[New Music Weekly] Marilyn Manson con l'auto-tune, le nostalgie metal di Jerry Cantrell, Bryan Ferry oltre le porte di Tannhäuser
Settimana 32 – con Marilyn Manson, Jerry Cantrell, Gurriers, Desinteresse, Bright Eyes, The Smile, Amy Rigby, Horse Jumper of Love, Iotunn, Bryan Ferry & Amelia Barratt.
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Un Brian Warner più o meno sobrio che sperimenta l’auto-tune: se non è music discovery questa! Ascoltate il comeback dell’ex Reverendo e giudicate voi stessi.
Ma non è l’unico ritorno in pompa magna di questa settimana. C’è chi è in preda a una crisi di ipercreatività ed esce con del materiale nuovo nemmeno nove mesi dopo l’ultimo disco, come gli Smile di Thom Yorke e Jonny Greenwood. C’è un Jerry Cantrell in formissima che da solista torna a guardare alle suggestioni metal di quando era più giovane (leggi: primi Alice in Chains). C’è Conor Oberst che prova a spiazzarci con i suoi Bright Eyes e un nuovo singolo un po’ folk-rock con qualche tinta pop-noise. C’è Amy Rigby che, nonostante abbia attraversato cinquant’anni di musica con gli Shams e i Last Roundup, non ha perso la voglia di divertirsi (guardare l’ultimo video per credere). E che dire dell’ex Roxy Music Bryan Ferry, che si fa aiutare dalla splendida voce di Amalia Barratt per sfornare la sua personale colonna sonora di Blade Runner?
Con il resto invece, ci inoltriamo, con il nostro classico piacere, nel concetto di “nicchia”. I Gurriers provano a farsi notare nella folla oceanica che ormai compone il post-punk di bandiera irlandese, e quasi ci riescono. Gli olandesi Desinteresse fanno di tutto per farsi scambiare per i Cure degli esordi. Gli Horse Jumper of Love profumano di Karate e di una musica che lenisce le ferite e i lividi. Gli Iotunn, infine, ci riportano inesorabilmente alla dura realtà con il loro metallone classico e melodrammatico, made in Denmark.
Amy Rigby: Bricks
Amy Rigby ha letteralmente attraversato gli ultimi cinquant’anni di musica, prima con gli Shams, dopo con i Last Roundup, per poi continuare da sola. Sessantacinquenne, si prepara al nuovo disco, che a occhio e croce dovrebbe essere il suo undicesimo, fra autoprodotti, live e collaborazioni con etichette anche abbastanza grosse. Outsider totale in questo caso, prende posto su Tapete Records, che, collegata a Bureau B e a Raufaser, ha contribuito a costruire l’immaginario teutonico musicale negli ultimi vent’anni.
Ma torniamo a Bricks: chitarra acustica, piglio folk-rock, una voce che lèvati e un video francamente irresistibile. Il brano è un viaggio dinamico, che corre, si ferma, cresce e langue su un ritmo che evoca i Velvet Underground e il Lou Reed più sbarazzino, unendoli però a un fascino rurale e saldo, con dei piedi per terra rockeggianti e rollanti. Amy Rigby ha tutte le carte in regola per tornare sulla breccia, magari proprio a fianco ai mattoni acquistati a inizio video.
Ogni vita è scomponibile in momenti di tre minuti o poco più, basta volerlo. Dedicatene uno a Bricks, state certi che tornerà a presentarsi sempre più spesso, fino a diventare uno di quelli fondanti, sopra il quale costruire nuove strade di scoperte e riscoperte musicali.
Bright Eyes: Rainbow Overpass
Un nuovo album dei Bright Eyes è sempre un evento e la prossima uscita di Five Dice, All Threes diventa immediato motivo di attesa e crescente curiosità per il semplice motivo che Conor Oberst, dopo una lunga pausa di nove anni (nei quali ha intrapreso una carriera solista tra alti e bassi e ci ha fatto pensare che la sua band fosse definitivamente sciolta) era finalmente tornato a pubblicare nel 2020 Down in the Weeds, Where the World Once Was, un ritorno contraddistinto da grande ispirazione che ci aveva ridonato una band formidabile, un album ottimo e pieno di brani indimenticabili.
Rainbow Overpass lascia al primo ascolto un po’ spiazzati: il sound folk-rock con tinte noise accompagnato da coretti fa sembrare questi Bright Eyes diversi da quelli ascoltati fino a ora – niente male, ma comunque un’uscita capace di disorientare. Sensazione sicuramente dovuta dal fatto che Conor ha scritto il brano in collaborazione con il cantautore di Brooklyn Alex Orange Drink, nome da solista di Alex Zarou Levine del gruppo punk dei So So Glos. Collaborazione che sembra un vero e proprio progetto, visto che pare abbiano scritto più di un brano insieme, e che svela come Conor voglia dare maggiore energia ai suoi lavori.
