[Storie] Guida a Bruce Springsteen in 10 dischi
Ok chiamarsi Boss, l'America, le stelle, le strisce e i milioni di copie venduti. Ma poi?
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di Eddy Cilìa
Eddy Cilìa distribuisce consigli per gli ascolti ai principianti assoluti: 10 album-simbolo per riassumere a grandi linee la carriera infinita di un uomo che, per sua stessa ammissione, era nato (negli USA – e dove altrimenti?) per correre sulle autostrade del rock, e da lì ha poi conquistato il resto del mondo.
Quando l’uomo “nato per correre” poneva mano a quella che se bisogna sceglierne una resta la sua canzone simbolo, Born to Run appunto, aveva ventiquattro anni, tre mesi e sedici giorni e non stupisca una tale precisione da parte di chi scrive: a cominciare dal primo e più autorevole, Dave Marsh, legioni di biografi ne hanno raccontato l’epopea. Sappiamo dunque cosa ha combinato costui praticamente in ogni singolo istante della sua vita almeno dal fatidico 2 maggio 1972 in cui il manager Mike Appel lo presentò per un’audizione a John Hammond, mito fra i miti dello showbiz potendo vantare di avere lanciato Count Basie, Benny Goodman, Billie Holiday, Aretha Franklin, Bob Dylan e Leonard Cohen, per limitarsi alle celebrità maggiori. Da lì a cinque settimane a un CV già senza pari aggiungerà il nome di Bruce Springsteen. Da subito cavallo di battaglia in concerti che ancora si tenevano in club e teatri piuttosto che in palasport e stadi, Born to Run per gli standard dell’epoca impiegava un’eternità a palesarsi al grande pubblico, venti mesi a momenti. Arrivava nei negozi il 25 agosto 1975, lato A di un 45 giri, in apertura di seconda facciata di un omonimo 33 che per l’artista nativo del New Jersey (e di origini italiane per parte di madre) era il terzo. Il 27 ottobre sarà in copertina sui due più autorevoli periodici statunitensi, Time e Newsweek, e di rado in precedenza un musicista si era ritrovato sull’una o sull’altra, figurarsi su entrambe e in contemporanea. Pareva un apice insuperabile per una carriera che, sempre considerando di quale era si parli, ci aveva messo tanto a decollare. Non sarà nulla rispetto a Born in the U.S.A., ai suoi trenta milioni di copie venduti in giro per il mondo (diciassette soltanto negli Stati Uniti) dall’uscita nel giugno ‘84. Rappresentano da soli il 20% del fatturato di un uomo chiamato The Boss in una carriera – discograficamente – ultracinquantennale.
Non però la ragione per la quale, a un’età in cui tanti comuni mortali sono pronti per una RSA, continua a correre, fedele al patto che sottoscrisse da giovane con il suo pubblico e che contemplava che si invecchiasse insieme. Regalando (OK, si fa per dire…) a un fandom che annovera ormai nipoti e magari bisnipoti dei cultori della prim’ora spettacoli che, come quelli su cui oltre mezzo secolo fa iniziò a costruire la sua fama, facilmente arrivano a durare quattro ore (OK, con un intervallo, ma è così da sempre…). Se non valgono show storici che comunque riescono nel miracolo di avvicinare per intensità ed energia (nonostante sfortunatamente manchino all’appello, in quanto mancati, co-protagonisti quali l’organista Danny Federici e il sassofonista Clarence Clemons: due sesti della formazione classica della E Street Band) è perché è d’uopo mettere in programma anche brani dai più recenti lavori in studio e il livello delle scalette si abbassa. Non essere severi con i campioni significa non rispettarli. È innegabile che della decina di lavori in studio dati alle stampe dentro questo secolo (e pure gli anni ‘90 dello scorso non furono esaltanti) giusto due avvicinino l’olimpica media su cui Springsteen si mantenne per un quindicennio. Di album come Western Stars (2019), collezione autografa inopinatamente fra country e pop orchestrale, e Only the Strong Survive (2022), viceversa tutta di cover e di soul, risulta apprezzabile più il tentativo di uscire da schemi risaputi che la riuscita.
