voce assolutamente perfetta per questo genere di cose e il ritmo rallentato della band nel finale sembra seguire quello di un cuore stanco che va a fermarsi, prima di riprendere a pompare!
E allora speriamo che questa esibizione di biancheria – sposata con una chitarra grattugiata a dovere, un basso e una batteria che uniscono il tutto con una ritmica che ci costringe a non smettere mai di ondeggiare il capo – sia servita a qualcosa. In ogni caso, poco da fare: quando le Batbait ci si mettono non fanno prigionieri, esplodendo con una capacità di sintesi e di brillantezza con pochi eguali nell’ambito. Dalla Svizzera, al Perù – ovunque.
Coca Puma: Tardi
Sentiremo parlare di Coca Puma? O rimarrà un talento inespresso della nostra scena sotterranea? Se per rispondere a questa domanda fosse sufficiente basarsi su quello che possiamo ascoltare fino a qui, non avremmo dubbi a scommettere sul talento della cantautrice romana e sul suo modo di comporre musica.
I tre minuti di Tardi sembrano essere a questo proposito un ideale biglietto da visita, perché ogni cosa è al posto giusto: l’atmosfera dream pop quasi marziale delle strofe, l’originale linea melodica della voce, che guarda al soul, l’improvvisa rottura dell’equilibrio che porta l’ascoltatore dentro a un radicale cambio di intensità e infine la sensazione di aver ricevuto un piacevole turbamento. Tardi è allo stesso tempo una canzone sulla solitudine e sull’abbandono, sulla precarietà dei sentimenti e sulla consapevolezza di sé.
Nelle acque calme del conformismo musicale di quest’epoca, anche le piccole increspature fanno drizzare le antenne: in attesa che Coca Puma diventi una vera onda, godiamoci la qualità della sua proposta.
Crumb: AMAMA
I Crumb sono una band di Brooklyn che ormai da otto anni si muove all’interno di una scatola colorata, con “psychedelic rock” scritto a chiare lettere su ogni lato. Psychedelic rock che, unito al piglio della vocalist Lila Ramani, si apre verso un mondo caleidoscopico che dall’India passa attraverso le praterie di campagna fina ad arrivare ai dormitori dei college statunitensi.
Un’anziana signora canticchia un’aria iniziale e da lì le note prendono letteralmente il volo, in un brano pop che lascia inebriati. Mille influenze, colori, tenuti insieme da un disegno intelligente che non prevede voli pindarici ma semplicemente la capacità di unire al meglio le influenze, dando loro respiro e possibilità di danzare a corpo libero sfiorandosi, in un ponte fra due mondi – USA e India – molto lontani, eppure mai come ora pensabili insieme, con la colonna sonora più adatta a unire culture e generazioni.
Qualcosa mi dice che l’estate potrebbe prendere una piega molto (ma molto) interessante con queste sonorità ad accompagnarla.
Date at Midnight: Another Grace
di Max Zarucchi
Quando uno è adolescente ed è dark, le famiglie meno aperte si incazzano. Quelle meno puntigliose fanno spallucce appellandosi al solito detto “è una fase, passerà”. Queste ultime non sanno che, di solito, l’unica cosa che passa sono le creste e le cotonature, anche perché con gli anni man mano viene a mancare la materia prima per poterle fare.
Quindi non stupisca che i capitolini Date at Midnight siano ancora in giro: veterani come loro sono una vera manna dal cielo per tutti quelli che amano questo genere, che no, non è per forza di cose una moda: quelle sono le serate, qui si parla di musica. Il singolo con cui tornano in questa prima metà del 2024 è Another Grace, e la prima cosa che salta all’orecchio è il suono: nitido, cristallino, eppure pieno e potente come un pugno nello stomaco. Poi uno va a guardare e scopre che dietro al mastering c’è William Faith, un altro che non ha mai mollato, e allora torna tutto.
Il triangolo sonico death rock-american goth-gothic rock rimane il piedistallo sopra il quale si erge lo stile musicale dei Date at Midnight, che – pur non nascondendo le proprie influenze – anno dopo anno e disco dopo disco sono riusciti a raggiungere un livello di personalità riconoscibile tra mille, cosa non da poco in un genere troppo spesso incline allo scopiazzamento spietato.
Non male per dei quasi vecchietti.
Deserto Parallax: Quicksilver Daydream
Quicksilver Daydream è morbido e dolce motivo, quasi flautato, da parte di un progetto svizzero-tedesco che gioca su un campo in parte western, in parte circense e in parte teatrale. Alla fine forse siamo in un ambito folk noir, dove qualsiasi cosa potrebbe volgere dal ricordo di un sorriso alle lacrime asciutte su di un viso.
Il video non ci offre molti spunti a riguardo, mentre la musica, quella sì, prende le mosse da certi Vaya con Dios come se fossero stati scritturati da un Salvador Dalì in vena romantica. Attraverso sterpaglie e deserti la musica si muove, alle prese con un metallo, il mercurio, bizzarro e particolare.