Passato il senso di smarrimento iniziale, Conor ancora una volta riesce lentamente a entrare nel cuore, mantenendo alta la voglia di ascoltare il nuovo disco della band. Restiamo quindi in speranzosa attesa, augurandoci che questa volta finalmente potremo vedere i Bright Eyes in un tour europeo che tocchi anche il nostro paese.
Bryan Ferry (feat. Amelia Barratt): Star
Una demo che Atticus Ross e Trent Reznor spediscono a Bryan Ferry, il quale coinvolge e porta in primo piano, con merito, la cantante Amelia Barratt, artista che aveva aiutato qualche anno prima lasciandole registrare un audiolibro nel suo studio.
D’un tratto succede la magia. Un groove oscuro e sottile, beat grassi, due voci che come serpenti si incrociano e strisciano sopra un tappeto di suono, mantenendo un’austera presenza. Sospiri che si fanno parola, una conversazione che parte, un volo. Le sagome dei palazzi sopra al viso di Amelia ben dipingono un ambiente urbano, notturno e piovoso, che sembra preso paro paro da Blade Runner, con un romanticismo che in qualche modo trova un pertugio in questa ritmica danza in cui lei si prende definitivamente la scena.
Il brano farà parte di una retrospettiva in cinque dischi dell’ex Roxy Music, ma fidatevi: se il quartetto dovesse prima o poi ragionare in termini di produzioni più ampie, un album di questa caratura potrebbe essere realmente la bomba dell’anno.
Desinteresse: Grijze Domen
di Max Zarucchi
La prima cosa che salta all’occhio degli olandesi Desinteresse è la somiglianza estetica, assurda, con i Cure. Ma non i Cure da poster che tutti conoscono, bensì quelli prima del rossetto impiastricciato di Robert Smith. Parliamo di quella fase tra fine 1980 e giugno 1982, che fa storia a sé, e i fan lo sanno bene.
Musicalmente il trio (Bart Vranken al basso, Sem van den Munckhof alla voce, chitarra e synth e il neo arrivato Joppe de Swart alla batteria) si muove sulle coordinate che ci si può aspettare dall’immagine. Un post-punk scheletrico, rigido e romantico tra – appunto – i Cure pre-‘82 e una generica coldwave. Insomma, quelle cose lì che gli amanti del genere conoscono benissimo. Il fatto che la band abbia deciso volontariamente di affidarsi solamente a strumenti vintage e di registrare tutto in analogico per distanziarsi dal modo moderno di concepire la musica e tornare ad abbracciarne l’essenza è quel valore aggiunto enorme che fa dimenticare le imperfezioni, che invece di essere nascoste dietro un tasto del computer diventano esse stesse parte dei brani rendendoli vivi, veri, unici.
Se Grijze Domen, il lato A del singolo, è una sognante e malinconica ballata mascherata da un uptempo ballabile, il lato B, De Helse Poort, è uno schizzo acido e malato fatto di figure in bianco e nero che si muovono lentamente lungo un mare mosso, freddo e piovoso di fine estate che chiama l’autunno sognando l’inverno.
Dopo una manciata di demotape, il primo lavoro su vinile dei Desinteresse non delude, e anzi, fa ben sperare per il prossimo passo discografico. Per i nostalgici, qualcosa che risolleverà il morale. Per i più giovani, dei coetanei che vi fanno ascoltare come si fa(ceva) e del perché la tecnologia può sì aiutare moltissimo, ma anche snaturare qualcosa che è già splendido così com’è.
Gurriers: Top of the Bill
Un’altra band che prova a stendere lo spartito della soundtrack di quanto sia complicato, al giorno d’oggi, essere giovani in Irlanda? Quella è la fila, prego.
Tempo fa Dan Hoff e Mark MacCormack lavoravano in un McDonald’s della zona sud di Dublino, aperto 24/7, cercando di farsi assegnare gli stessi turni per chiacchierare di musica, cinema e grossi drammi esistenziali. L’idea di metter su una band salta fuori quasi subito e diventa realtà a inizio 2020, giusto qualche giorno prima del trionfale ingresso del COVID in Europa. Quando dici che il tempismo è tutto, nella vita. Così, tra una rogna e l’altra, il primo vero e proprio concerto arriva quasi venti mesi dopo, la notte di Halloween al Workman’s Club. Sarà stato quel paio di demo che nel frattempo ha girato un po’ le radio, sarà che era la prima settimana in cui venivano annullate le restrizioni pandemiche e la gente non desiderava altro che smattare duro strusciandosi sudata senza dover per forza mantenere il classico metro e mezzo di distanza, durante un live degno di quel nome. Fatto sta che sulle rive del Liffey ancora se ne parla. Quando dici che il tempismo è tutto, nella vita.
