[Storie] Guida alla New Wave (dal '77 all'80) in 10 dischi
Ok i Gang of Four, i Pere Ubu, i Television, la cerebralità, le scuole d'arte e le strizzate d'occhio all'elettronica. Ma poi?
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di Eddy Cilìa
Eddy Cilìa distribuisce consigli per gli ascolti ai principianti assoluti: 10 album-simbolo presi dagli anni più significativi per mettere ordine in un insieme di sottogeneri e fare un po’ di chiarezza su un termine che ha generato (e ancora genera) non pochi fraintendimenti.
Per semplificare un discorso estremamente complesso conviene partire da un assioma: la distanza, geografica o anche temporale, cambia la prospettiva da cui si osservano i fenomeni. Più lo si guarda da lontano migliore sarà la comprensione di un quadro ricco di sfumature e dettagli. A fine anni ‘70 - inizio ‘80 nessuno in Italia parlava di post-punk e quanti lo facevano in Gran Bretagna e negli Stati Uniti usavano il termine in un’accezione parecchio diversa da quella nel comune sentire odierno. Trattavasi, osserverà Simon Reynolds nel cruciale studio del 2005 Rip It Up and Start Again, «più che di uno specifico stile musicale di uno spazio aperto a un gran numero di possibilità», laddove contestando proprio a Reynolds una visione troppo onnicomprensiva del fenomeno Alex Ogg dal suo canto sottolineerà l’incongruenza del classificare come post-punk gruppi affacciatisi alla ribalta contemporaneamente al punk o persino prima. Ma si diceva: non vi era alcuno nel Bel Paese che all’epoca dei fatti adoperasse il termine suddetto. Gli si preferiva new wave e, dopo qualche equivoco iniziale, se ne tracciavano i contorni con una precisione ammirevole con il senno del poi. Innanzitutto: non un genere bensì un insieme di sottogeneri nati sulla spinta del punk. Una caratteristica condivisa dalla composita scena: un empito sperimentale che spingeva a connubi di influenze arditi e faceva sì che ogni recupero fosse creativo ed ecco, ciò che la rendeva così eccitante era che fosse per l’appunto “new” pure quando i suoi elementi costitutivi erano già noti. «Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel 1977», avevano cantato i Clash appena due anni prima di convocarli tutti per quella summa di un quarto di secolo di rock’n’roll chiamata London Calling. La new wave metteva viceversa in pratica quel manifesto recuperando del rock precedente non la fisicità del rockabilly, del beat, del garage ma la cerebralità di psichedelici e tedeschi. Nello stesso modo in cui al reggae preferiva la sua variante più ostica, il dub, e al calore del blues e del soul un funky più di testa che di bacino. Il punk era una faccenda di chitarre? La new wave non si negava all’elettronica. Il primo veniva dalle strade? La seconda dalle scuole d’arte. Ma questa non fu una reazione a quello, bensì e al limite una sua conseguenza e tutti e due erano una reazione al rock da grandi arene, al progressive, ai cantautori, in parte alla disco. Il lettore che voglia confrontare quanto esposto con la scheda che en.wikipedia.org dedica alla voce “post-punk” verificherà una sovrapposizione pressoché totale fra ciò che in Italia si intendeva per new wave e ciò che oggi anche in Italia si suole definire post-punk.
Si avevano insomma le idee più chiare al riguardo in questa lontana provincia dell’impero anglo-americano che ove le cose accadevano e new wave, come ruvidamente esposto da Claude Bessy nel rockumentario The Decline of Western Civilization (Penelope Spheeris, 1980) e più forbitamente (e già l’anno prima) da Robert Christgau nella sua rubrica sul Village Voice, non era che un’etichetta usata da quanti non volevano spaventare il pubblico più conservatore accostando al punk qualsivoglia altro nuovo fenomeno. Ingenerando un equivoco che dura tuttora (vedasi sempre en.wikipedia.org) per via del quale sotto il medesimo ombrello si ritroveranno dai Police agli Wham! (!!!) passando per i Jam e gli Smiths, lo ska revival e i New Romantics.
