[Storie] Gli unici due dischi dei Pale Fountains, che avrebbero meritato sorte migliore
Impressioni di un settembre di un po' di anni fa.
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Un uomo bersagliato dalla sorte che qualche grana se l’è andata a cercare, ma soprattutto un artista schietto e acuto, proprio come le canzoni che scrive. Signore e signori, ecco a voi Michael Head, da Liverpool per servirvi.
Dentro la testa di un genio
Ci troviamo qui per via del passato, e perché affascinati da ciò che riserva il futuro.
Intervista del Guardian, 2017
La scorsa primavera, fan e addetti ai lavori si sono imbattuti in un comunicato stampa che definiva il 2024 “l’anno di Mick Head”. Vero che la pubblicità è l’anima del commercio, eppure l’enfasi è pienamente giustificata: sarebbe infatti ora che il pubblico – perlomeno, quello che vanta un gusto superiore alla media – apprezzasse come si deve un alchimista che regala album fantastici da un’intera carriera, sbrogliata lungo alti e bassi e costellata da vicissitudini discografiche e umane, incredibili sfortune e riconoscimenti tardivi.
Guarda sempre e comunque avanti chi in maggio ci ha regalato Loopholes, ennesimo splendido LP dove per la terza volta appare sulla costina la ragione sociale Red Elastic Band. E ancora lui, in agosto, ha dato alle stampe l’autobiografia Ciao Ciao Bambino: A Magical Memoir, specificando che la genesi di entrambe le opere è correlata. Nessun dubbio in merito, l’occasione ci sembra perfetta per incuriosire coloro che finora hanno trascurato un talento che, sotto il profilo economico, sta finalmente cominciando a raccogliere in misura proporzionale alla semina.
C’è dell’altro, oltre a una tournée concepita come retrospettiva di un intero percorso autoriale: questi dodici mesi segnano il quarantennale della pubblicazione di Pacific Street, pietra miliare posata dai Pale Fountains della quale poco si scrive nonostante sia uno sfavillante saggio di peculiare guitar pop. Nella variopinta giostra di attualità, abbiamo deciso di raccontarne il rango elevato e lo status di classico misconosciuto che, in un solo colpo, simboleggia sia il destino che la statura dell’artista di Liverpool. Al netto della retorica da belli e perdenti, è vergognoso che canzoni profumate di sole, erba e salsedine rimangano patrimonio di pochi eletti, dunque eccoci a fare un pochino di giustizia.
Lo merita eccome, una meraviglia che dalla sua bolla atemporale ci spinge a ragionare su quali anni Ottanta sia corretto elogiare. Evitando ridicoli revisionismi, chi ha vissuto gli Eighties sa benissimo che sono stati tante epoche in una, quindi non si possono – anzi: non si devono – ridurre all’edonismo sfrenato, ai disastri sartoriali e al vacuo luccicare. Perché hanno consegnato materia pregiata anche alla voce “Pop”: con la maiuscola, certo che sì. Suo malgrado uno dei più grandi songwriters che la gente non conosce, Michael Head maneggia con estro ed estrema abilità i segreti della parola di tre lettere che più amiamo. Allora, che il 2024 sia davvero il suo anno: se geni un po’ si nasce e un po’ si diventa, non accade per caso ma per scelta.
Il cuore in mano
Un vento fresco spira dal Mersey. I Pale Fountains parlano con il cuore in mano.
Record Mirror, luglio 1982
La brezza tonificante dei Pale Fountains non sbuca dal nulla a rompere la nebbia del Mersey. Nato nel novembre 1961, Michael William Head appartiene alla “coda” della generazione che dona nuovo lustro alla tradizione cittadina trafficando con una psichedelia arty minimale inzuppata in febbri post-punk ed echi krautrock. Da par suo, frequenta lo stesso giro cui appartengono Julian Cope e Ian McCulloch, però approderà altrove seguendo una folgorazione chiamata Forever Changes.