Ma tornando ai giorni nostri, la domanda sorge spontanea: alla fine della fiera, i Gurriers (“delinquentelli” nello slang dell’isola) dove vanno a incastrare il proprio pezzo nell’immenso puzzle di quella che (ormai da troppi anni per poterla definire recente) abbiamo chiamato “l’inaspettata rinascita dell’irish rock”? Più o meno ovunque, come una polvere sottile. L’altro singolo uscito negli ultimi tempi è tutto spostato dal lato più (post-)punk del tavolo — quello dove gioca(va)no Idles e Shame, per capirsi — mentre questa Top of the Bill tira la coperta (non necessariamente troppo corta, nel caso specifico) dalla parte del letto più classicamente rock — quella dove riposano nella pace del proprio successo i Fontaines D.C. e i Murder Capital, non so se ci siamo spiegati. Ritmo inciampato e suoni puliti per una (quasi) ballad ossessiva da pub di periferia, di quelle che ipnotizzano parlando d’amore (o della sua assenza — che poi è il trucco più vecchio del mondo per farlo — nei confronti di chi o cosa poco importa) senza darlo a vedere, ma sempre e comunque in maniera in qualche modo politica.
Corpi che sono templi finché non arriva il governo a disegnarci sopra un cazzo con lo spray, il Paradiso che è sempre sul marciapiede di fronte qualunque lato della strada tu scelga, verità nascoste sotto il tappeto contro scintillanti menzogne in vetrina. E i sentimenti, appunto, quelli veri, che no, non sono mica morti come vorrebbero farci credere. Giacciono solo narcotizzati nella stanza accanto, l’unica di cui la padrona di casa non ci ha fatto una copia delle chiavi, il giorno che abbiamo firmato quel maledetto contratto d’affitto che ancora ci tiene qui, impiccati a fine mese.
Horse Jumper of Love: Word
Una lite, una discussione fra due persone, può essere vissuta e raccontata in molti modi. In Word c’è la luna, c’è il manico di un’ascia, c’è un’aria che non può non ricordare i momenti più lenti e grondanti di certi Karate, c’è la capacità di una band di aprire un frutto e farlo tracimare, farlo trasudare mostrandoci tutto il dolore. Ci sono sentimenti, ferite, comprensioni e riavvicinamenti, c’è un mondo che si costruisce insieme sotto la luna, ci sono strumenti che non vogliono attenzione ma soltanto rimarcare ciò che è giusto, ciò che sentiamo nel nostro cuore in questo, quel momento.
Gli Horse Jumper of Love rischiano di essere stati enormi e per fortuna ce ne siamo accorti, potendo recuperare parte delle loro toccanti sofferenze attraverso i loro dischi. Quel che è certo è che il trio – composto dal chitarrista e cantante Dimitri Giannopoulos, dal bassista John Margaris e da Jamie Vadala-Doran alla batteria – ha già inciso quattro album, gli ultimi tre in un filetto annuale che è partito nel 2022 e che non accenna a fermarsi. Ne siamo ben lieti, consci che questa è musica che lenisce le ferite e i dispiaceri, musica che scalda l’inverno e il cuore.
Boston, ancora una volta, in un Massachusetts che non smette di colpirci. Il loro nome sembra sia nato dalla traduzione di una frase in latino ai tempi del liceo ed è fantastico, considerando che i cavalli, rispetto al loro corpo, hanno un cuore che è tre volte più grande del nostro. Questi tre minuti e mezzo scarsi lo confermano, facendoci sentire ogni goccia di sangue che vi passa.
Iotunn: I Feel the Night
Gli Iotunn (che in antica lingua norrena vuol dire “gigante”) vengono dalla Danimarca e sono attivi da circa sette anni. Il brano che ci permette di conoscerli è decisamente metallone, del tipo ormai classico, ma d’accezione melodrammatica. Vengono in mente i Queensrÿche e i Fates Warning, entrambi prima maniera, bagnati e appesantiti dal sangue e le lacrime di gruppi più esistenzialisti, come Nevermore ed Evergrey.
In altre parole I Feel the Night è una canzone che cresce nel dolore e nella malinconia, aggiungendo watt e possanza a un arpeggio iniziale piuttosto arrendevole e disteso. Sembra di guardare fuori dalla finestra di casa, la notte che scende, ammanta il cortile, popola di ombre il rassicurante vicinato e sbuffa umidità sulle nostre coltri intrise di sudore.
