[New Music Weekly] Lucertoloni che non ne vogliono sapere di estinguersi, psicologi matti e persone con il GEL
Settimana 28 – con The Jesus Lizard, Leprous, Weird Bloom, GEL, Psicologi, Darkthrone, Nilüfer Yanya, Urali, Efterklang, Bandabardò e Cisco.
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Oggi va di moda dire “resilienza”, ma andate a raccontarlo ai dinosauri, loro che si son dovuti trasformare in lucertole per arrivare ai giorni nostri. O andate a raccontarlo a David Yow, che con i suoi Jesus Lizard continua a imperversare nel pianeta brutto e cattivo del noise-post-punk, nonostante le rughe. O ai Darkthrone, ancora marcissimi nel loro minestrone riscaldato black/death/epic/speed. Più che di resilienza dovremmo invece parlare di vera e propria resistenza nel caso della Bandabardò che, aiutata da Cisco e dagli Extraliscio, sposa la causa (ancora irrisolta) degli operai della GKN di Campi Bisenzio.
Rimanendo in Italia, questa settimana proponiamo anche gli Psicologi, duo rap/pop/electro sempre sull’orlo di un successo che forse meriterebbero ma al momento non sembra arrivare, Ivan Tonelli, che del successo se ne frega e torna a nome Urali con la sua musica emozionale ed emozionante, e gli Weird Bloom, progetto di Luca di Cataldo che guarda agli anni Settanta con (giusto per usare un eufemismo) nostalgia.
Il resto si compone del progressive ammorbidito dei Leprous, dell’hardcore nudo e bruto dei GEL, della classe innegabile di Nilüfer Yanya, e degli Efterklang, per cui ormai non riusciamo più a trovare aggettivi: a questo giro chiamano a raccolta tutto il coro giovanile Sønderjysk Pigekor e il risultato, appunto, non può essere che ascoltato.
Bandabardò e Cisco (feat. Extraliscio): Domenica
di Max Zarucchi
Mesi fa, tutte (tutte!) le testate giornalistiche italiane erano zeppe di articoli che fornivano dettagli sulle dichiarazioni di tale (ora come ora ex) fidanzata del cantante dei Måneskin, che aveva deciso di non depilarsi più per andare contro il canone estetico dominante che avrebbe limitato l’autoaccettazione. Non c’è che dire, una modella (ma la cura spasmodica dell’estetica non è parte integrante del loro mestiere?) rivoluzionaria proprio: roba da scriverci trattati sociopolitici.
Negli stessi giorni invece cinquecento operai della GKN Driveline (gruppo Automotive) già lottavano duramente contro la chiusura immediata, irrevocabile e ingiustificata risalente al luglio 2021. Cinquecento famiglie messe per strada da un giorno all’altro, scavalcando leggi e diritti. Dopo tre anni la questione non è ancora conclusa, ci sono state manifestazioni, scioperi della fame, cariche della polizia.
Gli stessi quotidiani di cui sopra, nel migliore dei casi, hanno dedicato qualche trafiletto alla situazione. Nel peggiore, l’hanno completamente ignorata. Non è una questione di destra o sinistra, ma di corretto o meno. Ma ormai ci siamo un po’ tutti abituati (malamente) a girarci dall’altra parte.
Il megafono per raccontare tutto questo lo prende in mano la Bandabardò, accompagnata da Cisco ed Extraliscio. Ai più giovani questi nomi non diranno nulla, ma agli over 40 sì, eccome. Ecco, a prescindere che il pezzo possa piacere o meno, musicalmente parlando (le coordinate sono bene o male sempre quelle, ska con spruzzate folk punk e attitudine sfacciata e barricadera: per gli amanti del genere, molto molto piacevole), la questione è che tocca ancora alla musica cercare di puntare i fari sulle cose che contano davvero.
Ben vengano le notizie leggere, ci mancherebbe, ma siamo arrivati a un punto in cui il sensazionalismo sulle futilità è ai massimi livelli, mentre le cose serie sono reputate noiose e quindi poco meritevoli di attenzione. La strada non è mai stata così buia: apriamo tutti gli occhi prima di ritrovarci come i colleghi di Campi Bisenzio.
Darkthrone: Black Dawn Affiliation
di Max Zarucchi
La bellezza di gruppi come gli AC/DC o i Motörhead è la loro riconoscibilità. Ci sono sicuramente album meglio riusciti di altri, ma difficilmente, a un orecchio senza puzza sotto il naso, qualcosa pescato a caso in quelle discografie risulterà “brutto”.
Altri, come i Voivod, invece hanno continuamente zigzagato e non è impossibile rimanere a bocca aperta per un neofita che fa shuffle all’interno della discografia, perché sembrano davvero band diverse a seconda delle epoche.
