[Storie] Amore malato e pop moderno: i Soft Cell negli anni Ottanta
Quando l'apparenza inganna
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Una storia dove il successo avrebbe potuto stritolare una band dopo il primo album e per poco non ci è riuscito. La storia di chi ha reagito ed è ancora tra noi. La storia di Marc e Dave.
Conform to deform
Per quanto i diretti interessati possano aver fatto, l’appassionato medio lega certi nomi a un unico brano. Tutti conoscono Al Stewart e Year of the Cat, Don McLean sarà in eterno l’autore di American Pie e Ralph McTell quello che ha scritto Streets of London. Anche se dietro ci sono carriere degne di nota, è dura sottrarsi all’opinione comune e il più delle volte fatica sprecata. Non ditelo a Marc Almond e Dave Ball, che hanno dovuto scontare il trionfo di una canzone – non serve che vi diciamo quale, vero? – e la diffidenza della critica.
Destino comune alla gran parte delle coppie “voce più sintetizzatore” che nei primi anni ‘80 decoravano con lustrini e caramello la ricetta di Alan Vega e Martin Rev, quando in realtà il loro caso era più complesso. Per questo il trattamento riservato a Non-Stop Erotic Cabaret appare oggi frutto di preconcetti legati più al come che al cosa (ovvero: anche per maneggiare un synth serve talento e la chitarra è comunque un “oggetto” tecnologico) e all’incapacità di cogliere il portato della dance culture newyorchese.
Ciò nonostante, la storia ha dato ragione a chi possedeva sostanza e l’abilità a smontare il “gioco pop” dall’interno. Seguendo la filosofia del loro manager, i Soft Cell si sono conformati per deformare: usando la messa in scena emotiva del pop più nobile come un grimaldello, hanno conquistato le classifiche mescolando realtà e metafora in un pugno di dischi che reggono egregiamente lo scorrere del tempo.
Artisti genuini in un’epoca spesso votata all’artificio, Almond e Ball – cognomi da romanzo, non a caso – hanno demolito pregiudizi e tabù con una nuova forma di bellezza sempre in grado di meravigliarci. Oltre a Tainted Love c’è di più. Basta saperlo ascoltare, ma soprattutto sentire.
Stories of Mark and Dave
Le apparenze ingannatrici, qui, sono ovunque. Basta pensare alle canzoni, che avvolgono il lato oscuro e le fragilità dell’esistenza, dei sentimenti e della società in un arredo sonoro dove il taglio avanguardista emerge alla distanza. Quanto agli artefici, l’armonia che li lega scaturisce spontaneamente da personalità in teoria opposte e viceversa complementari: se il cantante maudit custodisce i santini di Lou Reed e Marc Bolan, di David Bowie e Syd Barrett, di Scott Walker e Jacques Brel, è grazie ai Kraftwerk che il compare ha visto la luce sulla via del Northern Soul.
Politecnico di Leeds, 1977: in un ambiente aperto alle novità, i ragazzi fanno amicizia sulla base dei corsi d’arte e della provenienza da città costiere del Lancashire, dove fin da piccoli hanno respirato la decadente malinconia del mare d’inverno e l’eccesso ironico del camp. Quella la scintilla che decontestualizza il “cattivo gusto” per conferirgli altri significati e, nello specifico, salda Oscar Wilde, John Waters e il kitchen sink realism a una concezione eclettica del pop. Prima di tutto ciò, Marc bazzica i varietà di provincia da adolescente che difende la propria diversità con un’attenzione per l’aspetto esteriore che manipola i gender.
Avanti veloce: un giorno Ball sta smanettando su un sintetizzatore usato in una stanza dell’istituto, quel tipo strambo ma con l’aspetto da potenziale star gli si para davanti e chiede di aiutarlo nelle performance in cui reinventa il cabaret di Weimar. Da lì passano a canzoni in scia ai Suicide e nel 1980 l’autarchico EP Mutant Moments intriga Stevo Pearce, eccentrico che li scrittura per Some Bizzare spuntandola su Daniel Miller e affidando loro la supervisione della cantilena The Girl with the Patent Leather Face per il Some Bizzare Album.
Il balzo quantico lo compie il primo singolo: nell’81, sul retro di A Man Can Get Lost, la cavalcata stranita e straripante da argini synth-funk di Memorabilia funge da cerniera tra pubblico bianco e nero su entrambe le sponde dell’Atlantico con la sua acid house ante litteram. Il testo è incentrato su un ossessivo collezionista, ma alla Phonogram – che distribuisce il marchio del giovanissimo Stevo – non se ne accorgono e concedono il lasciapassare.
E poi, nel bene e nel male, Tainted Love cambierà la vita al duo.