Come lui anche i Deserto Parallax sfuggono alle facili catalogazioni ma riescono a entrare nelle nostre orecchie con una melodia che incanta e si ripete: una roba che, suonata su una barca dei tempi che furono, potrebbe portare parecchia lena ai rematori. È un brano liquido, come il sangue che ci pompa la vita nel cuore, quello stupido muscolo cardiaco che si emoziona ad ascoltare certa musica, rimanendone succube senza nemmeno riuscire a spiegare il perché.
Menagram: Madre nella Veglia
di Max Zarucchi
C’è stato un momento, attorno alla metà degli anni Duemila, in cui una cometa luminosa è passata sopra le teste di tutti gli amanti della darkwake e del death rock made in Italy. Dal nulla apparvero i fiorentini Le vene di Lucretia, che con un CD autoprodotto (subito ristampato dalla In The Night Time di Roma) si fecero amare dalla critica per poi entrare prepotentemente negli ascolti di chiunque prediligesse quel tipo di sonorità e si fosse stufato dei cloni dei cloni che biascicavano un inglese maccheronico. Il cantato in italiano, qui, era un valore aggiunto, grazie a testi visionari e mai banali, un’interpretazione da manuale che si fondeva perfettamente con una serie di canzoni eccellenti. Un album perfetto, come pochi ce ne sono stati nel genere. Seguirono una manciata di date dal vivo a dir poco infuocate, dopodiché – all’alba della pubblicazione del secondo (tuttora inedito) album – i due mastermind del progetto Lorenzo Manetti e Tiziano Bellini congelano il gruppo (escludendo un singolo digitale nel 2011 e una sporadica – e splendida – Annarella dei CCCP nel 2016) , consegnandolo di fatto alla leggenda.
Dietro al progetto Menagram si cela Diaconus Dei, che faceva parte dei musicisti in sede live di Le vene di Lucretia . La sua rilettura della splendida Madre nella Veglia risulta essere meno dark e più metal, ma mantiene comunque un livello di pathos eccellente, una serie di sospensioni alternate che erano uno dei punti di forza dell’originale e che qui si modernizzano quel tanto che basta per diventare molto appetibili anche per chi non riesce a intendere la musica senza un distorsore. Una cover che è un tributo sia alla band originale, sia al passato del Nostro, che ha continuato negli anni e continua tuttora a operare nel campo della musica con svariati progetti più che interessanti come Ingrid Khold e Absences.
Per chi non conosceva il brano, può essere un’ottima occasione sia per recuperare i suoi lavori, sia per riscoprire quel gioiello nero mai troppo ricordato.
Men Seni Suyemin (feat. Kristina Li): Dark Waves
Minona Volandova – a.k.a. Men Seni Suyemin – è una produttrice e chitarrista kazaka che, in questo singolo, prende con sé un’antica melodia di una regione russa – Brjansk (poco distante dai confini bielorussi e ucraini) – lasciando che Kristina Li decori un viaggio ipnotico e misterioso, nel quale due innamorati vengono irretiti da un gruppo di odalische, streghe, fate… non sappiamo come chiamarle ma è chiaro che la storia non potrà finire bene, nonostante i canti e i balli, le gozzoviglie e i veli.
Il tutto però prende corpo sotto un groove che non accenna a calare, in perenne bilico fra tradizione orientale e un’aria urbana di indubbio fascino e fattura. Difficile entrare nello specifico di un brano del genere, irresistibile e ipnotico, appena caduti fra le sue spire, a dimostrazione di come la voce femminile non sia esente da una lunga tradizione di droga sonora, dalle sirene di Ulisse ai giorni odierni.
Impossibile non farsi ammaliare, impossibile fuggire. Arrendiamoci quindi, seguendo il ritmo e aspettando la fine del rito.
Pinhdar: Little Light
di Max Zarucchi
Quando l’appassionato di turno, parlando del nostro Belpaese, lamenta una mancanza di musica qualitativamente alta e pronta per il mercato internazionale probabilmente o è un leoncino da tastiera o semplicemente è afflitto da pigrizia incurabile, dato che nelle sue mani molto probabilmente ha uno smartphone, device che – sorpresa sorpresa! – non funziona solo come strumento per frequentare i social o mandare messaggini, bensì è una vera e propria enciclopedia infinita dove, se si vuole, si possono trovare miliardi di cose. Basta cercare.
Il duo dark/trip hop dei milanesi Pinhdar fa parte di quella categoria di band davvero valide, che per sovrabbondanza di uscite spesso vengono non tanto snobbate ma proprio non intercettate da chi nella musica cerca qualcosa di diverso da una semplice melodia da canticchiare mentre si fa la spesa. Arrivati dopo Parallel (che fu prodotto nientepopodimeno che da Howie B) al secondo lavoro, A Sparkle on the Dark Water (terzo, se consideriamo anche l’EP di debutto), i Nostri continuano ad affascinare con il loro mix elegante, in sospeso tra i Lycia più dreamy e i Collection D’Arnell-Andréa meno claustrofobici, ma sempre e comunque alla ricerca continua di un sound il più possibile personale, che – grazie alle doti non comuni di Cecilia Miradoli e Max Tarenzi – riesce a rapire l’ascoltatore con strati sonori affascinanti e brillanti.
