[Storie] Gli Hüsker Dü, Zen Arcade e un anno importante: il 1984
Perché la rivoluzione comincia da quattro facciate di vinile.
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Un capolavoro lo riconosci dal coraggio, dalla fantasia, dall’ambizione, dalle regole che si scrive da sé. Ma soprattutto, da quanto resta dentro la testa e il cuore anche se sono trascorsi quattro decenni dal giorno in cui è uscito.
Artista: Hüsker Dü
Titolo: Zen Arcade
Anno: 1984
Tracklist:
Something I Learned Today – 1:58 (testo e musica: Bob Mould)
Broken Home, Broken Heart – 2:01 (testo e musica: Bob Mould)
Never Talking to You Again – 1:39 (testo e musica: Grant Hart)
Chartered Trips – 3:33 (testo e musica: Bob Mould)
Dreams Reoccurring – 1:40 (musica: Bob Mould, Grant Hart, Greg Norton)
Indecision Time – 2:07 (testo e musica: Bob Mould)
Hare Kṛṣṇa – 3:33 (musica: Bob Mould, Grant Hart, Greg Norton)
Beyond the Threshold – 1:35 (testo e musica: Bob Mould)
Pride – 1:45 (testo e musica: Bob Mould)
I'll Never Forget You – 2:06 (testo e musica: Bob Mould)
The Biggest Lie – 1:58 (testo e musica: Bob Mould)
What's Going On – 4:23 (testo e musica: Grant Hart)
Masochism World – 2:43 (testo e musica: Bob Mould, Grant Hart)
Standing by the Sea – 3:12 (testo e musica: Grant Hart)
Somewhere – 2:30 (testo e musica: Bob Mould, Grant Hart)
One Step at a Time – 0:45 (musica: Bob Mould, Grant Hart)
Pink Turns to Blue – 2:39 (testo e musica: Grant Hart)
Newest Industry – 3:02 (testo e musica: Bob Mould)
Monday Will Never Be the Same – 1:10 (musica: Bob Mould)
Whatever – 3:50 (testo e musica: Bob Mould)
The Tooth Fairy and the Princess – 2:43 (musica: Bob Mould)
Turn On the News – 4:21 (testo e musica: Grant Hart)
Reoccurring Dreams – 13:47 (musica: Bob Mould, Grant Hart, Greg Norton)
Formazione:
Bob Mould – voce, chitarra elettrica e acustica
Grant Hart – batteria, percussioni, piano, cori
Greg Norton – basso, cori
Generazione “B”
Partiamo da un dato di fatto: nell’arco evolutivo della musica e della cultura popolare, ogni generazione ha i suoi Beatles. Quelli che, quando se ne vanno, scavano una voragine dove gioia e malinconia finiscono per confondersi. Quelli che, anche se la separazione non è stata una passeggiata (ma quale lo è?), ti lasciano in dote dischi preziosi, che non appassiscono e mantengono vivi i ricordi. Metto subito le mani avanti: questa è una delle rare volte in cui mi concedo una finestra autoreferenziale. Prometto di tenerla al minimo sindacale e di evitare la nostalgia un tanto al chilo, ma – come già per gli Smiths – mi sembra una prospettiva adatta per scrivere di chi ha contribuito a indirizzare i miei giorni su certi binari. E magari, chi lo sa, un sorso di amarcord contestualizza meglio l’oggetto di questo articolo, allorché risalgo la corrente a metà anni ‘80 e alla fortuna di crescere con tanti fratelli maggiori cui potermi rivolgere.
Se preferite, chiamateli amici fidati: Lloyd Cole, Moz e Marr, R.E.M., Sonic Youth, i signori Grant Hart, Bob Mould e Greg Norton al secolo Hüsker Dü. Una magnifica rete di protezione che, incarnando diverse maniere di porsi davanti al mondo e affrontarlo, consegnava dei vademecum che avevano un sapore unico, nessuno escluso. Perché artisti del mio tempo di siffatta levatura annullavano la distanza tra noi e, nell’età di passaggio per antonomasia, il conforto che ne ricevevo risultava viepiù caldo e le risposte ai grandi quesiti erano credibili. Non mi stancherò mai di ripeterlo: in anni che non sono stati soltanto edonismo, c’era voglia di militanza e di danza. Nello specifico, di un pogo che diventa via via meno forsennato per aprirsi al senso della melodia, a un bagaglio di influenze inedite, all’unione di intelligenza e vigore che riconosci nei veri – e perciò venerati – maestri. In chi guarda indietro, avanti e attorno a sé nello stesso istante in cui scatena rivoluzioni.
