[New Music Weekly] Trentemøller sotto una nuova luce, Mikael Stanne dopo un paio di cucchiai di sciroppo, l'animale dentro Don Joe
Settimana 25 – con Trentemøller, A Nice Noise, Hellbutcher, Ulcerate, Joe Ghatt, Cemetery Skyline, Tancredi Bin, Faun, Demon Spell, Don Joe.
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Se vogliamo buttarla sulle etichette – escludendo il buon Anders Trentemøller, la cui elettronica, da sempre e sempre di più ormai intaggabile, non si è mai accasata da nessuna parte, e Joe Ghatt, che porta dalla Nuova Zelanda un indie-pop leggero e fresco tutto chitarrine e mossette – questa settimana è un bell’oscillare tra #metal e #madeinitaly.
Da un lato troviamo i Cemetery Skyline (ennesimo progetto parallelo fuori dai Dark Tranquillity in cui Mikael Stanne allena la sua “voce pulita”), gli Ulcerate (finalmente e all’improvviso il death di cui avevamo bisogno), gli Hellbutcher (che si spacciano per black ma in realtà riportano in auge il thrash trucidone di metà anni ‘80) e i Faun, che più che nel metal sconfinerebbero nel folk, ma in quello allucinogeno e medievalista che fa tremare la Terra.
Dall’altro si rifanno vivi Adele Nigro (ora Adele Altro) degli Any Other, con un nuova banda di compagni che promette benissimo sotto il nome di A Nice Noise e Don Joe dei Club Dogo, che fa il pienone di #feat! ingombranti chiamando a sé nientepopodimeno che Annalisa, Guè ed Ernia, mentre Tancredi Bin debutta all’ombra delle Due Torri e di evidenti suggestioni battistiane.
Poi c’è il caso in cui i due fenomeni si verificano contemporaneamente: parliamo dei Demon Spell, con i loro riff tipicamente Eighties e un’estetica di B-movie zombeschi, tra Black Sabbath, Blue Cheer e un pizzico di autoironia, che non guasta mai.
A Nice Noise: Down the Line
Quartetto di soliti noti che riescono a giocare su più livelli. Incontrati in più progetti, infatti, i tre musicisti che accompagnano Adele Altro degli Any Other (Stefano Calderano di McCorman e TellKujira, Luca Sguera di {scope} e Giovanni Iacovella) null’altro sono che gli She’s Analog, autori del bel What I Bring What I Live su Auand Records nel 2020.
Qui si ritrovano con quello che sembra essere il loro brano di debutto e si dimostrano subito caldi e precisi, tralasciando le asprezze a cui ci avevano abituato. La voce, i rintocchi, gli ornamenti leggeri che reggono una canzone sono un bellissimo inizio. Luci violacee, un tappeto di suono che rimane discreto, ma intenso e avvolgente. La sala rimane in semioscurità per tutto il corso del video e l’impressione è quella di un’eterna sospensione: tasti e corde, vibrazioni che non intaccano il nostro scollamento dalla realtà ma, anzi, ci guidano in una fase onirica che si allunga per tutta la durata del pezzo.
Si sentono riferimenti stilistici che pescano dai momenti migliori di Chicago e Boston dei decenni passati e si forma la certezza che, qualsiasi cosa vorranno fare in futuro, saranno sempre nelle posizioni di spicco. Intanto, ancora una volta, down the line.
Cemetery Skyline: In Darkness
Mikael Stanne è decisamente uno che non batte la fiacca. Disco in arrivo con i Dark Tranquillity, tour instancabile con i nuovi Halo Effect (Days of the Lost non era affatto male come disco) e ora si permette anche di aprire un nuovo – anzi, nuovissimo – progetto: i Cemetery Skyline. Ne avevamo bisogno? No. Ci piace? Decisamente sì.
Effettivamente la sua “voce pulita” ci era mancata, sotterrata sempre più da quella più “iconica”, quella che lo ha reso uno dei leader indiscussi delle grow vocals. Qui, in compagnia di Markus Vanhala (Insomnium, Omnium Gatherum, I Am the Night) alle chitarre, Santeri Kallio (Amorphis) alle tastiere, Victor Brandt (Dimmu Borgir, Witchery, ex Entombed) al basso e Vesa Ranta (Sentenced, The Abbey) alle pelli, siamo di fronte a un’effettiva superformazione che annovera tra le sue fila la crème de la crème del melodic death nordeuropeo.