Ora, dire che i Darkthrone siano un po’ come i Voivod è esagerato, ma va loro riconosciuta una continua voglia di cambiare, perlomeno fino agli anni Zero. Poi, diciamo, sono diventati più AngusYoungani. La formula dei loro ultimi lavori è bene o male la medesima da un po’, senza radicali scossoni di sorta. Eppure è impossibile, per chi li apprezza, non innamorarsi nuovamente di quel marciume, l’ennesimo minestrone riscaldato avanzato dalla sera prima che però è sempre buono.
Ecco come appare Black Dawn Affiliation (e per esteso tutto il nuovo It Beckons Us All… ), uno splendido copycat di quanto prodotto dal duo norvegese negli ultimi lustri, ma sempre godibilissimo e letale, trasudante metal old school da ogni secondo con quel tipico frullato black/death/epic/speed che si conosce già, ma che, insomma, non stanca mai.
Dunque un brano in linea con tutto ciò che possono essere oggi i Darkthrone, con i pregi e difetti del caso. Epocale? Nemmeno a parlarne. Ma si fa piacere per quello che è: dopo più di trentacinque anni manco è poco, suvvia.
Efterklang (feat. Sønderjysk Pigekor): Animated Heart
Il gusto o ce l’hai o non ce l’hai. E gli Efterklang ci hanno sempre dimostrato di essere sempre precisi e appuntiti nel coordinare le loro canzoni pop affinché tutto sia perfetto.
In questo caso chiedono a delle loro amiche e collaboratrici da più di dodici anni, il coro giovanile Sønderjysk Pigekor, di dar loro manforte in un brano che si regge su una chitarra e una voce che è un uccellino librato in cielo, come se il tutto partisse da un nucleo piccolissimo e curato, per amplificarsi all’unisono grazie a decine di battiti cardiaci, a decine di palpebre scaldate dal sole, decine di membra alzate nel medesimo istante.
Quando si librano le voci è un brivido: la canzone pop che si fa aura sacra e luminosa andando verso la luce come dei Polyphonic Spree o dei Flaming Lips ancora più leggeri. Un brano bellissimo, giusto, che si accartoccia sporcandosi e autodistruggendosi in un finale debordante e out of tube che può solo confermare quanto si raccontasse di Icaro. Mai esagerare, ma in caso dobbiate farlo, fatelo con stile.
Una certezza, viva quanto un cuore.
GEL: Persona
Lettori cari, sappiamo benissimo come il trascorrere una settimana senza la consueta dose di hardcore vi faccia alzare dal letto con il broncio e con il bicchiere ripieno di integratori magnesio e potassio per colmare la mancanza, pertanto ci pensiamo noi “umani cercatori sul Tubo” a passarvi la salvifica razione: ci teniamo, insomma, alla music discovery, così come al vostro benessere psicofisico, sia chiaro.
E quest’oggi vi spediamo dritti in New Jersey, dove i GEL, oltre a pettinarvi i capelli – battuta di scarsissima qualità, mea culpa –, vi spezzeranno le ossa. Nata dalla mutazione nel tempo dei Sick Shit, la band capitanata dalla talentuosa Sami Kaiser ha smussato il powerviolence degli esordi in un feticcio hardcore/groove ben più quadrato: con sostanza e pochi scrupoli, alla Hatebreed, Persona viene assemblata con un paccozzo di riffoni gargantueschi eretti senza fronzoli in faccia all’ascoltatore, di quelli che il parterre lo devastano anche senza l’inserimento forzato di un breakdown a dire: «Ehi, adesso rallentiamo in modo che possiate menarvi brutalmente nel moshpit». Niente di tutto ciò, poca tecnica – non ce n’è tutto questo bisogno – e tanta, tanta, concisa violenza sonora, addentata dalla secchezza “chiodata” delle ruvidissime vocals di Sami.
Un’altra band female fronted con il sangue nero del punk a imbottire le arterie, da aggiungere assolutamente al listone must listen nel caso in cui abbiate già divorato ampiamente le giovani discografie di Scowl, Capra e Gouge Away, tanto per citare le primissime compagini a balzarci in mente.
Anche questa settimana un sinistro sorriso ve l’abbiamo strappato. Non ringraziateci: è un duro lavoro, ma lo facciamo con piacere.
Leprous: Atonement
I Leprous sono facilmente considerabili una di quelle formazioni che ha contribuito a rinnovare, in qualche modo, quello che la musica progressive – per come è stata considerata a livello generale – ha saputo offrire. Il loro prog metal tinto di alternative, suadenti melodie pop, storture da maniaco delle poliritmie si è saputo far spazio all’interno di un contesto ipersaturo – e spesso stantio – con album sempre all’altezza della situazioni e performance decisamente funzionanti.