Born to Run (Columbia, 1975)
È questo il luogo dove le promesse fatte da Greetings from Asbury Park, N.J. (gennaio 1973) e The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle (novembre stesso anno) vennero mantenute. Questo il capolavoro che giustificò infine le iperboli dei critici e la leggenda cresciuta attorno ai concerti. Un disco di rock classico e un classico del rock. Il primo con la E Street Band in formazione tipo, con il pianista Roy Bittan e il batterista Max Weinberg ad affiancare Federici, Clemons e il bassista Garry Tallent e il chitarrista Miami Steve Van Zandt a riscaldarsi a bordo campo, per poi entrare e segnare subito un punto decisivo con l’arrangiamento fiatistico di Tenth Avenue Freeze-Out. Il primo dalla produzione, se non esente da pecche, perlomeno accettabile. Il primo da cui non si potrebbe togliere nulla. Nonché l’ultimo dell’era Appel, il tempo degli equivoci, e il primo dell’era Landau. Album fra i più “cinematografici” che siano mai stati incisi, ricco di storie e personaggi che riuscirebbero a essere indimenticabili persino senza il supporto della musica, ma la musica naturalmente c’è ed un miracolo di sintesi: Phil Spector e Bob Dylan, Roy Orbison e i Creedence Clearwater Revival, John Lennon e gli Who, il rock’n’roll dei ‘50, soul e rhythm’n’blues dei ‘60, suggestioni latine. Tutto assieme, in un fluire di rimandi armonioso ed emozionante.
Darkness on the Edge of Town (Columbia, 1978)
Lo Springsteen del periodo aureo è perfetto pure nella scelta delle foto di copertina. Si osservi il Bruce sorridente e smargiasso di Born to Run e lo si confronti con quello tirato, stanco di Darkness on the Edge of Town. Li separano tre anni, l’ascesa allo stardom, la causa con Appel, una sopraggiunta maturità che ha reso il ragazzo ancora pieno di illusioni romantiche un adulto alle prese con domande ineludibili, più o meno tutte in rapporto con il Quesito per eccellenza degli Stati Uniti post-Kennedy: com’è che il Sogno Americano è andato in malora, e quando? Domanda che non permette, per citare il ritornello della struggente Something in the Night, che nulla sia “perdonato o dimenticato”. Se il predecessore era stato l’American Graffiti del Nostro, Darkness è l’album neorealista. Cupo come solo Nebraska sarà. Pieno di sequenze notturne in bianco e nero e fortemente contrastate, un viaggio alla ricerca delle radici operaie della famiglia Springsteen in scia al John Steinbeck che romanzava la Grande Depressione. Nella voce del cantore di queste storie amare si avverte una desolazione (che pure non chiude del tutto le porte alla speranza) che stringe il cuore in una morsa, mentre alle sue spalle le chitarre stridono, organo e sax ululano funerei, la batteria pulsa senza requie. Giusto il piano regala sprazzi di giocosità.
The River (Columbia, 1980)
Fino all’avvento del CD l’album doppio è stato una delle massime icone del rock. Si pensi a Blonde on Blonde di Dylan, all’omonimo bianco dei Beatles, a Electric Ladyland di Jimi Hendrix, Exile on Main St. dei Rolling Stones, London Calling dei Clash: opere che ridisegnano una carriera, o la riassumono. The River è come un Greatest Hits tutto di inediti. Ci sono i rock’n’roll che Springsteen suonava dal vivo ma non aveva mai messo su disco (Out in the Street, You Can Look, Cadillac Ranch, Ramrod) e raggelanti istantanee del buio ai margini della città (The Ties That Bind, Point Blank, The Price You Pay), canzoni d’amore tenerissime (I Wanna Marry You, Drive All Night) oppure esuberanti (Sherry Darling, Two Hearts, Crush on You), scorci soul (Fade Away) e rock durissimi che anticipano Born in the U.S.A. (Jackson Cage, I’m a Rocker). C’è un 45 giri (Hungry Heart: «Il miglior singolo di rock’n’roll dai tempi dei Beatles» lo disse John Lennon nella sua ultima intervista) che il pubblico premiò spedendolo nei Top 10 USA. L’album? Numero uno. Il primo. È qui la festa? Oh, si balla eccome, ma ogni finale di lato è un ricordo che quando le luci si spegneranno dovremo fare di nuovo i conti con contrasti generazionali (Independence Day), matrimoni falliti (The River, Stolen Car) e la presenza sempre incombente della Grande Livellatrice (Wreck on the Highway).
Nebraska (Columbia, 1982)
L’aria che si respira in un disco scarnissimo che ha la ruvidezza e il fascino dei 78 giri di Robert Johnson e delle registrazioni sul campo di Alan Lomax si leva già dalla splendida copertina, con le sue scritte in rosso su nero e una desolata strada di campagna vista da dentro un’auto in corsa verso un orizzonte coperto di nubi. La canzone che lo intitola lo inaugura e stabilisce il clima. Su una melodia scheletrica Springsteen racconta, in prima persona, la storia di una coppia che partendo dal Nebraska arriva in Wyoming lasciando sul suo percorso una lunga scia di omicidi senza senso. Al giudice che lo condanna a morte il protagonista non sa dire altro che «non posso dire di essere pentito di ciò che abbiamo fatto / almeno ci si è divertiti un po’, signore». Eco sconvolgente del galeotto di Folsom Prison Blues di Johnny Cash che cantava «ho sparato a un uomo a Reno solo per vederlo morire». Proprio Johnny Cash, che non a caso riprenderà due brani di Nebraska (Johnny 99 e Highway Patrolman), è, più del primo Bob Dylan o di Woody Guthrie, il principale referente di un LP che più che alla voce “folk”, andrebbe rubricato a “rock acustico”. Le accelerazioni rock’n’roll di Johnny 99, State Trooper, Open All Night parlano chiaro in tal senso.