Insieme a Violent Storm, questa In Darkness (di certo non si brilla per innovazione nei temi) ha pregevolmente colpito il nostro spirito che aleggia ancora nel chiodo impolverato in qualche armadio e le toppe di qualcuna di quelle band sembrano canticchiarne già il ritornello: «I don’t want this to be something I cannot control / The dark in our mind seem to take on a life of its own / With every day in an absence of light and time / I don’t want this to be / Don’t want this to be our lives / In darkness and out of control». Poche parole, pochi riff e qualche tastiera, ma il tutto pare auto-rinvigorirsi in un pezzo che funziona e che porta dietro di sé una storia specifica, fatta di successi, di lacrime e di tenebra, là dove (appunto) i Sentenced incontrano i Dark Tranquillity di Projector e il tutto suona (appunto) come un singolo nuovo degli Amorphis.
Il panorama cimiteriale qui rappresentato potrebbe funzionare come una delle perle discografiche dell’anno, anche e non solo per gli ex death metallers, ora ammorbiditi a livello di sonorità, con il colletto liso e le magliette degli Entombed scolorite. Per ora ci auguriamo davvero di riposare in pace in queste dolci tenebre, così familiari e così piacevolmente suadenti, in assenza di luce e tempo.
Demon Spell: Evil Nights
Il metal ha una radice che non ha subito tutte quelle mutazioni genetiche da cui nel tempo sono scaturiti rivoli di sottogeneri. Parliamo di una genesi che prende le mosse da un oscuro sostrato Black Sabbath fino ad arrivare ai Blue Cheer e ai Venom sul versante di una esasperazione delle tematiche. In questo senso i Demon Spell (Dario Casabona, Francesco Bauso, Federico Fano e Riccardo Liberti) si muovono negli anfratti del buio delle coscienze, in cui incubi orrorifici disturbano il sonno rendendo la notte una dimensione irrazionale perfetta per essere popolata da creature poco rassicuranti.
Evil Nights è il singolo anticipatore di un mini album che vedrà la luce (sigh!) il 26 luglio per i tipi della Dying Victims Production. La traccia si muove su un riff tipicamente Eighties di Francesco (chitarrista e fondatore degli Haunted), la voce riverberata di Federico ricorda il primo Ozzy quanto King Diamond, mentre la produzione è attenta nel mantenere una generale impostazione vintage. Esemplare è la sezione ritmica con il basso di Riccardo e il drumming di Dario (già batterista negli storici Schizo) con un uso strategico delle rullate e sporadiche incursioni telluriche in doppia cassa.
La violenza è volutamente caricaturale nell’attingere da un campionario splatter, con tanto di tombe scoperchiate, morti senza requie dai corpi scarnificati e vermi che sbucano dalle cavità orbitarie di teschi dissotterrati. Controparte visiva del progetto è il video montato con frame tratti dal film La maschera del demonio di Mario Bava del 1960. In fondo si tratta del recupero di una dimensione andata perduta, forse ingenuamente adolescenziale nel ricercare una propria identità e appartenenza, a costo di dragare le acque torbide di un occulto che, oggi più che mai, vorremmo facesse ancora paura.
Don Joe (feat. Annalisa, Ernia & Guè): Istinto animale
Don Joe fa le cose in grande chiamando a sé Guè, Annalisa ed Ernia per Istinto animale, ripesca Apache dell’Incredible Bongo Band e lascia che i due rapper facciano il loro, in maniera incredibilmente più misurata rispetto al loro solito, mentre lei si prende la scena con interventi nei quali l’istinto animale viene misurato nei termini di un’orecchiabilità innegabile, anche se meno cantabile del solito.
Cosimo resta sul classico, fra Supa Dupa e rassicurazioni alla propria bella, mentre Matteo si arrampica letteralmente fra marchi, nana e uno sguardo rivelatore. Don Joe lancia il beat, il suo nome in prime time, gioca con le mani gesticolando fra pistole e bombe, cucendo sotto le voci dei propri ospiti un tappeto comodo comodo per un singolo che ci ritroveremo per diversi mesi da qui in poi. Tutto fatto molto bene, per una classicità che, pur sembrando un compitino, visti i presenti, rimane un indubbio segnale della capacità di inserirsi nelle frequenze.
E quando brucerà Manhattan? Proveremo a seguire i consigli di Annalisa, per ritrovarci sani e salvi sul divano di casa sua.
Faun: Blot
Intanto bisogna fare attenzione perché di band col nome Faun, in ambito metal, ce ne sono almeno tre, tutte ultra-underground e probabilmente ultra-schiattate nel dimenticatoio elitista black metal. Questi di cui sto segnalandovi il brano sono tedeschi, fanno pagan folk e per quanto abbiano un’attitudine veemente, wagneriana e squisitamente teutone, non si definiscono e non sono compresi nella valanga di omonimi di settore heavy estremo.
