[New Music Weekly] Soap&Skin alle prese con Sufjan Stevens, Angie McMahon alle prese con i propri scarti, Kate Pierson alle prese con un amore sbagliato
Settimana 33 – con Soap&Skin, Duster, Angie McMahon, Tära, Skillet, Blak Saagan, Gaerea, Kate Pierson, Locked Shut, Gore.
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Selezione equamente divisa per sesso, questa settimana: 5+5.
Da buoni gentlemen, iniziamo con Anja Franziska Plaschg che si fa a tutti gli effetti prendere per mano da Sufjan Stevens, e quelle dita sul pianoforte suonano tutto meno che una cover. Proseguiamo con Kate Pierson, che – complice il prolungato silenzio discografico dei B-52’s – torna con un progetto solista, mentre Angie McMahon fa il bis e pubblica un EP di scarti che forse sono meglio dei pezzi che ha messo sull’ultimo album nemmeno un anno fa. Giri armonici mediorientali e una voce che turba cantando in più lingue, dall’arabo all’italiano: ecco Tära, sentiremo parlare di lei. Sentiremo pure – ma in un altro senso, soprattutto vi spazzerà via il parrucchino con le parti berciate – forte e chiaro anche Haley Roughton: la sua band si chiama Gore. e sono tipo degli Evanescence, ma molto più incazzati.
Passando al cromosoma Y, ma rimanendo in ambito metalloso, i Gaerea arrivano mascherati dal Portogallo: death, black, qualcos’altro – fate voi. I Locked Shut vi danno il benvenuto a forza di cazzotti sui denti: chiamatelo pure dentalcore, ma non farà meno male. Gli Skillet gonfiano il loro pop-rock secondo i dettami del Bob Rock di inizio anni ‘90. Blak Saagan spegne la luce nella Grande Mela e compone un soundscape del buio metropolitano manco fosse Carpenter. Bentornati, infine, ai Duster: li hanno definiti shoegaze, ma non rende l’idea.
Angie McMahon: Just Like North
Al prossimo che vi dice che l’arte migliore non è figlia di un cuore spezzato, a quell’incosciente che si ostinerà a negare l’evidenza – ovvero che il dolore diventa salvifico solo quando te lo imprimi bene in testa per non rischiare di dimenticartelo nel momento in cui tutto sembrerà andare per il verso giusto – tirategli dietro Angie McMahon.
Perché quando devi trattenere le lacrime per paura di mandare in frantumi la felicità degli altri, delle due l’una: o scoppi ingoiando il sale delle tue ferite o prendi una cazzo di chitarra, raccogli un filo di voce strappata e ti metti a scrivere canzoni su cui la gente tornerà, al bisogno (e, potete starne certi, di bellezza consolatoria – al pari di idraulici, commercialisti e becchini – ce ne sarà sempre bisogno, nei secoli dei secoli), per i prossimi cent’anni.
Angie McMahon è questo: empatia pura misurata a spanne di talento. È lavorare su se stessi ma accorgersi che di mestiere stai facendo il cardiochirurgo. Improvvisato e ben poco allegro. Toccare i tasti sbagliati perché la mano trema, emettere uno suono – tanto inconsulto quanto irritante – mentre ti esce sangue dal naso e capire che si è accesa una lampadina, che è scattato qualcosa, fosse anche solo l’anestesia che è andata a puttane. Non essersi mai sentiti così vulnerabili ed essenziali allo stesso tempo.
Light Sides è stato più o meno pubblicizzato come un EP uscito per raccogliere una manciata di scarti che, per un motivo o per un altro, alla fine non sono rientrati nella tracklist di Light, Dark, Light Again. E il fatto che ci si sia presi il lusso di chiamare questi scarti, la dice lunga sulle dimensioni delle spanne di talento di cui sopra.
Prendiamo appunto uno scarto come Just Like North, solo per realizzare che brillerebbe in scioltezza tra le migliori cinque canzoni della carriera di chiunque altro. Avete presente quel riverbero sulla chitarra, onnipresente, dolce ma deciso, che riempie tutta la stanza e sconfina pure in quelle accanto, che accenna un soffice tremolio sulla superficie del bicchiere di whisky posato sopra il tavolino di vetro, per poi andare a nascondersi docile sotto il divano? Avete presente quell’accento spezzato, sempre sull’orlo di crollare in un singhiozzo ma che, per qualche ragione che non riuscite a spiegarvi, siete sicuri non cederà mai? Insomma, avete presente Jeff Buckley? Ecco, per i compagni della mozione complottista lo confermiamo: è morto. Ma c’è il forte sospetto si sia reincarnato nella terra dei canguri, in corpo di donna: premette PLAY per ascoltare come suona oggi.