Born in the U.S.A. (Columbia, 1984)
Come raccontare un disco che rese il titolare un volto da rotocalco? Tutti lo conoscono e all’epoca la sovraesposizione indusse giudizi non sereni in quanti rimasero spiazzati da un successo tanto clamoroso, non giustificato né da un pezzo pop particolarmente azzeccato come Dancing in the Dark né dal fatto che la base dei fan si era costantemente allargata negli anni e che il suo incremento potesse farsi esponenziale era nell’ordine delle cose. Non moltiplichi per quindici o centocinquanta gli acquirenti di un tuo album soltanto in forza di un brano orecchiabile o suoni più patinati dell’usuale. Trarre sette 45 giri da un LP e spedirli tutti nei Top 10 USA fu impresa mai riuscita prima a nessuno e, anche considerando il contributo che a questo successo travolgente diedero un lungo tour mondiale e il supporto di MTV, resta nel caso di Born in the U.S.A. un che di misterioso oltre che irripetibile. La spiegazione più ragionevole è che catturò lo spirito dell’America degli anni di Ronald Reagan, quel misto di patriottismo e depressione per gli effetti devastanti che la politica economica di quell’amministrazione ebbe sulle classi più deboli. Lontanissimo dal predecessore come suoni è in realtà un suo seguito logico, coerente, persino inevitabile e del resto molte delle sue canzoni furono scritte o addirittura incise in contemporanea a quelle di Nebraska.
Live / 1975-85 (Columbia, 1986)
Come un delitto vivisezionato nel più abilmente congegnato dei gialli questo album monumentale (oltre tre ore e mezza) appare sempre diverso a seconda della prospettiva da cui lo si osserva. Uno dei più eclatanti successi della storia dell’industria discografica (un milione e mezzo di copie solo nel primo giorno e negli Stati Uniti) e insieme un lavoro che bruciò in fretta il suo potenziale commerciale. Un oggetto eccessivamente ingombrante e autocelebrativo oppure un’opera persino troppo smilza per disegnare un profilo adeguato di cosa Springsteen aveva rappresentato per il rock nel decennio esaminato. Allora: chi l’assassino? L’artista? Il manager Jon Landau? La Columbia? Certi appassionati che il megasuccesso del nostro eroe non l’hanno in fondo mai digerito? O la fama di concerti troppo celebrati e piratati perché un live ufficiale – qualunque live – potesse esserne all’altezza? Quando tutti sono scontenti si è spesso nel giusto. Giacché nessun singolo spettacolo avrebbe potuto rappresentare appieno la potenza e la poesia della E Street Band fu appropriato ricostruirne uno ideale. Esattamente quanto Brooooce fece, con il consueto fitto tessuto di rimandi che legano un brano all’altro e rendono una sequenza di dieci o dodici titoli (quaranta in questo caso) un tutt’uno cui sottrarre o aggiungere qualcosa sarebbe, oltre che arduo, insensato.
Tunnel of Love (Columbia, 1987)
Una delle qualità più ammirevoli di Springsteen è tuttora il suo sapere mettersi in discussione. È ciò che gli ha consentito di non soccombere al complesso di Peter Pan di cui nel rock tanti sono vittime, accettando l’ineluttabilità dello scorrere del tempo. In nessun modo un innovatore in musica, piuttosto un abile perpetuatore della tradizione, bisogna riconoscergli di essere stato capace di portare in un genere malato di giovanilismo tematiche mature. Tunnel of Love fu il suo secondo lavoro dopo Nebraska ideato in solitudine e in solitudine per larga parte realizzato. In nessuna traccia è presente la E Street Band al completo, soltanto Weinberg c’è quasi sempre. Quanto contrasta con il rullare di tamburi e l’incendio di chitarre di Born in the U.S.A. l’attacco a cappella di Ain’t Got You! La cadenza è rockabilly, la voce e le parole ironiche, ma il tema di fondo serio, il medesimo dell’omonimo brano degli Yardbirds o Can’t Buy Me Love dei Beatles: ci sono cose che il denaro non può comprare. L’amore, per esempio. Proprio la ricerca dell’amore è il tema attorno a cui ruota il lavoro più personale del Nostro. Intimista, sovente confessionale, come il predecessore fu un disco che scandalizzò molti vecchi cultori (e altrettanti fra coloro di recente acquisizione), stavolta per la massiccia presenza di sintetizzatori e batterie elettroniche.