In strict tempo
Un tormentone irresistibile, lo scarno rifacimento di una vecchia chicca Northern Soul cantata dalla futura signora Bolan, Gloria Jones. Nell’immaginario comune, tuttavia, appartiene ai Soft Cell da numero uno planetario che soggiorna quarantanove settimane nella graduatoria americana, strappando il record a Rock Around the Clock di Bill Haley e inaugurando la seconda British invasion. I Nostri, ribaltando la prospettiva di una canzone di “non amore”, definiscono una formula presto stemperata da frotte di slavati damerini e pensano a un 33 giri con Mike Thorne, l’uomo che con mano esperta ha limato i loro angoli più acuti.
Intanto cercano di fuggire dal fracasso inatteso generato da Tainted Love, già più croce che delizia. A Top of the Pops Almond esagera con trucco e abbigliamento e, come Ziggy Stardust, parla a chi sta uscendo allo scoperto: il rovescio della medaglia sono l’omofobia e una fama che catapulta il privato in prima pagina. I ragazzi si difendono con un pizzico di cinismo perché in tasca hanno un biglietto per New York, dove Thorne li aspetta e dove le mille luci (più che altro, le ombre) della città lasceranno il segno.
Con Stevo occupano un appartamento a Manhattan, presso gli studi Mediasound cavano il massimo dal budget limitato e dedicano i weekend a una baldoria propulsa dall’ecstasy (ancora legale e sconosciuta oltremanica) che si protrae in sala d’incisione. Quando fa le ore piccole al Danceteria, incontra Andy Warhol e perlustra i locali gay e sadomaso, Marc si sente a casa via da casa e alle richieste di una nuova hit contrappone Bedsitter, anticipo di New Order che con Tainted Love traina un disco multiforme nella sua compattezza.
Insieme allo standard compositivo e a sonorità subito prese a modello, il pregio di Non-Stop Erotic Cabaret sta in una disinvoltura che risolve i dualismi: l’esaltazione chimica della Big Apple e il grigiore dell’Inghilterra thatcheriana, l’ordinarietà e le sordidezze, i sogni e la spazzatura. A raccordarli provvede un’espressività rifinita nei dettagli, attuale proprio perché consapevole del passato da cui discende.
A fine ‘81, questo ibrido di Moroder e Kraftwerk dal cuore di panna e neon conosce vertici negli Smiths tecnologici della dolceamara Say Hello, Wave Goodbye, nell’agitato R&B al silicio Frustration, in una Seedy Films morbida e morbosa, nella Youth che spedisce Scott Walker tra i solchi di Radio-Activity, tuttavia non valgono meno l’istrionica Secret Life, i frenetici quadretti Entertain Me e Chips on My Shoulder, il martellante tuffo nel vizio Sex Dwarf. Contraddizione per contraddizione, Non-Stop Erotic Cabaret vende a palate e si puntano orizzonti ampi, anche se arrivarci sarà più complicato del previsto.
Extended parenthesis
Colto di sorpresa, il “sistema” reagisce. Un video girato da Tim Pope per Sex Dwarf è (e resta tuttora) bandito dalla BBC, suscita scandalo ed ecco quella che pareva una meteora gettare sabbia nell’ingranaggio e affrontare la pressione con un’acrobazia. Al pari del coevo Love and Dancing degli Human League, l’album di remix Non Stop Ecstatic Dancing si dimostra vincente sebbene il gruppo (che sul piatto getta anche What?, altra cover pescata dal serbatoio Northern Soul) non possa avvalersi dei tanto bramati DJ newyorchesi.
Poco male, siccome il remake/remodel è condotto a estreme conseguenze sfondando una porta nella quale si getteranno a decine. Ai Soft Cell la veste espansa (una potenziale trappola, se non si hanno le idee chiare…) risulta ideale per uno slancio ritmico danzabile sul quale sperimentano con le atmosfere e la narrazione, allestendo un laboratorio dove le trame si espandono al di là della pista da ballo.
Ragione della naturalezza è il lavoro di Dave, che con un procedimento “dub a rovescio” costruisce i brani nella dimensione ampia per poi accorciarli. Di conseguenza nulla suona posticcio, come dimostra il CD del cofanetto Keychains and Snowstorms, dove le esplorazioni brillano del medesimo eccitante acume che rende significativo Non Stop Ecstatic Dancing. Nel frattempo si riordinano le idee, chi con la fidanzata e chi con Marc and the Mambas. Gli effetti della mossa non tarderanno a palesarsi.
