[New Music Weekly] Orville Peck con Willie Nelson a Brokeback Mountain, la versione alternativa di Giusy Ferreri, quel che resta del Patriarcato
Settimana 24 – con Orville Peck & Willie Nelson, Bloom, Patriarchy, Unto Others, Cut Piece, Sorceress of Sin, Busted Head Racket, Peach Fuzz, The Cleopatras, Bear of Bombay.
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Anche i cowboy hanno dei sentimenti, spesso gli uni per gli altri: il grande passo verso il rendere fluida anche l’epica western in musica inizia dall’incontro dell’eroe mascherato Orville Peck con il vecchietto trecciuto Willie Nelson e così, ancora una volta, il country, dall’alto della sua saggezza centenaria, si rinnova. Cosa che non possiamo dire del goth-rock degli Unto Others, ancora indecisi se far uscire dal bozzolo un pipistrello o una farfalla, senza comunque perdere la consueta verve nero-rosacea. Percorso simile intraprendono i Patriarchy della neo-mamma Actually Huizenga: da un intreccio di industrial metal e dance discotecara, a una via di mezzo tra Trent Reznor e Madonna. Così come sempre di epic metal parliamo introducendo il duo Sorceress of Sin, solo che il vocione imperioso che la fa da padrone è quello della signorina Lisa Skinner.
Altrove il punk rastrella – as usual – da un estremo a un altro. La sporcizia vera dei Cut Piece di Portland, la versione egg a bassissima fedeltà dei Busted Head Racket da Newcastle, l’indie classico (quasi cranberriesiano) degli australiani Peach Fuzz, il pop’n’roll delle toscane Cleopatras.
Infine, per rimanere nel Belpaese, le ultime due perle di questa settimana: Lorenzo Parisini presenta il nuovo progetto Bear of Bombay – electro-psichedelia di un altro livello – mentre Giusy Ferreri mette su i Bloom, un supergruppo di quasi carneadi (pare un ossimoro, ma non lo è) e ci dimostra che non era tutto (e solo) Sanremo quello che luccicava.
Bear of Bombay: Tears from Space
Psichedelia come attitudine, lente deformante attraverso cui guardare il mondo e immergersi nel flusso infinito di una energia che proviene da ogni cosa. Bear of Bombay è il moniker del nuovo progetto di Lorenzo Parisini che si concretizzerà il prossimo settembre con l’uscita dell’album PsychoDreamElectroGaze, titolo già di per sé programmatico.
Tears from Space è il singolo che anticipa l’uscita del disco che vede la partecipazione di Mario Lo Faro, chitarrista degli shoegazers Clustersun. In questo senso, ci piace immaginare un’unica scena artistica senza confini geografici che lega Milano a Catania e crea un asse dinamico, vitale e in via di continuo scambio. È sufficiente un incontro all’Arci Bellezza o due chiacchiere al Mountain Sound Festival di Domodossola – proprio quello che è avvenuto tra Parisini e i Clustersun – e il gioco è fatto.
La traccia si muove nel solco di un drumming lineare puntato verso una direttrice kosmiske e ipnotica, con fluttuazioni senza gravità in una dimensione fuori dallo spazio-tempo. Le reiterazioni di moduli synth rappresentano il suono di una invocazione post moderna, con le formule ieratiche di un rituale di smaterializzazione. La chitarra satura di fuzz di Mario Lo Faro scarifica la superficie dei suoni, li disturba dall’interno innescando una reazione che fa impazzire gli atomi della materia per ricomporla in una forma nuova e caleidoscopica.
Gli oltre sei minuti non sono altro che una lunga trance o, meglio, lo stream of consciousness di una universale visione onirica in cui assegnare un altro senso al proprio stare al mondo, anche se solo per poco. In fondo, è questa la psichedelia.
Bloom: È la verità
Non sappiamo se il nome derivi dallo storico club di Mezzago ma su È la verità, primo brano del nuovo progetto di Roberta Raschellà, Max Zanotti, Alessandro Ducoli e Giusy Ferreri, ci sono diverse cose da dire.
In primis la formazione, che racchiude al suo interno gente che ha macinato palchi per anni, collaborando e creando contatti con tutto lo scibile musicale italico, dal mainstream più efferato (le scuole di musica di Paolo Meneguzzi, X-Factor e Sanremo) a un’onestà di carneadi come i Deasonika o la stessa carriera solista di Ducoli.