Blak Saagan: Black out a New York
Quando il Trieste Science + Fiction Festival ha scelto otto progetti sonori italiani per presentare gli spazi interiori ed esteriori che ci lambiscono, la scelta è andata a finire su artisti che con l’ignoto e l’immaginario hanno spesso flirtato.
Qui, con un titolo smaccatamente carpenteriano abbiamo in loro rappresentanza Blak Saagan, progetto di Samuele Gottardello. In un dedalo di dieci minuti di perdizione e smarrimento, ci ritroviamo alle prese con un suono incalzante, freddo e teso, di quelli che a immaginarli suonati mentre si cammina da soli viene spontaneo girarsi, o mettere mano a un oggetto contundente. La bravura di Samuele (un passato come Second H. Sam e apparizioni in Hormonas e John Woo, oltre all’ultimo, splendido, Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo) sta nel giocare con i diversi elementi senza diventare lezioso: invoglia in qualche modo a osservare cosa stia succedendo, a immaginarsi quale possa essere la prossima mossa coperta dall’oscurità.
New York è eterna, lo sappiamo, c’è passato Jena Plissken e le bande dopo la riunione nel Bronx, ma in questo blackout, cercando di sviluppare i sensi ancora utilizzabili, siamo noi a dover sfuggire del prossimo pericolo. Potrebbe essere un mutante, un semplice assassino seriale, uno spostato. Blak Saagan stesso, o un triestino immigrato. Partendo dallo storico blackout del 1977, notte mitica che seminò rivolta e terrore, ma che diede anche la possibilità a musicisti meno abbienti di far man bassa di attrezzature che sarebbero state utili a inventare l’hip-hop, ad esempio. Paura, sorpresa, il tocco italiano di un Lucio Fulci al lavoro su Manhattan Baby. Tanti, tantissimi ingredienti che in dieci minuti pulsano letteralmente fra le nostre meningi, a scatenare storie reali, realistiche, fantascientifiche.
Da Trieste a New York, letteralmente un oceano di suono.
Duster: Isn't Over
Da quando sono tornati sulle scene nel 2018, i Duster hanno pubblicato più musica di quanto avessero fatto prima di far perdere le loro tracce per quasi vent’anni.
Da una parte, come si dice in questi casi, devono averci (ri)preso gusto. Dall’altra il tempo trascorso li ha probabilmente fissati nell’immaginario collettivo degli amanti del genere come appartenenti al novero delle band storiche del filone shoegaze/slowcore/space-rock, e il loro ritorno è stato particolarmente apprezzato.
Ma se la loro musica non è, per fortuna, ferma nel tempo, le loro canzoni sembrano piuttosto avere il potere di mettere in pausa il presente, lasciandoci in un’atmosfera sospesa per un periodo indefinito.
Le note di Isn’t Over, che rimandano al post-rock, hanno certamente questa caratteristica, oltre a quella di stimolare positivamente l’immaginazione attraverso un percorso sonoro circolare che rinvia a una malinconica serenità. Una canzone che invita a guardare avanti, lasciandosi alle spalle le preoccupazioni, e che finisce, inevitabilmente, per essere particolarmente motivante. Da ascoltare nei giorni tristi o quando si è alla ricerca dell’ispirazione.
Gaerea: Unknown
I Gaerea vengono dal Portogallo e sono mascherati, la qual cosa sembra abbastanza diffusa in ambito estremo di questi tempi, specie da quelle parti. Ciò che non è molto frequente invece è la capacità di coniugare violenza rabbiosa e sentimenti più nobili quali la malinconia e la voglia di arrendersi.
D’altra parte, l’heavy metal quando è nato ha praticamente solcato l’intero percorso barometrico tra questi due poli risucchianti. Nella fase iniziale del genere la rabbia e la voglia di non stare alle condizioni del mondo inquadrato e ordinario avevano la prevalenza. Via via che le tendenze si sono appesantite, è venuta fuori anche la tristezza, la disperazione e tutte le sorelle algide della depressione esistenziale. I Gaerea con Unknown sanno appunto mantenersi in equilibrio tra energia risolutiva, aggressività, voglia di mollare tutto e galleggiare sulla superficie di un arpeggio mellifluo e un po’ rétro.