Facciamo un passo indietro al Natale 1973. Il fanciullo, cresciuto ascoltando la radio, riceve in regalo un registratore portatile e una cassetta che in copertina mostra un alieno con un fulmine dipinto sul volto. La prima epifania è l’impossibilità di essere normali inscenata da David Bowie in Aladdin Sane, che diventa un’ossessione mescolandosi a Kinks, Byrds e Beatles. Poco meno di un lustro e arriva il punk: mollata la scuola, Head trascorre le giornate giocando a calcio e tenendo compagnia alla madre, che lo aiuta ad affinare la voce e lo incoraggia a mettere su un gruppo. Mentre guadagna due spicci con dei lavoretti, giungono altre rivelazioni: Magazine, Velvet Underground e Transformer, che chiude il cerchio su Bowie tramite Lou Reed.
Nel ‘78 Michael milita negli Ho Ho Bacteria di “Yorkie” Palmer, eminenza grigia locale (anni dopo capeggerà gli Space) che offre la cantina per ospitare le prove di Echo & the Bunnymen e Teardrop Explodes. In possesso di una vasta collezione di vinili, costui fa da mentore anche a lui e al fratellino chitarrista John. Affida loro una copia di Forever Changes dei Love, ne restano abbagliati e la consumano di ascolti e, imparandone ogni particolare, capiscono come rendere spontanea la complessità. Da lì a coinvolgere gli amici il passo è breve, e nel 1980 i Pale Fountains sfacchinano sugli autografi di Mick con Chris McCaffrey al basso e Thomas Whelan dietro tamburi e piatti.
La svolta nell’aprile ‘82, quando scendono a Londra per un concerto di spalla ai Dislocation Dance e, sulla base della comune adorazione per Arthur Lee, scatta un’intesa immediata con il loro trombettista Andy Diagram, accolto sul palco e poi stabilmente in squadra. Mica finita, siccome tra gli astanti figura Patrick Moore, che ha appena fondato una sussidiaria della premiata ditta Les Disques du Crépuscule e cerca gente interessante da inserire in scuderia. Adattissimi alla neonata Operation Twilight, il mese successivo i giovanotti hanno in carniere il 45 giri Just a Girl / (There’s Always) Something on My Mind.
Ricordando che il 12” della casa madre inverte i lati aggiungendo un’articolata Lavinia’s Dream che diresti pescata dai solchi di Da Capo, siamo davanti a una maturità di acusticherie limpide e cantato fragrante e spavaldo. Appropriatamente, il dischetto esce in estate incassando gli elogi della stampa e lambisce il fondo dei Top 30 indie. L’intesa è affinata in concerti dove nuove composizioni si alternano a cover di Walk on By, Scarborough Fair e Between Clark and Hilldale, e lo sfoggio di bravura e intenti non sfugge a John Peel né a svariate major. Prima del salto di categoria, c’è tempo per un tour con Cabaret Voltaire, 23 Skidoo, Tuxedomoon e Antena e per una bella rilettura di We Have All the Time in the World con Blaine Reininger al violino. È un addio. In ottobre ricevono un assegno di 130.000 sterline dalla Virgin, che li assolda pensando a una gallina dalle uova d’oro. E invece…
Esilio sulla strada pacifica
Come un album di successi, tranne che di successi non ne abbiamo avuti.
Michael Head, 1984
Rifletti sull’indifferenza e ti convinci che sia colpa della sfortuna, della gioventù dei Nostri e di una fiera caparbietà da working class hero che sta a monte di decisioni poco oculate, anche se è proprio grazie a quella tenacia che Michael ha risalito la china e oggi parla con franchezza delle passate dipendenze e degli incidenti di un percorso mai lineare. A proposito di scarsa oculatezza, l’irresistibile Thank You si arresta al quarantottesimo posto perché la band vuole comparire a Top of the Pops con un’orchestra. La BBC ritiene l’idea folle, ragion per cui addio successo a dispetto dell’ottima Palm of My Hand che a 45 giri ridicolizza gli Spandau Ballet con la supervisione da Alan Rankine.