L’osservazione di un ambiente così innocuo, tradotto in tenebre e stelle, produce nell’animo umano tutta una serie di inaspettate epifanie terrifiche: si ammette la caducità, il pericolo, la disperazione di un destino a cui nessuno può sottrarsi, vale a dire di morire soli, nel migliore dei casi improvvisamente. Nel peggiore, è una lenta e progressiva anestesia nell’indifferenza e nell’afasia generale. Amen.
Jerry Cantrell: Vilified
Mi capita di ringraziare il cielo, talvolta. Soprattutto quando penso agli Alice in Chains, migliore amica (musicale) della mia vita, fenice tanto splendente quanto sfortunatamente martoriata.
Ringrazio il cielo quando penso al fatto che dalle poche ceneri rimaste accese – sì, la band è ancora attiva, eppure sappiamo bene tutti che cosa (e soprattutto chi) manca – brilla ancora vividamente quel fiore nero dalla corolla lucente chiamato Jerry Cantrell, uscito rinvigorito dal rituale di purificazione e rinascita di Brighten (2021), un album fortemente introspettivo, un tuffo alle radici della vita del musicista di Tacoma, uno scrigno di confessione e conversione, dal dolore alla consapevolezza, dalla perdita alla ricchezza interiore acquisita.
Insomma, uno step indispensabile e stilisticamente ben diverso da tutto quello che è stato prima e che verrà in futuro. Vilified, nuovo singolo a distanza di tre anni, ci riconsegna, difatti, un Jerry Cantrell molto più affine alle sonorità metal-oriented di Degradation Trip e decisamente più distante dall’infuso country/folk-rock di Brighten, appunto.
Les Paul a tracolla, un riffone acido che scava la strada a un teatro di timore che ripesca dalle atmosfere di The Devil Put Dinosaurs Here: groove alt-metal quando Jerry maneggia le strofe, bordate di distorsione post-grunge quando allarga i vocalizzi, supportati in background dalle vocals del fido Greg Puciato, già parte del live act del chitarrista.
Un horror iperrealistico, in ammollo nella melma di un presente che vede la tecnologia ingigantirsi sempre di più, pronta a inghiottirci, rimpiazzando battiti e sentimenti con un’inquietante asfissia robotica. Un ritorno a sonorità dure, a quei paesaggi plumbei che riconosciamo istantaneamente.
Marilyn Manson: As Sick as the Secrets Within
di Max Zarucchi
Primo: il ritorno alla sobrietà sottintende che “prima” si sia stati puliti (in alcuni casi ci sarebbero dei dubbi a riguardo). Diciamo che di base, per la salute, è meglio dare un taglio ai vizi perché più si invecchia più i lati negativi dell’indulgere in certe abitudini presenta il conto, sempre più salato e con rate infinite.
Secondo: il body shaming a rovescio è qualcosa che prima o poi qualcuno analizzerà, forse. Ovvero, quando ci si rimette in forma è tutto un “Finalmente! Sei tornato come prima!”. Eh no, si resta uguali, semplicemente cambia il contenitore. Ma è così importante ormai questa facciata che spesso senza di essa (o per causa sua) la percezione del prossimo cambia radicalmente.
Ecco allora che il comeback dell’ex Reverendo ha suscitato un boato di approvazione generale, prima per le immagini che lo vedevano reduce da un paio di anni di ginnastica seria e regime alimentare più regolare e poi, trainato da questo sentimento, per i brani usciti come antipasto al prossimo album. Che sono buoni, ma il tutto va contestualizzato.
Per i millennial e successivi, Brian Warner è qualcuno che già c’era, che (si) faceva (ehm) la storia mentre loro nella migliore delle ipotesi giocavano con i Playmobil e che lo hanno vissuto solo da un certo punto in poi: comprensibile dunque l’eccitazione per un nuovo lavoro contornato da un’immagine tornata a essere in qualche modo cool. Per i coetanei del sig. Warner o giù di lì, invece (diciamo la Gen X), la cosa è molto più calibrata. Preso atto a suo tempo che la band Marilyn Manson non esiste più (almeno da The Golden Age of Grotesque, per altri da Holy Wood causa defezione di Twiggy Ramirez), ci si è sempre avvicinati con curiosità e affetto ai nuovi dischi man mano che uscivano, alcuni piacevoli, altri meno.