Potrebbe essere quindi un colpo di coda in assoluta libertà questa storia, con un brano che si prende un buon tempo prima di crescere ed esplodere, sfruttando l’ugola della Ferreri su un terreno oscuro e rock, che sale poi in una sorta di standard energico che non ha eguali al momento, distante sia dalle punte di una Gianna Nannini che dalle intensità di una Cristina Scabbia. Una terza via che ha il suo perché, ma che necessita di rodaggio, pratica d’insieme e macina.
Dovrebbero farsi tre mesi come gruppo di base in luoghi a loro sconosciuti, ovviamente insieme a Toro Toro Taxi, Cipango e Far Fronte, come da offlaghiana memoria. Si faranno ancora più forti, ma il tiro già c’è.
Busted Head Racket: Poor No More
I Busted Head Racket sono un trio rock’n’roll a fedeltà bassissima, direttamente da Newcastle, cittadina costiera poco più a sud di Sidney. Nati come un progetto solista di Arden Guff, che nella band è spina dorsale e strumentista per quanto riguarda basso e voce. Oltre a lei il progetto si è allargato al tastierista Dave Cunningham e al batterista Riley Gardiner. Per ora le loro registrazioni si limitano a un EP di otto tracce intitolato Junk Food, prodotto da un’etichetta polacca specializzata in cassette (la Syf Records) che promette meraviglia all’interno del suo catalogo, e uno split con Teo Wise (musicista italiano che dovrebbe, al momento, essere di base in Germania, autore di stupende melodie).
Ma Poor No More ha la rabbia e la sporcizia che ci ricordavamo nei Doo Rag, la melodia delle Slits e l’acume delle Bikini Kills. Il fatto che sembri registrato in una lavanderia dimenticandosi di regolare i volumi nulla toglie al suo fascino, anzi, ne esalta le poche e geniali intuizioni. Questa è la vera musica punk, un rullante suonato nell’aia, il basso in sottoveste con i guanti di gomma, la voce che sembra essere ottenuta tramite una dieta di elio e Cheerios, una tastiera che pare viaggiare a zucchero filato rosa. Sono questi gli ingredienti che creano un singolo pop assolutamente irresistibile e che, purtroppo, nessuna radio passerà mai sulle sue frequenze.
Sapete com’è, no? Poi ci sarebbe il successo, il dover andare in studio, l’incidere, lo stampare, i rapporti con i media e la stampa. Per ora invece limitiamoci a giardino, atrio e video fatti male e con poco, poi si vedrà.
Cut Piece: Walk the Dog
Una volta si collegava la città alle Sleater-Kinney, oppure a Elliot Smith. Ma oggi, se pensiamo a Portland, Oregon, a sorprenderci sono i Cut Piece. Mary Esquivel, Samantha Gladu, Zach Brooks e Laura Camerato, debutto su Total Punk Records e un singolo, Walk the Dog, che fa capire di che pasta sono fatti.
Una batteria furiosa e scarna, chitarra ruggente e una voce che urla quanto le passa per la testa, il tutto in un’atmosfera sanguigna e oscura, per due minuti scarsi di musica, che potrebbero sembrare pochi per capire come certo suono possa evolvere. Eppure i semi e l’energia buttati in questa sessione validano proposta e visione di un brano ambiguo, dove si faticano a riconoscere i volti e i ruoli, ma ci si dibatte in una situazione malsana di vittima e carnefice: «Been hunting you for weeks and my reach is long / Lemme tell you how to walk your dog / Gonna trap you in my grips, you’re doing it all wrong».
L’intero Your Own Good infatti si conferma schiaffo di violenza e crudezza e rimette Portland sulla cartina con un nuovo livello di ferocia. Well done, Cut Piece! Noi intanto ci guardiamo le spalle.
Orville Peck & Willie Nelson: Cowboys Are Frequently Secretly Fond of Each Other
Beh, che dire? Orville Peck e Willie Nelson per un brano western delle grandi occasioni, a presentare i lati nascosti di ogni cowboy, fra le donne che si nascondono nei loro corpi e i suoni di una piccola città. Un gioco di ruoli come ogni vita, certo: tra sussurri, racconti epici e segreti di pulcinella.