Le loro sonorità mescolano in modo davvero omogeneo le rutilanti progressioni del death e le blastose tirate ritmiche del black. Il brano sale d’intensità e guadagna una circolarità risucchiante. Si combatte mentre si sprofonda, l’autunno sfalda il creato, lo sveste dai sogni e dalle speranze e ciò di cui possiamo ancora soffrire è sempre lì, a portata di mano.
Gore.: Babylon
Non è semplice trovare sul web notizie dei Gore. Nonostante la scelta di aggiungere un punto alla fine della parola, come in certe password, è proprio il termine scelto a generare parecchie difficoltà nel googlaggio. Ci sono un sacco di band con questo nome, il gore è un sottogenere del “cinema de paura” nato molti anni prima dello splatter (che già di per sé vanta almeno quattro decadi di praticantato nel magico mondo dell’horror).
Il trio, da poco messo sotto contratto dalla Spinefarm Records, promette benino. L’approccio è molto groove, con la voce della graziosa Haley Roughton che vi spazzerà via il parrucchino appena inizierà le parti berciate, in alternanza con quelle melodiche, flautate, sospirose e quasi poppy. Lo stile è accessibile e molto power, con un lavoro di produzione spinto e parecchia attenzione ai particolari.
Il brano Babylon è, nelle intenzioni, il funerale di un ideale femminino che la Roughton ha perseguito con tenacia nel corso degli anni giovanili fino alla maturità: la ricerca del principe azzurro. Dopo una serie di relazioni tossiche e disastrose, ha deciso di smetterla di ambire a un salvatore testosteronico dal biondo crine. Si è messa il cuore in pace e ora è pronta per la realtà. Eccola quindi qui a mescolare la rabbia amara della constatazione, il dolore della crescita e la speranza di un futuro sano, assieme ai suoi due compari che, attraverso le chitarre gigamentose degli anni 2000 e le atmosferiche nenie stile Evanescence, rilanciano la retorica piano-forte figoso del vecchio nu metal.
Kate Pierson: Evil Love
Tra tutti i progetti che hanno animato gli anni ‘80 i B-52’s hanno avuto un ruolo assoluto da protagonisti. Ruolo a dire il vero mai abbastanza riconosciuto come magari avvenuto ad esempio per i Talking Heads, eppure la band ha rappresentato una delle migliori espressioni creative tra follia, coraggio e indipendenza artistica.
Un lungo periodo costellato da ottimi album, a partire dal loro omonimo esordio, il mini Mesopotamia nel quale si sente la produzione e partecipazione di David Byrne, fino ad arrivare al loro ultimo lavoro rilasciato nel 2008 e intitolato Funplex, con il quale hanno fatto di nuovo centro dimostrando un mestiere navigato e immutata creatività.
Kate Pierson è una delle anime della band. Polistrumentista e voce protagonista, capace, insieme a Fred Schneider e Cindy Wilson, di creare combinazioni incredibilmente riuscite e particolari, dotata di una vocalità da mezzosoprano, ha negli anni collaborato e contribuito a grandi successi di altri autori come avvenuto con la celeberrima Shiny Happy People dove appare in tutto il suo fascino.
Oggi, complice il purtroppo lungo silenzio discografico della band madre, Kate torna con un progetto solista di cui questo brano fa parte: un pezzo lontano dalle sonorità della sua vecchia band, che si presenta con un sapore da thriller noir, tracciando la storia di un amore malvagio e sbagliato destinato a una fine tragica, il tutto accompagnato da un video che presenta vari riferimenti cinematografici, da Alfred Hitchcock fino a Quentin Tarantino.
Passano gli anni ma Kate è ancora presente con tutto il suo immutato ed eterno fascino.
Locked Shut: Toothache
Qualcuno ha azzardato (ironicamente) il termine “dentalcore” tra i commenti al di sotto del video ufficiale di Toothache degli americani Locked Shut, strappandomi una serena risata nel bel mezzo del divin martellamento hardcore che trapanava, fottendosene altamente degli acufeni, i miei padiglioni auricolari.
Metalcorini nelle vesti di dentisti – e che vesti, quei giubbini fighissimi della North Face costeranno più dei Marshall in background (e anche più di un apparecchio fisso) – determinati a esorcizzare il dolore con una fucilata in pieno volto, tra Hatebreed e Yosemite in Black, che dovrebbe fungere da anestetico: la realtà, fidatevi, è ben diversa.
Il riffone grattuggiato, il cantato gonfio e irascibile, quel ritornello bello ruffiano che irrompe dal gabbiotto thrash e illumina la ferraglia altro non sono che catalizzatori impazziti di adrenalina.