Tracks (Columbia, 1998)
Fa che un autore eccezionalmente prolifico e uno che concepisce ogni album come un flusso narrativo distinto per umori e atmosfere dai precedenti coincidano. Finirà per tenere fuori dai suoi lavori in studio canzoni bellissime, alcune regalandole ad altri, qualcuna eseguendola dal vivo magari in più di un tour, ma solo raramente trovando modo di recuperarle inserendole in un nuovo progetto (più facile usarle come lati B di un singolo; però le più memorabili anche no perché non si sa mai). Che è la ragione per la quale da metà anni ’70 un’industria discografica parallela – messa in piedi da autentici filologi della sua opera come da biechi speculatori – ha prosperato alle spalle del Boss non soltanto confezionando bootleg di concerti a decine ma pure ricostruendo album “perduti” e letteralmente favolosi come quelli lasciati sul campo fra Born to Run e Darkness, periodo in cui Springsteen si era trovato impossibilitato a pubblicare alcunché per una vertenza legale che lo opponeva a Mike Appel, e fra Darkness stesso e The River. Con i suoi 66 titoli selezionati partendo da una lista di 350, i quattro CD di Tracks entusiasmeranno gli appassionati per quello che c’è e li faranno infuriare per ciò che incredibilmente manca: tipo Because the Night, la canzone di Patti Smith che tutti conoscono ma i più (a meno che non posseggano 1975-85) senza sapere chi ne vergò lo spartito.
The Rising (Columbia, 2002)
Bruce Springsteen si complica gli anni ‘90 prima ancora che comincino ufficializzando il 13 novembre 1989 la fine della collaborazione con la E Street Band. È che Tunnel of Love non gli è bastato a esorcizzare il timore di ritrovarsi imprigionato in un cliché. È che ritiene necessario separarsi dai compagni di mille concerti per potersi reinventare. Paradossale che, sia dal vivo che in parte nei due dischi in studio che licenzia lo stesso giorno, il 31 marzo 1992, lo scadente Human Touch e l’appena discreto Lucky Town, si ritrovi poi a emularne il sound affidandosi a musicisti anche bravi ma senza quel quid. Riscatta il suo primo brutto inciampo da lì a tre anni e mezzo con l’invece ottimo The Ghost of Tom Joad: impegnato come non mai nei testi, raffinato nei pur scarni spartiti, scambiato da ascoltatori e critici distratti per un fratellino di Nebraska quando è piuttosto la prima prova genuinamente folk dell’artista. Che nel ’99 torna sui suoi passi con un tour di 132 date alla testa degli antichi e ritrovati sodali. Campagna con in fondo l’approdo a The Rising, primo disco da Born in the U.S.A. con la E Street Band e a oggi la sua ultima collezione di brani autografi imprescindibile. Invecchiata bene nonostante l’emozione suscitata all’uscita dal suo essere un’elegia per l’America post-11 settembre sia inevitabilmente sbiadita.
We Shall Overcome: The Seeger Sessions (Columbia, 2006)
Il John Hammond che “scopriva” Springsteen incorreva in un colossale errore di valutazione: non avendolo mai visto con un gruppo, abbagliato da una manciata di canzoni eseguite accompagnandosi con una chitarra acustica lo prendeva per un ennesimo “nuovo Dylan” e, essendo colui che aveva ingaggiato l’originale, legittimava sia presso una casa discografica che naturalmente non se lo faceva sfuggire che presso la stampa un’etichetta impropria, facendo equivocare un rocker per un cantautore. Prima dello storico e da allora citatissimo articolo di Landau («ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen») giusto l’autorevolezza di Hammond impedirà che un artista che del primo LP aveva venduto 20.000 copie e non molte di più del secondo venisse accompagnato alla porta. Tutte rock e black le influenze formative del nostro uomo, che al folk si accosterà assai più avanti e sarà Woody Guthrie a introdurlo a quell’universo. Con il principale dei discepoli di Guthrie prima di Dylan stesso, ossia Pete Seeger, non si confronterà (invitato a contribuire a un album tributo) che nel 1997. Sarà in compenso subito amore e così grande da indurlo da lì a qualche anno a confezionare, pescando in quel repertorio, il suo quarto album acustico (il terzo era stato, nel 2005 Devils & Dust) e il primo in cui non firma manco un brano. Museale? L’opposto: festoso, vivacissimo.
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