Accanto ai compagni di avventure e scuderia Minutemen e Meat Puppets, gli Hüsker Dü erano un trio strabordante power che poggiava le idee sull’economia di mezzi, sulla puntualità di analisi, su opinioni nelle quali rispecchiarsi. Scriveva un giornalista britannico che la loro musica «spaccava il cielo in due»: definizione perfetta, alla quale mi permetto di aggiungere che, dentro a quella frattura, i ragazzi gettavano un bagaglio di emozioni e visioni dritto dal (e al) cuore. Sono stato fortunato – siamo stati fortunati – ad avere una certa età in quegli anni importanti.
Da Minneapolis con furore (ma non solo)
A proposito di Fab Four, non sono poche le analogie che possiamo tracciare con i nostri eroi. Ad esempio: un percorso breve, frenetico e prolifico che li avrebbe consegnati alla storia però pure schiantati. Poi l’addio, doloroso per i diretti interessati e i fan che, di punto in bianco, notano la fallibilità umana negli artisti. Infine, cordone ombelicale, Helter Skelter che nel ‘68 inventa l’hardcore punk e sarà rinsaldato dagli stessi Hüsker Dü in una scintillante rilettura. Casomai voleste un triangolo, aggiungete i Nirvana, impossibili da concepire se postuliamo la non esistenza dei quattro più famosi di Dio e del trio del Minnesota. Netto l’ascendente beatlesiano su Kurt Cobain, che non avrebbe potuto innescare l’epocale e involontario rovesciamento che sappiamo senza il precedente di un gruppo dalla comprovata rispettabilità alternative che passa a una multinazionale e, senza compromessi, recapita un secondo capolavoro.
In retrospettiva, Zen Arcade e il commiato Warehouse: Songs and Stories appaiono allo stesso tempo uguali ma diversi: un biennio e un tris di ottimi LP li dividono, a legarli sono il formato “importante” del doppio album e la reciproca necessità. Uno non potrebbe darsi senza l’altro, benché la vera differenza stia nella maturità scolpita con cognizione e sicurezza viepiù pronunciate del secondo, laddove Zen Arcade nasce dalla (in)coscienza di desiderare il cambiamento e concretizzarlo. Ovvero, nell’ineffabile “consapevolezza in divenire” che funge da elemento coesivo e da ingrediente segreto che, esaurito il suo compito, non tornerà più.
Forse è a causa del clima che taglia la faccia senza convenevoli e per il tentativo di esorcizzarlo che i gruppi rock di Minneapolis sono ruvidi per vocazione, fin dagli anni Sessanta in cui i Litter spargevano quantità industriali di fuzz in un rabbioso garage punk. Proprio fondendo la parola di quattro lettere (secondo l’accezione del ‘77: Ramones e Buzzcocks i numi tutelari) con un’inventiva memore del decennio favoloso che due leader/compositori/cantanti e un paciere costruiscono la grandezza. Questione di passioni comuni e amicizia, all’inizio. Lo studente classe 1960 Mould incontra Grant (di cinque mesi più giovane) nel negozio di dischi dove costui lavora a St. Paul: amano i Ramones, sanno cosa è accaduto prima del punk e hanno voglia di esprimersi. Corre il ‘79 allorché Bob si occupa della chitarra, Hart siede dietro tamburi e piatti e la sua vecchia conoscenza Norton imbraccia il basso.
Dopo aver suonicchiato con un tastierista, se ne liberano, cambiano stile e, ispirati da un gioco di memoria il cui nome significa “Ti ricordi?” in alcune lande scandinave, si ribattezzano Hüsker Dü per sfuggire a ogni prevedibile schematismo della “chiesa” hardcore. Va insomma contro l’ortodossia chi fa un casino infernale nella cantina di Norton e sui palchi cittadini. Molto più che in un 7” su Reflex dove Statues dipana agitazione punk-funk in jazz e Amusement profuma della tristezza che abiterà nei dintorni di Seattle, laddove è assai più estremo l’LP Land Speed Record messo fuori a inizio 1982 da New Alliance, marchio gestito dagli amici Minutemen: mezz’ora scarsa lancinante e furibonda dal vivo dove l’ombra di una regola previene il caos.
Dietro l’angolo la attende un progresso di suoni che vanno stratificandosi, di attenzione e cura per le melodie e le strutture integrate all’ampliarsi delle influenze. Non dormono mai, i Nostri: se non girano in tour, li trovi in studio. Nell’83 Everything Falls Apart sparge indizi di crescita graditi a Greg Ginn dei Black Flag, che li accoglie alla SST ed è ringraziato con lo splendido “mini” Metal Circus e la determinazione a puntare più in alto. A otto miglia, citando il brano dei Byrds scelto per il 45 giri che nella primavera 1984 preannuncia la svolta. Liricissima, incandescente cover che contiene la chiave metodologica e stilistica di Zen Arcade, in base alla quale il passato va trasfigurato e adattato al qui e ora per conservarne lo spirito. Messaggio fondamentale affidato a uno dei più grandi singoli di sempre, nondimeno il bello deve ancora arrivare.