Ecco un assaggio notevole di come il folk possa andare oltre il caratteristico e tipico specchietto per nostalgici di un tempo mai vissuto e mai esistito: ci sono i tamburoni, i cori a pieni polmoni e l’atmosfera forestale delle grandi occasioni equinozie o solstizie, che siano. Eppure non vi fermate alle apparenze perché il pezzo è un’esperienza quasi fungoidale, per alludere all’allucinogeno spinto giù per la vostra gola, passando dalle orecchie anziché dalla bocca.
Blot è come un calderone pieno di suoni che viene sapientemente sgommarellato da qualche vecchia sacerdotessa dall’aspetto eternale, che gira e gira fin quando nella spirale del guazzume folkish non si mescola tutto. Da quel momento, su per giù dopo i primi due minuti, accade qualcosa, e dal giro e rigiro che porta sotto ci si alza, finendo per fare la parte del cinghiale nella grande caccia degli dei nordici. Il ritornello a quel punto ci soffia via, verso vallate di nubi e di una obnubilante e celeste trenodia.
Hellbutcher: The Sword of Wrath
Gli Hellbutcher esordiscono proprio nel 2024, via Metal Blade, con un lavoro dichiarato black metal, ma che fa pensare molto più al thrash irrefrenabile dei primi Kreator, quelli di Pleasure to Kill, per capirci. Ovviamente dietro questo gruppastro di trucidoni, c’è gente con un curriculum zeppo di esperienze metalliche (Nifelheim, Bloodbath), il quale ha imbastito l’ennesimo progetto revivalista ma con il pepe al sedere a manciate. Nonostante le perplessità iniziali, infatti, va riconosciuto in un brano come The Sword of Wrath un tiro davvero frastornante.
Il metal di questi ultimi anni sembra non andare più né avanti né indietro. C’è chi rimane appollaiato in un determinato periodo storico, trascurando i doveri che il genere impone fin dalla sua nascita, vale a dire seminare, non evolvere verso l’alto delle classifiche divenendo i “Nuovi Metallica”, ma spargendo nelle nuove generazioni un sottile veleno di renitenza culturale. Direi che nel caso degli Hellbutcher, quella vena corrosiva e sgocciolante di acido dissidente stilla dal randellante brano di apertura di un disco intitolato fantasiosamente con il nome stesso del gruppo.
La scelta di tornare ai concetti basilari, recuperando una specie di innocenza perversa e malsana che era tipica dei ragazzini disadattati di fine anni ‘70, cresciuti a pane vecchio e cinema di serie B, a riviste di cronaca nera e qualche brutto compendio satanesco, prosegue l’utopia dell’heavy odierno, destinata a fallire ovviamente. E gli Hellbutcher rappresentano questo idealistico ritorno al futuro che non cambia niente per cambiare tutto (parafrasando a testa in giù il povero Tomasi di Lampedusa) e il suo “Gattobardo”.
Joe Ghatt: Pale Blue Dot
Groove, mossette, un sentore degli anni ‘80 più leggeri e freschi per un personaggio che sembra avere le carte in regola per cambiarci umore in cinque minuti: quello che, ascoltandolo alla radio, ci costringe ad alzare il volume accennando un passetto sul posto. Trattasi di Joe Ghatt, neozelandese e autore nel 2019 di un disco di debutto, Banana Sludge, che gli ha permesso di girare il continente oceanico incrociando spesso le serate con i beniamini Allah-Las.
Ora è tornato, cinque anni dopo e, anche se ancora non ne conosciamo progettualità e mosse, siamo incapaci di resistergli. Guisa sottratta a uno Stone Roses di picchetto, arrangiamenti fiatistici e un brano che è una nuvola dolce di musica pop: tastierine che si aprono come ripetitori verso lo spazio, in attesa di un contatto con civiltà che possano propagare il suo messaggio a tutte le popolazioni dell’universo, finalmente unite in una danza leggera ed elegante, proprio come il nostro amico Joe.
Nulla di più e nulla di meno, per tre minuti e rotti che hanno pochi rivali in materia di roba orecchiabile e che sarebbe un delitto non riversare su un mixtape da sfoggiare nel migliore dei party: le vibrazioni più positive che si possano immaginare e la sensazione che potremmo ballare fino alla fine del mondo queste piccole gemme.
Tancredi Bin: All'Apice
Da Bologna, Tancredi Bin ci prende per mano tornando in un passato nel quale suggestioni battistiane si perdono in una nebbia caleidoscopica, giocando fra canto e parlato, scatti strumentali drammatici a tratti e leggiadri un secondo dopo.