La cosa splendida è come l’amalgama delle due voci – tra il basso di Orville e il tono invecchiato dagli anni di Willie – riesca a creare un mondo intero, un universo che ti tiene ancorato a un racconto che, di per sé, ha fatto coming out nella cultura di massa con Ang Lee e I segreti di Brokeback Mountain, ma in realtà ben più radicato di quel che si pensi da questo lato dell’oceano. Il rappresentarlo in maniera così naturalmente romantica è quanto di più ispirante possa accadere per un brano che è assolutamente trascinante e aspetta soltanto un paio di giri di bourbon per sentirsi lanciare urli di approvazione da parte della platea completa.
Un pezzo che vien voglia di ballare abbracciati in cerchio, passo a destra e passo a sinistra, per una completa unità che sorpassi ogni dannato giudizio su orientamenti e gusti sessuali. Datemi dischi interi con queste voci e questi ritmi, lasciate ai cowboy la libertà, le selle e gli speroni e ai nostri stereo questi tre minuti e mezzo abbondanti di gioia e libertà: Cowboys Are Frequently Secretly Fond of Each Other, del resto.
Patriarchy: Hurt Me
Ancora poco noti in Italia, i Patriarchy sono una delle formazioni che si dovrebbe conoscere per essere davvero al passo con i tempi senza rinnegare il vecchio vibe delle cose old school. Funziona così per essere cool oggi, no?
Con i Patriarchy sì, funziona così. Soprattutto ora che, con questa nuova Hurt Me, il trio losangelino di Good Boy lascia da parte quella violenza espressiva che ne ha contraddistinto le sortite live e sembra si sia rintanato (oltre che in un video super DIY girato in tour) in un dolciastro electropop borderline tra il politically correct e la spinta antripatriarcale di un bandierismo un po’ scontato, che però funziona per la sua effettiva portata d’impatto, mischiata a un desiderio viscerale – tutto umano – di autodistruzione. Trent Reznor (a.k.a. Mr. Self Destruct) ha insegnato bene da quelle parti. E anche la Madonna più oscura (quella di Ray of Light, per intendersi).
Immaginiamoci Shirley Manson e dei Garbage che non hanno perso lo smalto e ci ritroveremo di fronte la folle cantautrice/regista Actually Huizenga, che ha intrecciato i tripudi dell’industrial metal con la dance più discotecara, pregevolmente facendo reinterpretare il repertorio della sua band da bella gente come Soft Moon, Choke Chain, Automelodi e molti altri.
Quando recentemente ha dato il benvenuto al mondo al suo primo figlio (all’anagrafe Winter Aurelius) proprio lei ha dichiarato «Ora ho sperimentato la realizzazione femminile ideale del patriarcato e mi è piaciuta, inoltre il mio seno è raddoppiato di dimensioni: il mio latte sarà disponibile al tavolo del merchandising, ma non sarà economico». Se non li avete beccati in giro nei mesi appena passati (per esempio al Roadburn), questi sono un gruppo da vedere appena passerà in Italia. E non dimenticate di fermarvi al banchetto. Vinili e tanga firmati Patriarchy sono un must-have!
Peach Fuzz: What Do You Want From This?
Abbiamo riassaporato gli amori sfuggenti, l’arietta frizzantina che rinverdisce il tepore del crepuscolo e indirizza gli sguardi, le guance rosse, le carezze date sulle panchine dell’adolescenza. La dolce tensione del tira e molla, di quella voglia di sapere tutto e di non sapere niente, di godersi una giovinezza che pare ora scapparci via dalle mani.
I Peach Fuzz, sede a Melbourne, ci hanno fatto fare un bel tuffo in un passato nemmeno troppo lontano, ma già messo in cassaforte nel bauletto dei ricordi: What Do You Want from This? non ha pretese astrali, conserva in sé quell’indole di far musica perché si è fottutamente felici – il video, non a caso, è homemade e sprizza una gioia che è difficile da descrivere in semplici parole.
Quattro ragazzi, tanto indie quanto classic rock, tra Cranberries – la vocalità di Lucinda Gray è calda e accogliente, simile (in termini di avvolgenza) a quella della O’Riordan – e The Lemon Twigs, tra Slow Pulp e Alvvays, con una punta di feeling strokesiani che non guastano mai: il main riff è aperto, raggiante, ben costruito, così come il refrain, incalzante ma morbidissimo. Le parole rincorrono e appiccicano in un collage distanze e relazioni, respirano l’aria dei tramonti passati a cercarsi per poi non sapere bene come gestirsi.
Insomma, una traccia che si ritaglia un posticino fuori dal tempo e che, in qualche modo, lascia fluttuare anche noi tra reminiscenze e vecchi sorrisi.