Television
Marquee Moon (Elektra, 1977)
Se il 30 marzo 1974, data in cui i Ramones debuttavano dal vivo, è il Giorno Zero del Punk, si potrebbe designare a inizio della new wave il 2 di quello stesso mese, quando i concittadini di adozione (New York) Television si esibivano per la prima volta in pubblico, esordio preparato meticolosamente visto che la band provava da quasi un anno e come trio invece che quartetto e con un altro nome (Neon Boys) esisteva addirittura dall’autunno ’72. Post-punk prima del punk, in dicembre i ragazzi erano in studio a registrare dei demo con nientemeno che Brian Eno in regia. Era però una falsa partenza e fra il debutto a 45 giri Little Johnny Jewel, inciso nell’agosto 1975, e questo a 33 porranno un ulteriore abbondante anno dedicato a perfezionare ancora un sound con molti ispiratori – non solo in ambito rock: il free jazz di Albert Ayler e John Coltrane, ingrediente chiave della ricetta quasi quanto il surf dei Ventures e la psichedelia di 13th Floor Elevators, Moby Grape e Quicksilver Messenger Service; naturalmente, i Velvet Underground – ma in questa forma inaudito. Inimitabile – le chitarre di Tom Verlaine e Richard Lloyd che suonano come fossero una, oppure tre – e da allora imitatissimo.
Suicide
Suicide (Red Star, 1977)
Culla della nouvelle vague del rock versante USA, la Big Apple, i semini infetti che germineranno stupendi fiori del male piantati dai Velvet appena dopo il giro di boa dei ‘60 e Patti Smith a svolgere un essenziale ruolo di raccordo fra quel decennio e il successivo. Sodalizio improbabile quello stretto nel 1971 dall’artista visuale Alan Vega e dal pianista jazz Martin Rev, sin da una formazione, voce e strumenti elettronici, con un unico parziale antecedente e sempre da quelle parti nei Silver Apples. Nemmeno strumenti elettronici all’inizio, a dire il vero: Rev suona un Farfisa in disarmo che non ha soldi per riparare. Nata e cresciuta nella più abbietta miseria la coppia fa comunque un bel po’ di rumore nei bassifondi locali con canzoni (ma si può dire tale Frankie Teardrop?) come non se ne erano mai sentite, abbeverate alle fonti sulla carta inconciliabili del rockabilly e del minimalismo (la loureediana Metal Machine Music il modello ultimo), e spettacoli di una violenza stoogesiana. Ragione sociale impronunciabile per le radio, i Suicide saranno l’ultimo gruppo della nuova onda newyorkese a rimediare un contratto discografico, quando sulla piazza non era rimasto nessun altro e per un’etichetta indipendente.
Pere Ubu
The Modern Dance (Blank, 1978)
È un magazzino sulle rive del Cuyahoga, il fiume più inquinato del mondo, trasformato in bar, il Pirate’s Cove, il palcoscenico scelto dai Pere Ubu per la prima sortita. L’anno è il 1975. New York, nella cui orbita finiranno per gravitare, è in fermento ma fra le rovine post-industriali di Cleveland si vive in un’altra dimensione. Là Marc Bolan e David Bowie sono considerati un po’ strani, figurarsi MC5 e Stooges, Can, Captain Beefheart. Una comunità di una cinquantina di individui fra manipolatori di strumenti indecisi fra rock’n’roll e avant jazz, piccoli scrivani e dilettanti delle arti figurative si rifugia in una dimensione parallela e inizia a congiurare. Il percorso che ha portato i Pere Ubu al covo corsaro è già lungo e al pari lungo risulterà quello che li porterà a esordire con un LP che è tuttora come i ceffoni di Dio di Gaber: appiccica al muro, dal sibilo su cui decolla frenetica Nonalignment Pact alla rantolante svagatezza di Humor Me; in mezzo, prodigi come il free transgenico Laughing, il folk-prog-rock venusiano Chinese Radiation o ancora Real World, rovinosa collisione Talking Heads / Beefheart, o il lisergico canto propiziatorio Over My Head.
Talking Heads
More Songs About Buildings and Food (Sire, 1978)
Alla resa dei conti il debutto a 33 giri dei Talking Heads, 77, è disco da una canzone sola: Psycho Killer naturalmente, saltellare singultante fra ironia e nevrosi iscritto di diritto fra i classici della new wave dal primo “fa fa fa fa”. Sarebbe bastata a rendere le Teste Parlanti degli interessanti minori. Maggiori li farà l’incontro con Brian Eno, che li vede a Londra in apertura dei Ramones e si entusiasma. Non un innamoramento progressivo ma un colpo di fulmine quello fra lui e il leader del complesso David Byrne – stessa introversione con tendenza all’esibizionismo, stesso retroterra culturale, stesso interesse in germinare per le musiche etniche – e i tre LP nei quali Eno sarà la quinta Testa si riveleranno fondamentali per l’evoluzione del rock quanto l’altra trilogia eniana, quella congegnata a Berlino con Bowie. Che More Songs About Buildings and Food sia un altro mondo rispetto a 77 si capisce immediatamente, dallo sferzante, militaresco tambureggiare di Thank You for Sending Me an Angel. Avanza al proscenio il funk e non fa prigionieri, percorso in crescendo rossiniano con come apice la resa acida e slabbrata di Take Me to the River di Al Green: gospel da vigilia di Giudizio Universale.