Dormire no, ma di sicuro di dolore ne sentirai ben poco, soprattutto immaginando la detonazione di Toothache in un qualche pit di hate5six – le movenze, d’altronde, ci sono tutte.
Bella presenza scenica, nervi tesi, piacioni al punto giusto: amanti del -core, il pasto è servito.
Skillet: Unpopular
Gli Skillet, la christian rock band guidata dal frontman polemico e pennellatissimo John Cooper, rappresentano una tipologia di hard rock band moderna. Per fare qualche esempio, sono simili agli Shinedown e ai Nickelback: quindi buone melodie americanissime, produzioni pompose, chitarre iper-prodotte capaci di far vibrare le casse dello stereo fino a romperle.
Si tratta di una musica pop-rock ma gonfiata e caricata come la scuola di Bob Rock ci ha insegnato ai tempi del Black Album. Nonostante sia smaccatamente commerciale, non produce chissà quali consensi. Gli Skillet non riempiono gli stadi, almeno dalle nostre parti, eppure un brano come Unpopular è innegabile che sappia infilarsi nel circuito nervoso e superare ogni barriera resistenziale.
L’andazzo rock è basale, pochi accordi e una melodia piaciona che si dispiega come abbiamo sentito tante volte, poi però esplode il ritornello e i vetri della nostra diffidenza vanno in pezzi. E nonostante tutto ci piace, la balliamo sul posto e la canticchiamo per tutto il pomeriggio. Bisogna fare i conti, quando si tratta di musica, con i nostri gusti cerebrali e con la fame animalesca del nostro corpo. Non sempre le cose vanno d’accordo. La seconda tradisce la prima, come nel caso di questo ennesimo singolo degli Skillet.
Soap&Skin: Mystery of Love
Di Anja Franziska Plaschg non si dirà mai abbastanza, per un’artista che ha saputo dipingere di dolcezza, sante e carattere letteralmente ogni brano da lei composto come Soap&Skin. Ormai da sedici anni discograficamente attiva, arriva per lei il momento di confrontarsi con il mondo altrui, il famoso e famigerato album di cover, nato su impulso del Donau Festival.
In questo caso Soap&Skin si fa a tutti gli effetti prendere per mano da Sufjan Stevens: Michigan e Stiria lasciano semplicemente che dal cuore e dalla gola esca quanto necessario per commuoverci. Sono minuti minimali e toccanti, nei quali le note si fanno gocce, lacrime che disegnano sui nostri visi strade fino a ora sconosciute. Nel videoclip che accompagna la canzone un torso umano ruota su se stesso sopra una foresta di alberi rosati, dando l’impressione di una sospensione a mezz’aria, della capacità letterale dell’amore di trasportarci, di riportare a noi il calore, la dolcezza e la meraviglia delle prime esperienze condivise. Ancora una volta gli arrangiamenti classici elevano la voce e l’intensità di un’artista che riesce a maneggiare suono e parole come pochi, aprendo una porta su un prossimo futuro nel quale entrare tenendosi per mano, alla ricerca di una sua lettura, di una nostra reazione, dell’ennesimo scoccare d’incantesimo.
Il mistero dell’amore, il mistero della musica e della loro enigmatica bellezza.
Tära: Sotto effetto
Le canzoni sono così. A volte basta un incrocio, un unico ascolto per catalizzare la nostra attenzione: Sotto effetto تحت تأثير di Tära mi ha letteralmente stregato, con giri armonici e ritmici mediorientali e una voce che turba. Le parole sono cantate in più lingue (arabo, italiano e francese), riuscendo a mantenere un killer groove mentre si aggira per un parcheggio, tra auto e carrelli. Ci sono la rivalsa e l’ambizione («dammi un anno e avrò fatto sold-out») e tutto sembra l’inizio di una storia intrigante che promette benissimo.
Poche informazioni, giusto un paio di brani che negli ultimi tre anni sono apparsi sulle piattaforme digitali, per un 2024 che va a stringere i ritmi con ben tre pezzi pubblicati. Qui però sentiamo dell’extra-beat, una luce e una moina che paiono trasformarsi in un canto magico per quella che sembra essere una gemma da lucidare affinché possa brillare. Ci sono la voce, la capacità di scrittura, la bravura di farsi ascoltare in continuazione senza minimamente annoiare: c’è soprattutto un flow personale e senza possibilità di essere ingabbiato.
Tära. Sotto effetto. Fra Italia e Palestina, italiano e arabo: una faccia, una voce nuova, per la produzione di Joe Sledge. Condividiamo la sensazione: «Ho provato a smettere, ma amo l’effetto che mi provoca».