This last night…
Quanto l’aria sia cambiata lo spiega un 45 giri uscito a cavallo tra gli album. Torch inventa i Pet Shop Boys e Insecure Me sistema l’auto-psicanalisi su un groove sofisticato, senza curarsi di chi vuole confinare a fenomeno per teenager una band sotto stress, che consuma droghe in quantità e frequenta Genesis P-Orridge e Peter “Sleazy” Christopherson. Una band che, scontenta di un LP ritenuto troppo “pulito”, ha nel cassetto materiale spigoloso. La maturità rappresenta quindi una delle chiavi di lettura di The Art of Falling Apart, accanto a una ruvidezza rivisitata con mezzi e ispirazione nuovi e a un fosco stile electro-rock, che pone in risalto la con-fusione tra autobiografia e personaggi e il senso di narratività “filmica” delle canzoni.
Tornati a New York, nell’estate 1982 i Soft Cell alzano l’asticella: sfruttano un parco strumentale arricchito, nelle pause si calano acidi guardando Shining e forgiano l’anello di congiunzione tra Hendrix e i Suicide. Considerando la qualità del materiale, valutano l’ipotesi del doppio LP, ovviamente respinta: puntate allora il CD datato 1998 per il favoloso Hendrix Medley che scompone Hey Joe, Purple Haze e Voodoo Chile in cascate di cocci elettro-funk, l’odissea che omaggia George Romero tramite i Cabaret Voltaire di Martin, una Barriers sospesa tra le rarefazioni di Low e i tardi Japan e l’incalzante soul-wave It’s a Mugs Game.
Benché confinati nel gennaio seguente su un 12” incluso nelle prime copie del vinile e sui lati B dei singoli, costituiscono parte integrante di un’opera che induce a tracciare paralleli con gli Associates per l’ambizione coronata e un linguaggio progressivamente incupitosi. Trame dense ed equilibrate, seduzione subliminale e perfetta impaginazione benedicono l’ipnosi disco Forever the Same, il mélo che rivernicia Sandie Shaw di Where the Heart Is e una Numbers che nasconde la disperazione in una centrifuga art-funk.
Se Kitchen Sink Drama gioca a carte scoperte mostrando la via ai Pulp attraverso incastri di piano, synth minacciosi e polaroid di desolazione suburbana, l’inquieta giostra Heat guarda a Brel e a Tennessee Williams e l’aspro gotico industriale Baby Doll parte da Siouxsie per insegnare il mestiere ai Nine Inch Nails, mentre al riluttante inno Loving You, Hating Me risponde la sapiente articolazione di una riassuntiva title-track. La somma fa il totale, il totale restituisce un capolavoro.
…at the disco
La sofferta magnificenza di The Art of Falling Apart permette ai Soft Cell di voltare le spalle alle charts, invase da mediocrità che di loro hanno colto la mera buccia. Benché l’etichetta non lo promuova, il disco incassa i panegirici di una stampa che si è messa al passo e ottiene la terza piazza nazionale, eppure alla coppia importa poco o nulla. Dicono no a un tour di spalla a Bowie, si rifiutano di eseguire Tainted Love dal vivo e sono molto arrabbiati.
Il punto di non ritorno viene raggiunto quando Marc, allo stremo psicofisico e all’apice del consumo di additivi, minaccia un giornalista per una recensione negativa e distrugge un ufficio della Phonogram, rea di aver edito Numbers su singolo accoppiandola a quella canzone. Va da sé che “l’arte di cadere a pezzi” si risolva in un colpo di coda dopo che Ball ha pubblicato l’interessante In Strict Tempo. Nell’anno di Orwell i due tirano un calcio in faccia al mondo, profondamente punk nello spirito e talvolta pure nella forma.
Registrato in mono nel pieno scintillare new pop, This Last Night… in Sodom va controcorrente con l’impasto di cyber-wave, pop’n’roll e moderna chanson che (non) ti aspetti. Le coraggiose, sporche però in qualche modo elaborate Mr. Self Destruct, Meet Murder My Angel, The Best Way to Kill e Soul Inside sfiorano i Top 10, chiudono la trilogia “classica” e gettano ponti tra New York e Düsseldorf. Il resto lo fanno Phil Spector sulla soglia del Duemila (Little Rough Rhinestone), cartoline spedite a Johnny Thunders (Down in the Subway), avveniristici bagliori di Primal Scream (Slave to This, Where Was Your Heart) e fascinosi deliri latini (L’Esqualita).
Uscita di scena migliore non poteva darsi per un “hello” alla classe dell’Almond solista e di Ball, attivo come produttore e nei preziosi Grid. Con ineffabile e sardonica eleganza, i Soft Cell riappaiono nel terzo millennio, un po’ celebrandosi e un po’ tastando il polso all’attualità in apprezzabili album. Rimpatriata una volta tanto non inutile, poiché sottolinea come, dopo quattro decenni, un patrimonio di passione e intelligenza sia stato compreso. L’ultima risata, insomma, spetta a Marc e Dave. Soltanto loro conoscono il segreto di quell’epocale da dink-dink, e così sia.
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