Sorceress of Sin: The Quest
Il vocione imperioso di Lisa Skinner ha l’enfasi epica di Ronnie James Dio e insieme il crudele tonare di Blackie Lawless. Il destriero posto sotto il deretano solenne di questa principessa di altri mondi è un andante semiacustico che intreccia arpeggi drammatici e un ritornello che arremba a guizzo di speranza, oltre il tetto di spade, il cielo di arti mozzati che volano e lunghe grondaie che stillano sangue nero.
C’è pure un flauto panico che aggiunge un tocco morriconiano e mitiga la tensione del brano. The Quest è una tesissima fune che sorvola garrotante i nostri sguardi, segando in due il tramonto della disfatta. I Sorceress of Sin non aggiungono nulla al patrimonio eolico dei Warlord e alle sferzate sdegnose di Joey DeMaio, eppure raggiungono un effetto davvero potente, rastrellando dal nostro fondale di tristezza un residuo di entusiasmo per il genere epic fantasy.
Ci ergiamo oltre la retorica metallara. Ci concediamo un’ultima sgroppata equina, mentre il solo del riccioluto Constantine Kanakis sbrindella per l’ennesima volta la scala minore e snocciola, in una cascata di coriandoli luccicosi, il ventre della materna The Quest. I Sorceress of Sin hanno il tono giusto per ridestare gli dèi crepuscolari e farli incazzare ancora una volta.
The Cleopatras: Siamo Marea
Dopo lo strepitoso Bikini Grill, tornano sotto le Cleopatras con Siamo marea, brano che segna ancora una volta il passaggio all’idioma italiano che già caratterizzava un paio di brani sull’ultimo disco, come Dai dai dai e Mal di testa.
Siamo marea è un brano che sembra leggero ma cresce negli ascolti, quasi uno spostamento dal rock’n’roll colorato al quale le musiciste ci hanno abituato negli anni a una sorta di iniezione melanconica e pop-noise. Restano i coretti, certo, si fa sentire la loro riconosciuta determinazione, ma c’è dell’altro che, fortunatamente, non riusciamo del tutto ad agguantare.
Del resto, sono passati i tempi nei quali erano la cosa nuova, eppure il riuscire a sorprendere ancora a ogni uscita significa veramente qualcosa. Il singolo è assolutamente radiofonico e dimostra per l’ennesima volta come sia possibile abbinare orecchiabilità a profondità. «Siamo marea» dicono giustamente le Cleopatras e – proprio come le onde ribelli che citano – arrivano sorprendendoci e lasciandoci un sorriso stupefatto sul volto dopo averci lasciato sulla spiaggia, bagnati e felici di un altro brano.
Marta Franceschi, Vanessa Billi, Camilla Lastrucci e Alice Guerrini si dimostrano ancora una volta all’altezza del loro nome. Ricordiamo infatti che il regno di Cleopatra durò in Egitto per ben ventidue anni e che il primo singolo delle toscane, The Time Has Come, vide la luce 24 anni fa. Ancora in carica nel loro regno, ancora rock’n’roll.
Unto Others: Butterfly
Pipistrelli redivivi o ghouls (ferali, naturalmente) da vecchia discoteca goth, gli Unto Others continuano a mietere consensi. Sì, sì: la formula è la stessa di sempre, eppure non si può che accogliere con un bonario sorriso ogni singolone che esce fuori da parte degli ex Idle Hands di base a Portland.
Butterfly è un’ottima anticipazione del nuovo album, previsto nel corso dell’anno: una linea vocale racimolata qui e là da tutte le strofe che funzionano e un ritornello fatto per colpire nel segno sono le formule base che hanno reso la band di Gabriel Franco una delle più solide nuove realtà di genere. Si aggiunge un piglio heavy metal di chitarre old school e il gioco è fatto. Tutti contenti e bottino recuperato. Classic rock e goth metal sono roba per aficionados. E qui è il punto dove esattamente ci si setta senza sviare troppo dal punto stesso.
La svolta “positiva” del testo è un po’ un’arma a doppio taglio, che speriamo non risulti eccessiva nel corso del disco in arrivo. Qui, questo tocco “rosaceo” ci è sembrato piacevolmente integrato nell’oscurità del background ancora solido della truppa, che augura ai giovani adepti del goth di riuscire a essere se stessi e a sviluppare le proprie ali. Da pipistrello, naturalmente, anche se il titolo guarda a un insetto più variopinto e benvoluto rispetto al roditore volante.