L’avere Bruno Ellingham (Massive Attack, Portishead) dietro al mixer di certo aiuta, ma è innegabile quanto lo spessore compositivo ed espressivo sia qui davvero coinvolgente. Little Light, secondo biglietto da visita per questo nuovo capitolo, riesce a colpire quel tanto che basta per incuriosire i neofiti ed entusiasmare gli estimatori, a riprova di un percorso artistico in pieno svolgimento che sinora non ha sbagliato un colpo.
A volte le cose migliori si trovano sotto casa. Basta aprire gli occhi.
Violet Vendetta: March of the Jackboot
di Max Zarucchi
Essere “figli di” può avere lati positivi. Perlomeno sulla carta, la strada è spianata, tutto è più facile e comodo, si hanno i contatti e i mezzi. Insomma, sembra facile. Ma c’è sempre l’altro lato della medaglia, ed è più pesante di quello che sembra.
Lo sa bene Eden Gallup, figlio del bassista dei Cure: ogni volta che metterà le mani su uno strumento ci sarà sempre qualcuno pronto a fare paragoni con il padre o con lo “zio Bob”, finendo per non dare la giusta importanza alla sua musica. Ed è un peccato, perché i Violet Vendetta sono davvero validi. March of the Jackboot, il nuovo singolo, si muove su coordinate alternative rock che pescano sì dagli Stati Uniti (soprattutto nelle linee vocali), ma affondano le proprie radici in un approccio completamente British, soprattutto per quanto riguarda le soluzioni ritmiche. È rock moderno, sanguigno nell’accezione che si può usare nel 2024, che non stonerebbe affatto in un festival con tutti quei nomi nuovi che si stanno facendo largo nell’alternative odierno, riuscendo a ritagliarsi una propria fetta di pubblico grazie a un approccio melodico più marcato della media.
Provare ad ascoltarlo senza preconcetti e fingendo di essere di fronte a perfetti sconosciuti è l’unico modo per riuscire ad apprezzare il brano nella maniera più limpida possibile, per ciò che realmente è: un ottimo brano rock che sarebbe stato perfetto su qualche compilation tipo Rock Sound, qualcosa di molto anni Novanta/Duemila, ma che in un’epoca di revival come questa ha il suo perché.
X.N.X.: Naked
di Max Zarucchi
La società occidentale negli ultimi quattro anni non è solo cambiata: è letteralmente implosa. I lupi a forza di frequentare le pecore si sono trasformati in Cappuccetto Rosso, mentre l’uomo medio si è ridotto a un mero sottoprodotto della mutazione antropologica data dall’incredibile accelerazione (con conseguente assuefazione) informatica. Coloro che prima dialogavano, magari discutendo anche animatamente per poi trovare un punto di accordo o comunque comprendere (pur non condividendo) la prospettiva altrui, si limitano a sbraitare con la bava alla bocca il “noi contro voi”. Bianco e nero. Allevati come si deve da chi su queste cose ci mangia, e non solo economicamente. L’umanità è sì diventata rapidissima grazie alla tecnologia, ma ha anche perso ogni brandello delle proprie capacità mnemoniche, in un corto circuito emotivo che con un colpo di spugna ha cancellato ogni sfumatura, appunto, umana, che la differenzi dal mondo animale.
E l’arte tutto questo come lo ha descritto? Chi lo ha raccontato? Quasi nessuno: tutti troppo presi a scrutare il proprio ombelico. Ma, oggi come trentacinque anni fa, c’è qualcuno che si mette in gioco in prima persona, conscio di tutti i rischi che – ora più di allora – la cosa può comportare.
Cristiano Santini (Disciplinatha, Dish-Is-Nein) e Federico Bologna (Technogod, Ohmega Tribe) si conoscono da sempre, sin da quando in età post-servizio militare misero insieme una band che, separandosi dopo poco tempo, in qualche modo segnò l’inizio delle rispettive carriere. Oggi, adulti, uniscono le loro forze negli X.N.X. (sì, proprio lo Xanax che sta letteralmente bollendo il cervello di chi ne abusa) buttando in faccia ai benpensanti un EP di chiara matrice electro nell’accezione più nobile del termine. Sei pezzi (tra i quali una mai così appropriata cover di Beautiful World dei Devo) di puro suono sintetico che entra sotto la pelle, dove ogni beat ha un peso specifico identico al silenzio che lo separa dall’altro, una meticolosità chirurgica che non scade mai nel banale automatismo, ma che fa risaltare ancor di più la componente umana.
Non sono mai usciti dischi inutili dalle mani di questi due, c’era sempre qualcosa da dire. Basti sentire questa Naked: chi sono loro? Chi siamo noi? Chi è lo schiavo di chi? Un gioco dei ruoli dove alla fine tutti sono perdenti, una sciarada irrisolvibile finché non arriverà un sovraccarico di sistema totale che manderà tutto in crash, e si tornerà, finalmente, disconnessi. Per ricominciare, forse, a comunicare davvero.
La musica deve tornare a essere questo: qualcosa che può anche far pensare, non solo uno squallido sottofondo.