In Atonement, singolo anticipatore di Melodies of Atonement (in uscita il prossimo agosto su Inside Out Music), c’è pure un video con un balletto da pop-star e una linea vocale che potrebbe fare invidia a Paolo Nutini. Detto così forse sembra una cialtronata – soprattutto abbinata a un moniker che letteralmente significa “lebbroso” (come poteva non essere un nome figo per un gruppo metal, d’altronde) – e invece è un altro punto a favore della formazione norvegese capitanata da Einar Solberg che, da abile mixologist, riesce a fornire un cocktail heavy e soft, ricamato di innesti electro e di quello spirito solido che è ancora del tutto progressive metal.
E fa pure una bella figura estetica, tutto sommato, che è forse necessaria per evadere dalle gabbie di quel mondo ancora troppo metal che forse per troppo tempo ha chiuso le porte al resto. Vedi il caso di ottime formazioni, anche musicalmente eclettiche, che però non sono riuscite a evadere dai confini dei soliti festival. Punto in più – come sempre – anche a Baard Kolstad, batterista in grado di arroccarsi su fedele stuolo di fan musicofili riducendo sempre al minimo le peripezie spaccone in favore di un tocco più “colto” e quasi “minimale”.
Il disco nuovo è stato registrato da David Castillo presso i Ghost Ward Studios in Svezia, mixato da Adam Noble (Placebo, Biffy Clyro, Nothing but Thieves ecc.) e masterizzato da Robin Schmidt (The 1975, Placebo, The Gaslight Anthem ecc.) e già dalle premesse sembra che vada a parlare sempre di più a un pubblico di più vasta portata. Non necessariamente la strada perfetta per eccellere, naturalmente: quella – ci piace ancora pensare – fa capo alla musica scritta bene. Dobbiamo ammettere che, al momento, i norvegesi a quello non hanno assolutamente rinunciato.
Nilüfer Yanya: Method Actor
Nilüfer Yanya è tipo il jolly in mano, la gioco quando sono in difficoltà e quando voglio vincere facile. «Mi sai consigliare una cantautrice che è più di una cantautrice?» e bam, menziono Nilüfer Yanya. «Vorrei ascoltare un’artista che varia un casino con le influenze, che non dia troppi punti di riferimento, conosci qualcuno?» e ri-bam, rievoco Nilüfer Yanya, con la potenza della più “rotta” – dicasi anche “buggata”, vedi anche “troppo forte” – carta di Yu-Gi-Oh! sul piano di gioco.
Mi ha sempre colpito come la londinese – con origini “contaminate”, tra Irlanda, Barbados e Turchia – abbia mantenuto l’abilità di schivare un po’ le etichette eccessivamente precise, coltivando un rinnovamento sonoro che mantiene freschi e distanti un disco e l’altro. E sin dal bellissimo Miss Universe, da quelle In Your Head e Angels che farebbero invaghire anche il più discreto e imparziale ascoltatore, la songwriter ha saltellato, come un pendolo che si avvicina ma sfiora soltanto, tra indie e alt-rock, tra art folk e pop, acquisendo uno status di intoccabile pur rimanendo relativamente di nicchia – e, un po’ egoisticamente, ringraziamo il cielo per ciò.
Un nuovo album annunciato, una Like I Say (I Runaway) che smeriglia il post-grunge delle ballad, rinverdendolo con una spruzzata di shoegaze, e una Method Actor, futura title track, che ficca le mani nei chitarroni ronzanti in maniera decisamente più impattante rispetto al singolo precedente: è proprio il fine del pezzo, il voler simulare un passaggio brusco, la rievocazione di un ricordo e la conseguente immedesimazione – esattamente come nel method acting, per l’appunto – ad animare l’ossimorico svolgimento di un estratto permeato da un nervosismo – o artificiosa calma, a seconda dei punti di vista – che si intrufola in questo agghindato salottino lounge, tra i cui divanetti scorrono brividi bossa nova. Un’atmosfera di una calma tesa, ribaltata dall’artista di Chelsea che pare Cristo al tempio: sei corde che si gonfiano e overdrive che sboccano, spezzando brutalmente quello schermo che separa l’attore dal personaggio, l’interpretazione dalla vera emozione.
Una tematica particolarissima, anche piuttosto delicata da affrontare, eppure Nilüfer Yanya la musica con una classe e un tocco da grandissima songwriter. Manco ad avercene di dubbi, ormai.
Psicologi: Gas
Gli Psicologi sono un progetto con ormai diversi anni sulle spalle e la sensazione di essere arrivati vicino al successo.