È un po’ che al fianco di Manson ha trovato posto Tyler Bates e, nel singolo appena uscito in tremila copie subito esaurite, due nuove tracce sin d’ora disponibili (Raise the Red Flag e questa As Sick as the Secrets Within) continuano il percorso iniziato con The Pale Emperor nove anni fa, togliendo qualcosa e aggiungendo altro, ma sempre rimanendo fedeli a quello stile di scrittura.
La novità stavolta è il massiccio uso di auto-tune, strumento di cui l’ex God of Fuck non ha mai avuto bisogno (anche nei momenti più bui quando la sua voce si spezzava e al massimo era carente di fiato, non perdeva una nota, mai) e che forse è un po’ il punto debole di questo nuovo corso, dato che il timbro del Nostro è sempre stato uno dei punti di forza maggiori sia con la band sia nella carriera solista. E no, non è come quando la voce veniva filtrata: l’auto-tune non è un semplice effetto e lo sanno bene i produttori di tutto il mondo. Guardando poi i concerti recenti dove questi pezzi vengono riproposti senza tale orpello, ci si chiede ancora di più: ma davvero ce n’era bisogno? Peccato, perché per il resto i brani sono davvero validi, di certo non tra le perle della sua carriera, ma sicuramente quanto di meglio potesse fare oggi per accontentare sia gli ascoltatori sia se stesso come performer. Un po’ come il video del primo brano, molto debitore nei confronti della Sigismondi di trent’anni fa, anche se infinitamente meno vizioso, come è normale che sia per un cinquantacinquenne. Quindi, una ballata, un pezzo rock pop: chiamatelo come volete.
L’ultima domanda è allora: manca ancora qualcosa per accontentare un po’ tutti? La risposta è immediata: la rabbia.
Ecco l’astuzia dell’infilare nel mini un terzo brano (Front Toward Enemy) che furbamente strizza l’occhio – e bene – al periodo glorioso 1996-2001, con rimandi sonori chiari ad Antichrist Superstar (sin troppo facile trovarne i germi in Little Horn e Kinderfeld prima versione) e linee vocali alla Holy Wood. Raggiunge quegli apici? No: manca un gruppo affiatato, manca un team di geni dietro al banco mixer e – comprensibilmente – manca l’urgenza giovanile. Ma gli somiglia, e tanto basta.
Insomma, tre pezzi che accontentano i fan della primissima ora come quelli nati parecchi anni dopo Mister Superstar, un Manson rimesso a lucido dalla Nuclear Blast per un “ora o mai più” decisivo dopo l’ennesimo stop forzato di una carriera travagliata, dove troppe volte le cose si sono dovute fermare per questioni esterne. Un ritorno che a vederla bene non è davvero tale, ma non per questo è meno importante: lunga vita a Mariolino!
The Smile: Zero Sum
Volete una dimostrazione di estro divenuto ormai incontenibile? Basta guardare in casa Thom Yorke e dei suoi Smile, non (abbastanza) contenti di aver partorito, nel 2024, quella gemma di Wall of Eyes e subito corsi ai ripari con il preannunciato Cutouts, terzo mattoncino discografico del trio, in uscita il 4 ottobre, a soli nove mesi dal suo fratello maggiore.
Parliamo di registrazioni risalenti alle session del predecessore, con estratti dalla tracklist già ampiamente rodati in sede live (chi c’era all’Auditorium di Roma qualche mese fa si sarà sicuramente lasciato ciondolare dai singhiozzi pianistici di Don’t Get Me Started, oltre che da un’inedita Instant Psalm), ora diventati uscite ufficiali: ad accompagnare il crogiolo di synth di Foreign Spies c’è, in totale opposizione, la claustrofobica danza di Zero Sum, un formicaio di suoni che paiono proiettare il groove in un labirinto, lasciandolo in pasto al prog-rock che rincorre, mentre si scioglie dinanzi all’art-rock e si trasforma al tocco di un refrain ai limiti tra l’insidioso e il balsamico.
A quest’ultimo ci pensa Thom Yorke, non solo con la voce, ma con quella bassline prorompente, incarnazione della ragione contro la (sadicamente) lucida follia sprigionata da Jonny Greenwood e da un riff pizzicato che spinge ancora oltre (a livello di intreccio) le gabbie chitarristiche già costruite con Thin Thing e Under Our Pillows.
Alta velocità e suoni che si sovrappongono, impazziscono e si quietano in un ottovolante strumentale inferocito nel mezzo dell’evanescenza synth-etica degli altri due singoli, Zero Sum ci riporta gli Smile ancora una volta mutati, forse giunti a uno stadio in cui la cripticità la fa da padrona: ce lo confermerà, nella sua interezza, Cutouts. Intanto, provate a fermare quei tre.