Devo
Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! (Warner Bros, 1978)
Se c’è un gruppo senza il cui magistero la new wave è inimmaginabile sono i Velvet Underground. Un secondo? I Roxy Music. Per la lampante influenza esercitata su diversi suoi esponenti dai primi due album della compagine britannica, i soli con Brian Eno, e per la partecipazione di Eno stesso, da produttore, alle vicende di alcuni dei più rilevanti fra costoro. Non ogni collaborazione funzionava: matrimoni riuscitissimi quelli con Talking Heads e Ultravox! (se questa lista fosse stata di undici nomi la band che fu di John Foxx avrebbe risposto “presente”), si rivelava un fallimento il tentato sodalizio con i Television. Quanto all’esordio dei Devo era all’epoca contestato dai cultori della band di Akron, che all’ex-Roxy rimproveravano di avere smussato eccessivamente gli spigoli di un sound con splendida incongruenza nevrotico e robotico, tanto più spalancato sul futuro nel momento in cui destrutturava una pietra d’angolo del canone rock quale (I Can’t Get No) Satisfaction. Il tempo e gli artefici stessi hanno ridimensionato le polemiche su un disco che sembra oggi in perfetto equilibrio fra dissonanza e pop, sperimentazione e fruibilità. Colonna sonora tagliata su misura per le bislacche (ma davvero?) teorie del gruppo su un’umanità che percorre al contrario il cammino evolutivo.
Siouxsie and the Banshees
The Scream (Polydor, 1978)
Non lo si è fatto apposta ed è dunque significativo perché casuale ma non casuale: in una lista divisa a metà fra Stati Uniti e Gran Bretagna e sistemata in ordine cronologico i primi cinque titoli sono americani, i seguenti made in UK. È che oltre Atlantico il punk incideva pochissimo, una faccenda sotterranea e fortemente localizzata (il vero punk per gli USA sarà l’hardcore), laddove nella terra dei Sex Pistols era fenomeno mediatico che trascendeva radio e stampa specializzata per approdare ai tabloid. Lì il “post-” sarà in effetti tale, risposta a una rivoluzione troppo presto depotenziata(si). Arriva dal punk Susan Janet Ballion, in arte Siouxsie Sioux, e in particolare dal leggendario Bromley Contingent, manipolo di fiancheggiatori adolescenti proprio di Johnny Rotten e gaglioffi complici. Dal punk sa però emanciparsi quasi subito, nel breve iato fra alcune sessions per il benemerito John Peel e la firma di un contratto che in molti in Polydor ritengono un azzardo. E invece… E invece – coacervo di chitarre affilatissime e ritmiche indifferentemente guerriere e proto-industrial o post-kraut a creare atmosfere che anticipano il goth senza ancora esserlo pienamente – The Scream va al numero 12 della classifica degli album. Giusto i Joy Division faranno meglio.
Gang of Four
Entertainment! (EMI, 1979)
Dave Allen, Hugo Burnham, Andy Gill e Jon King si conoscono a Leeds fra aule universitarie e manifestazioni e, marxisti, colgono che il punk potrebbe essere uno strumento propagandistico efficacissimo. A farli notare fra i tanti affacciatisi alla ribalta dopo che i Pistols l’hanno bagnata di benzina e acceso un cerino è che gli uniscano il p-funk. Nell’ottobre 1978 la cantilena fra l’ossessivo e l’ilare Damaged Goods è, accompagnata fra l’altro da una prima versione dell’insieme sulfurea e catatonica Anthrax, esordio a sette pollici per la minuscola Fast che attira le lodi della critica e le attenzioni dell’industria maggiore. La EMI si propone e, decisi a sfruttare le risorse di una multinazionale per fare passare i loro messaggi, i Gang of Four ne accettano il corteggiamento. Nel marzo ‘79 At Home He’s a Tourist è – voce stentorea su scansione marziale e chitarra spezzata e tagliente – un piccolo successo, numero 58 in barba ai censori della BBC. Resterà il migliore piazzamento a 45 giri del quartetto. Entertainment! esce in settembre e, pur arrestandosi prima dei Top 40, rimarrà dal suo canto l’album più venduto: debutto formidabile in un’era di debutti formidabili nonché quello la cui ombra, più di ogni altro, si allunga sul secolo attuale.