Conosciuto nella scena come batterista metal, cambia abito svelando vis da cantautore d’altri tempi. Ce lo immaginiamo a giocare e a comporre in un luogo fuori dal tempo riuscendo perfettamente a centrare il bersaglio di un primo singolo. Incuriosisce, fa sì che facciamo ripetutamente ripartire il player prescelto dopo i tre minuti scarsi di durata, ci regala un’immagine astratta come sfondo e una sorta di Super8 che scorre nella nostra mente con immagini di un passato forse non del tutto vissuto ma che si mischia alle nostre memorie.
Composta a quattro mani insieme a Simone D’Avenia (che i più attenti ricorderanno come collaboratore in Nou, splendido esordio di BLUEM lo scorso anno), ha il potere di farci dinoccolare candidamente al mattino. Tancredi ci trasporta insieme a lui e noi seguiamo il testo – come da indicazioni – ricreando quel che succede: segno di affabulazione, fascino e stregoneria.
Difficilissimo capire come e dove andrà a parare Tancredi Bin: ne sapremo sicuramente di più all’ascolto del suo esordio che dovrebbe arrivare intorno all’inizio dell’anno nuovo, ma di certo non perderemo le sue tracce. Mi Ami 2024 intanto, poi si vedrà.
Trentemøller: A Different Light
L’elettronica di Trentemøller non si è mai accasata da nessuna parte: sempre contaminata e sfuggente, sempre pronta a farsi ingravidare da quel crocevia di correnti che taglia e interseca un genere la cui estensione è praticamente incalcolabile. Sarà per quello che la dimensione eterea toccata da Memoria – e annusata inizialmente in Obverse – pare proprio rimarcare un ricercato checkpoint nella discografia del musicista danese, un punto di “stallo” che sa di arrivo, di locus amoenus ardito e finalmente raggiunto.
Eh sì, il sesto sigillo è uno di quei dischi che difficilmente si possono dimenticare, soprattutto perché teletrasporta definitivamente Dísa Jakobs dentro al mondo trentemølleriano, da lì membro acquisito della band sia on stage, che in studio. Una voce pazzesca, onirica, carezzevole, alla quale vogliamo aggrapparci per presentare il delicato singolo A Different Light, opener del nascituro Dreamweaver.
Ci sentiamo dentro il sospiro dei venti del nord e il mormorare delle maree, questo fruscìo che si gonfia e ondeggia, mentre una chitarra acustica pare tratteggiare il loro punto d’incontro. È un attento dialogo con il freddo della natura e con il calore dei pensieri, il resoconto di una metamorfosi, quella interiore, che sussurra la sua volontà di concretizzarsi: lo fa con la transizione/trasformazione nei synth arpeggiati, con quegli abbracci vocali dell’ugola islandese che si fanno via via più stringenti e luminosi, con l’ambient che si espande, sposa e ammanta la docile veste dream folk che veglia sul brano.
È scavalcare le ferite, meditare su ciò che vive e ciò che muore, spostandosi più in là: captare quella luce inconsueta, quella che fa calare il buio su ciò che conosciamo e che scoperchia quello che vogliamo ancora inglobare.
Ulcerate: To See Death Just Once
Nonostante il death metal sia ormai marcito in un congelatore senza spina, contenente lombate di luoghi comuni, costine stereotipe e macinato sonoro revisionistico, c’è ancora una piccola schiera di gruppi capaci di esprimere il sentimento oltre la povera carne in pasto ai vermi, vale a dire la vera filosofia, l’estetica carnivora del genere, senza guardare indietro o di lato. Gli Ulcerate sono tra questi esemplari in via d’estinzione.
To See Death Just Once non è semplicemente un brano death metal ma un tugurio di immondizia nucleare che ancora speriamo sia la nostra gola e da cui ci ostiniamo a chiedere ossigeno. Le chitarre, la batteria e il growling di Paul Kelland polverizzano il brano nel mentre avanza lungo i suoi otto minuti. Le note sembrano insetti disperati che si arrampicano su un muro decrepito, inseguiti dalle fiamme di un inspiegabile incendio. Ciò che la voce lascia in coda al brano è l’eco di un crollo costante e irrefrenabile.
Il metal degli Ulcerate riesce a congelare in lunghe composizioni, l’oro nero che gli incubi ci lasciano sulle dita al risveglio. Ne nascono dei manufatti deformi, pazzeschi che ci attendono ai piedi del letto. Raccontano la distruzione di un mondo di ombre, che svanisce e riappare alle nostre spalle. In fondo la vita è morire, ogni secondo, ogni battuta singola di un pazzesco pezzo in blast beat è un respiro in meno per noi e un passo avanti per la Nera Signora.