Poi le cose sono andate diversamente, ma ascoltando le loro canzoni è impossibile non essere rapiti da un ritmo e una poetica completamente personale, in grado di mischiare pop, rap e musica elettronica come pochi altri. La perenne sensazione di essere rimasti in quella fase anagrafica fra i sedici e i vent’anni, arrabattandosi in una generazione persa tra lavori da poco, droghe e una società che non ti valorizza. Cose che sfuggono a molti, ma che colpiscono in pieno quando ad ascoltarle sono i coetanei e chi vive situazione del genere: e allora si vola, in un’atmosfera che fra Roma e Napoli si eleva in una galassia colorata e fumosa, dove i sorrisi sono chimici e le espressioni trasognate seguono le istruzioni che da anni i migliori dietisti punk ci hanno insegnato.
Un domani di sicuro cresceranno e allora sarà tutto finito, ma, finché riusciranno a mantenere questo tono acerbo e fresco, l’ascolto di un loro singolo alla volta potrebbe essere una prescrizione azzeccata in questa calda estate.
Per me un protossido d’azoto e un taglio di freon, che è caldo.
The Jesus Lizard: Hide & Seek
I tre minuti della musica pop ci sono anche nel post-punk, nel noise, nei suoni brutti e cattivi. Prendete l’accolita di rancorosi che da anni imperversa con il nome di Jesus Lizard (qualcuno, tempo addietro anche con quello di Scratch Acid).
Rimessisi insieme da qualche tempo, sono tornati con un nuovo singolo intitolato Hide & Seek: non sappiamo a chi toccherà star sotto o far la conta, ma di certo pagheremmo per calcare i palchi e le sale di registrazione con l’intensità dei figlioli adottivi della Wind City (Chicago, Illinois). La canzone è descritta dal frontman e cantante David Yow come «una vivace canzoncina su una strega che non sa comportarsi bene, e ha quasi tanti (ag)ganci quanto un incontro di Mike Tyson»: qualsiasi cosa intenda, di certo è squillante, malvagia il giusto (le streghe, si sa, ormai le dipingiamo così dopo anni passati a bruciarle) e soprattutto ha quel ritmo capace di riportarti nella bolgia anche dopo anni passati al largo del palco, magari un po’ smunto e affaticato.
Loro del resto non si sforzano di nascondere i segni dell’invecchiamento, semplicemente si limitano a fare ciò che sanno: alcuni giocano a morra cinese, per altri c’è la briscola, alcuni si accontentano del bancone di un bar, mentre i Jesus Lizard suonano come dovessero morire alla fine di ogni canzone. Buon per loro e buon per noi, crediamo che a questo punto gli unici in difficoltà saranno quelli rimasti a contare, abbiamo idea che acciuffarli sia tutt’altro che facile anche a questo giro!
Urali: I Forgot about the Plains
Quella chitarra, quella voce, quelle botte a percuotere mantenendo la ritmica. Ivan Tonelli quando si fa portavoce di Urali lo fa con grazia e intensità e oggi, con I Forgot about the Plains, ci fa capire che a settembre ci saranno delle interessanti novità da parte loro.
Intanto sceglie una cresta non troppo impegnativa ma da non sottovalutare, un’anima doppiata a raddoppiarlo e l’impressione che tutto possa rompersi da un momento all’altro. Musica emozionale ed emozionante che non si presta a semplici ascolti ma che richiede attenzione, cura e amore. Del resto, una volta terminata la canzone il pensiero è immediatamente quello di farla ripartire, di tirar fuori dallo scaffale i dischi di Geoff Farina e dei fratelli Kadane, oppure di Julie Doiron.
La sensazione che anche in Italia esista una periferia dell’anima dove potersi confidare dando al mondo il proprio pensiero, condividendo ogni battito del proprio cuore, ogni rimpianto, ogni lacrima. Dimenticandosi dei piani, dei doveri, del mondo intero, vivendo a fondo il momento. Del resto è così che si incontrano le anime gemelle, le svolte, gli incroci decisivi.
Dando (Evan) tutto a cuore aperto.
Weird Bloom: Summer be my Hammer
Weird Bloom è il progetto del musicista Luca Di Cataldo. Giunto al terzo disco, piedi saldi negli anni ‘70, T.Rex nel cuore e Don Bolles dei The Germs in giro durante la concezione dei brani, fra i quali questa leggera e carezzevole Summer Be My Hammer.
Nulla di meglio da masticare per noi, già snervati dall’innalzamento della temperatura e intenti a continuare imperterriti a lavorare quando invece verrebbe voglia di prendere aria a pieni polmoni, saltare in piedi e mimare una schitarratina saltando a un piede solo.
Socchiudendo l’occhio si vedono solo lustrini in una composizione che è puro bubblegum, madeleine proiettata che ci riallunga baffi e capelli, lasciando scuotere il bacino come in quelle notti d’estate.
E sarà a malapena il primo passo, attenzione, perché Stargate non solo è il disco con la copertina più bella del 1974, ma anche e soprattutto un album di puro rogheroll che riesce nello stesso tempo a lussarci le articolazioni e deformarci la bocca in certe smorfie e un ghigno di soddisfazione incredibile!