Public Image Ltd
Metal Box (Virgin, 1979)
Nove mesi appena separano lo scioglimento dei Sex Pistols da Public Image, il singolo con cui John “non più Rotten” Lydon presenta la sua nuova creatura cantando «non sono lo stesso di quando ho iniziato». Altri due e, iconoclasticamente sotto Natale, raggiunge i negozi il blasfemo esordio adulto, First Issue. Non uno stacco così netto rispetto ai Pistols come parve allora, tuttavia già un’indicazione che mentre quelli non erano stati che rozzi quanto straordinariamente vitalistici celebranti di una tradizione consolidata (Eddie Cochran, i primi Who, gli Stooges) i P.I.L. andranno oltre. In essi Lydon riversa da subito il suo amore per Captain Beefheart, il reggae, il krautrock. Il capolavoro arriva con Metal Box (titolo didascalico: l’edizione originale consta di tre mix all’interno di una scatola circolare di metallo; la stampa successiva, nella più canonica forma di doppio 33 giri con una normale copertina di cartone, si chiamerà non meno didascalicamente Second Edition). Sono dodici brani claustrofobici ove la voce è un lamento malevolo e la chitarra (Keith Levine, già con i primi Clash) uno stiletto che martirizza il cuore pulsante di basso (il geniale Jah Wobble) e batteria. Fra echi dub e accelerazioni clamorosamente proto-house.
Joy Division
Closer (Factory, 1980)
Come raccontare (e ce n’è bisogno dopo che lo hanno fatto in legioni?) due opere monumentali quali Unknown Pleasures (giugno 1979) e Closer (luglio dell’anno dopo)? Che avevano sì degli antecedenti – nei Velvet, nei Doors, nel krautrock di Can e Neu!, nel Bowie berlinese – ma risultavano caratterizzate da un sound che prima di trovare orde di imitatori (tristemente tutta la pantomima dark prendeva da lì le mosse, ma fortunatamente ci fu chi seppe metterne a frutto la lezione a sua volta con originalità: Bauhaus, Cure, i primi U2 e pure “la nuova musica italiana cantata in italiano” di Litfiba e Diaframma) apparve una novità assoluta: il basso a disegnare la melodia, una chitarra spigolosa a giocare di contrappunto nelle retrovie e tutto attorno una batteria fra il tribale e il motoristico. E sopra la voce ancora più inconfondibile – Jim Morrison autenticamente esistenzialista prima di uscire di scena come un giovane Werther fattosi carne ed epilessia – di Ian Curtis. Morto suicida il 18 maggio 1980, ventitreenne, alla vigilia della partenza per un primo tour americano che avrebbe reso se possibile i Joy Division ancora più influenti e forse già le star che diventeranno i superstiti Sumner, Hook e Morris nella loro seconda vita artistica come New Order.
Killing Joke
Killing Joke (E.G., 1980)
Il debutto a 33 giri dei Killing Joke usciva nell’ottobre 1980 ma ad ascoltarlo oggi senza conoscerlo non gli daresti mai gli anni che ha. A sottoporlo all’attenzione di un trentenne o giù di lì appassionato di rock potresti suscitarne l’entusiasmo o ottenere come reazione un “bello, ma di robe così ne ho sentite mille”. Ecco quale è il paradossale problema del gruppo fondato nel 1978 a Notting Hill, Londra, da Jeremy “Jaz” Coleman, Kevin “Geordie” Walker, Martin “Youth” Glover e Paul Ferguson con lo scopo di «definire la squisita bellezza dell’era atomica in termini di stile, suono e forma», niente di meno: è che dallo Scherzo Che Uccide in tantissimi hanno preso ispirazione da allora e di conseguenza un sound unico e nuovissimo – fosco e primordiale, urticante e pulsante, granitico e furente – è diventato risaputo. Per quanto possa esserlo un canone a tal punto inclusivo da mettere assieme Depeche Mode e Big Black, i Nine Inch Nails con i Metallica, i P.I.L. con i Rammstein come con Marilyn Manson, i Melvins, i Ministry, gli Helmet, oppure i Foo Fighters. I Killing Joke sono ovunque senza che ci si faccia caso, magari senza manco sapere che sono esistiti. Che, fra uno scioglimento, una rimpatriata e ahinoi un decesso ogni tanto pubblicano ancora un disco, vanno ancora in tour.
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