Lo zen e la sala giochi
Stando alle dichiarazioni rilasciate nel 2019 a Stereogum da Bob Mould, Eight Miles High appartiene alle sessioni di Zen Arcade ed è pubblicata perché la band non voleva estrarre brani da un disco in arrivo, ambizioso e da ascoltare per intero. Non è l’unica caratteristica sconvolgente di quanto inciso ai Total Access di Redondo Beach (California) con Spot, produttore di casa SST. C’è infatti quel concept che rappresenta un anatema: tuttavia, a dimostrazione che il male non è nel mezzo in sé ma nell’uso che se ne fa e nell’approccio che sta a monte, gli Hüsker Dü lavorano per suggerimenti attorno a ciò che raccorda settanta minuti e venticinque secondi. E che, guarda caso, è pressappoco la vicenda di un ragazzo che sta salutando l’adolescenza…
Ne beneficia in pieno un lavoro solo apparentemente monolitico, dove la coesione invece mostra aspetti cangianti a seconda dell’angolazione cronologica, stilistica ed emotiva ed ecco perché nella sua policromia tutto si tiene. Da queste qualità riconosci i capolavori, oltre che dalle idee innovative e da canzoni stellari: c’è tutto questo e molto altro in un monumento che, riscrivendo le regole, mappa territori inesplorati. Tramite il “famigerato” disco a tema, il terzetto volta le spalle ai cliché e imbriglia la potenza in un perfetto bilanciamento tra scrittura e sperimentazione. Assalti all’arma bianca, epidermico popcore, interludi meditativi, folk, post-psichedelia e rumore orchestrato vengono fuori di getto, quasi sempre al primo tentativo, mediando istinto e ragione in uno sforzo di ottantacinque ore, missaggio incluso.
Sotto il profilo compositivo la parte del leone spetta a Mould, benché Grant sfoderi le composizioni fino ad allora migliori, dall’imperiosa coralità acustica di Never Talking to You Again alla furia compressa di What’s Going On, passando per l’ipnotica disperazione di Standing by the Sea, l’orecchiabilità struggente di Pink Turns to Blue e un’iraconda Turn on the News. Quanto agli assi calati dal chitarrista, non c’è che l’imbarazzo della scelta: l’esaltante apertura Something I Learned Today, l’irruenza cupa e articolata di Chartered Trips, il metallo pesante/pensante di I’ll Never Forget You e The Biggest Lie, una Newest Industry tra Television e Black Sabbath e una Whatever che travolge in una scia malinconica.
E poi: tempeste alla rovescia (Dreams Reoccurring, The Tooth Fairy and the Princess), Bo Diddley in una pioggia acida (Hare Krsna), squarci di anima e ugola (Broken Home, Broken Heart, Indecision Time, Beyond the Threshold, Pride), abbaglianti gioielli Masochism World, Somewhere), sospensioni estatiche (One Step at a Time, Monday Will Never Be the Same). L’apocalisse tra raga (post-)rock, minimalismo e noise del fenomenale quarto d’ora di Reoccurring Dreams chiude i giochi, esortando a ripartire e consacrando l’underground a stelle e strisce.
Nello stesso anno i Meat Puppets consegnano II, i Minutemen – stimolati proprio dall’amichevole competizione con gli Hüskers – rispondono con un magnifico Double Nickels on the Dime e i figli del Minnesota Replacements sistemano la pietra miliare Let It Be. Intanto, mentre i R.E.M. confermano la propria statura, l’indie americano sboccia nel suo abbagliante fulgore. Il resto è storia non per modo di dire. Incluse le crepe che si insinuano in un organismo coeso, causate dalla smania creativa, dall’ego che alza la testa, da rapporti che scivolano in una monotonia di silenzi e malessere, da sventure e vizi.
Certi di non poter superare lo zenit artistico, nel 1987 gli Hüsker Dü calano il sipario. Ricordo lo stupore, il profondo senso di perdita. Ricordo che il tempo, galantuomo e alleato, avrebbe chiarito i contorni, rimarginato le ferite e spiegato l’inevitabilità della fine. Per quel che vale, non ho cambiato idea: sono convinto che il succo della questione siano quei dischi che parlano della vita ma si rivelano più grandi di lei. Dischi che mi tengo stretti, perché sono stato fortunato ad averci trovato me stesso.
Altre cose che abbiamo scritto
Traccia: Bob Mould: American Crisis
Traccia: Bob Mould: Lost Faith