Concentrate le energie sull’attesissimo 33 giri d’esordio, la lavorazione si trasforma in un’anticamera delle peripezie che vivrà Lee Mavers. Pur non raggiungendo certi deliri di nevrotico perfezionismo, il dilemma sta nel legare la purezza originaria del repertorio con trame più tonde e ricche: alla fine, un leader poco più che ventenne (!) riesce a tirare le fila di melodie cristalline e slancio tristallegro, integrando con naturalezza le chitarre acustiche e gli ottoni a sbuffi di elettricità e ricami di archi e tastiere. L’acrobazia rappresenta l’ennesimo parallelo con Forever Changes, tuttavia si è inciso in quattro studi diversi, le spese e le tempistiche sono aumentate e nel frattempo il clamore è svanito. Amaro destino per un gioiello che, trascendendo le influenze orgogliosamente sbandierate – all’epoca per nulla scontate – dei Love e di Burt Bacharach, disegna un’oasi di dolce malinconia pop a bagno in jazz e folk.
Gesto controcorrente nel pieno New Pop, Pacific Street poggia su un’aura romantica l’attenzione per i dettagli e canzoni di altissimo livello con l’aspetto di racconti brevi. Come Orange Juice, Aztec Camera e Smiths, cammina lontano dalle mode coeve e dal rock più muscolare, e di conseguenza, data l’età degli artefici, vive di un’adolescenza spirituale protratta dentro un’infinta soglia liminale. Uno spazio sonoro ed emotivo dove tutto è possibile, tra ricordi che sembra di aver vissuto, un’armonia che massaggia l’anima e il cuore, hit mancate all’insegna della «grezza, mordace innocenza» escogitata dalla rivista Sounds.
Descrizione assai centrata per un apparente ossimoro che sfocia in visioni di California che, caratterizzate da lievi brume british, non hanno perso un’oncia di smalto, dalla longilinea eleganza di Reach a una Something on My Mind rivisitata nel gioco di pieni, vuoti e tentazioni flamenco, dalla coppia di acquerelli morriconiani Faithful Pillow al magistrale inchino a Bacharach Abergele Next Time. Senza dimenticare il techno-pop unplugged in scia ai Tears for Fears di Unless, l’arazzo insieme rustico e ricercato Southbound Excursion, l’esuberanza stilosa del rock’n’soul Natural, il sofisticato vigore di (Don’t Let Your Love) Start a War, la sensazionale Beyond Fridays Field che immagina Miles Davis alle prese con “schizzi di Spagna” lisergici preconizzando i Boo Radleys, una Crazier felicemente indecisa tra pop cameristico e tropicalismi.
Indifferente il botteghino, alla Virgin battono cassa e il rapporto si guasta. Nell’85 …From Across the Kitchen Table segna la defezione di Diagram e l’ingresso stabile di John Head, spostando il baricentro sulle chitarre fra anticipi di Coral e dei James in cui rivedremo il trombettista, tra venature R&B e la vibrante passione della title-track, di Jean’s Not Happening, These Are the Things e Hey. La formazione si divide nel 1987, due anni dopo McCaffrey muore di tumore al cervello e Michael va incontro ad avventure da girarci un film (studi distrutti dalle fiamme, nastri persi e ritrovati, esibizioni con l’idolo Arthur Lee…) offrendo con le sigle Shack e The Strands gli imperdibili H.M.S. Fable, Waterpistol e The Magical World of the Strands.
Riferito dell’attuale stato di grazia, non resta che consigliare le raccolte di inediti e rarità Longshot for Your Love e Something on My Mind, che dei Pale Fountains restituiscono il ritratto esaustivo. Impossibile stancarsi di un cavallo di razza, signore e signori. Are you ready to be heartbroken?