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Il rock’n’roll è un autentico melting pot. È meticciato allo stato (im)puro. Con la sua aria da gentiluomo dei bassifondi newyorchesi, Willy DeVille ne è stato tra le più fulgide incarnazioni.
Artista: Mink DeVille
Titolo: Coup de Grâce
Anno: 1981
Tracklist:
Just Give Me One Good Reason – 3:18
(testo e musica: Willy DeVille)Help Me Make It (Power of a Woman's Love) – 4:09
(testo e musica: Eddie Hinton)Maybe Tomorrow – 2:56
(testo e musica: Willy DeVille)Teardrops Must Fall – 4:12
(testo e musica: Willy DeVille)You Better Move On – 3:00
(testo e musica: Arthur Alexander)Love & Emotion – 3:40
(testo e musica: Willy DeVille)So in Love Are We – 3:42
(testo e musica: Willy DeVille, Roger Rich)Love Me Like You Did Before – 3:15
(testo e musica: Willy DeVille)She Was Made in Heaven – 2:59
(testo e musica: Willy DeVille)End of the Line – 2:49
(testo e musica: Willy DeVille)
Formazione:
Willy DeVille – voce, chitarra
Ricky Borgia – chitarre
Joey Vasta – basso
Thommy Price – batteria
Brother Johnny Espinet, Jimmy Maelen – percussioni
Louis Cortelezzi – sassofono
Kenny Margolis – pianoforte, tastiere
The Exhilarations – cori
It’s not only rock’n’roll (and we like it)
A volte è davvero difficile scrivere. Ti confronti con qualche delusione da parte di una band che stimi, ti scontri con una contemporaneità spesso confusa e banale e ascolti troppi dischi con la consistenza del cartongesso. Sciocchezze, se messe a confronto con la pena di dover aggiornare continuamente un registro dei decessi mai così folto da quando il rock è nella terza età. Il che, per forza di cose, comporta forme meritamente classiche nella loro imprendibile policromia e la spiacevole evidenza che i suoi protagonisti invecchiano: sono esseri umani, non supereroi perennemente giovani. Ma per fortuna l’arte dura in eterno e, in un certo senso, riequilibra i piatti della bilancia rendendo tutto un po’ meno amaro.
Di un’appassionante “arte rock” Willy DeVille conosceva i trucchi e i segreti. Teppista dandy e sentimentale come non ne nasceranno più, teneva uno stivaletto dentro e l’altro fuori della tradizione e nel suo demasiado corazón custodiva eccezionali doti autoriali e interpretative. Così si pronunciava nel 1980 l’esimio Robert Palmer:
Cantante magnetico i cui brani abbondano di ritmi etnici e richiami al blues e, nonostante la lontananza, i generi riescono a fondersi perfettamente. Con una proposta incredibilmente originale, incarna il groviglio di contraddizioni tipico di New York.
Se non vi fidate, leggete il parere di Doc Pomus apparso due anni prima sul retro copertina dell’LP Return to Magenta dei Mink DeVille:
Riconosce la verità in una via cittadina e il coraggio in una canzone d’amore del ghetto. La cruda realtà della voce e del fraseggio sono ieri, oggi e domani: sono senza tempo nella stessa maniera in cui solitudine, guai e pochi soldi in tasca non si separano neanche per un minuto.
Difficile sintetizzare meglio un talento tanto scomodo quanto genuino, dunque perdonateci se aggiungiamo poco altro mentre ci sforziamo di tenere a bada il groppo in gola. Dalla scomparsa del Nostro sono trascorsi quindici anni e confessiamo di volergli bene sempre di più, ogni giorno che passa: per la musica, ovviamente, e perché quel cavallo di razza possedeva un dono. Un’anima che, nel bene e nel male, gettava oltre gli ostacoli e dentro canzoni colme della magia e del respiro di chi il blues, il soul e il rock’n’roll li ha appresi sul campo. Pertanto, li sa maneggiare da maestro e ne vive il significato.
Soprattutto quando cava di tasca una rosa e un coltello a serramanico raccontandoti storie che diresti pescate da una versione cruda di West Side Story. Pur dubitando della veridicità, sai che il punto non è quello: il punto è il gesto di teatro con il quale parla degli altri per parlare di sé e viceversa. Ti sta spiegando che i sogni e le aspirazioni rappresentano una via d’uscita dalla realtà e che i dischi esistono per aiutarti ad andare avanti. Perché, in fondo, è proprio lì che stanno certi legami che uniscono.
Cadillac Walks
William Paul Borsey nasce nel 1950 a Stamford, Connecticut, da «vero cane randagio». Parole del diretto interessato, uno con la lingua che non le manda a dire e nelle vene sangue pellerossa, irlandese e basco. Uno con la ribollente spontaneità e l’istinto inquieto che spingono a mollare il grigiore industriale e la scuola, a sposarsi poco più che adolescente e, cantante/chitarrista autodidatta con un paio di complessini alle spalle, ad aggirarsi per New York cercando spiriti affini con i quali suonare John Hammond Jr., Muddy Waters, John Lee Hooker. Roba che con la nazione hippie allo sbando non interessa a nessuno, ragion per cui si sposta a Londra e la solfa non cambia.
Di nuovo in madrepatria, i Royal Pythons sono una falsa partenza e Willy gioca un’ultima carta a San Francisco. Nel ’74, scortato dalla sezione ritmica di Ruben Siguenza e Tom Allen, dal pianista Ritch Colbert e dalla chitarra di Robert “Fast Floyd” McKenzie, imprime al percorso una svolta concreta: Billy DeSade & the Marquis battono i peggiori bar finché non si ribattezzano Mink DeVille e il capobanda, dopo un periodo come “Borsay”, assume lo pseudonimo che sappiamo. Un giorno la sua attenzione cade su un trafiletto del newyorchese Village Voice nel quale si cercano gruppi per un’audizione e decide di ritentare la fortuna sulla costa est.
Saggia mossa, poiché la Grande Mela si sta risvegliando dal torpore mentre Ritch resta in California e alla sei corde subentra il navigato Louis X. Erlanger. Tra Television, Blondie, Talking Heads e Ramones, sul palco del CBGB’s i Mink DeVille sono mosche bianche che il pubblico apprezza malgrado non abbiano nulla in comune con il punk e i relativi post, eccetto l’urgenza creativa e la frugalità strutturale. A ogni buon conto, la compilation Live at CBGB’s sancisce nel ‘76 l’esordio discografico, laddove in dicembre, per convincere Ben Edmonds – ex collaboratore della rivista Creem divenuto talent scout della Capitol – basta un assaggio della mistura che spezia radici americane ed echi Sixties con un vigore figlio dell’attualità.
Sogno che si avvera, si va in studio con l’esperto Jack Nitzsche, braccio destro di Phil Spector con il quale la sintonia è scritta in paradiso. Nel 1977, Cabretta riferisce di un eccellente debutto su LP, di una sudata maturità e di gioielli della caratura di Venus of Avenue D e Can’t Do Without It, di una spigliata Cadillac Walk cortesia di Moon Martin e dell’irresistibile Spanish Stroll entrata nei Top 20 inglesi. In quel momento iniziano le magagne, siccome l’etichetta crede di avere un asso del botteghino e quando nel ‘78 le vendite dell’ottimo e più rifinito Return to Magenta non decollano, si litiga di brutto.
L’umorale leader caccia tutti meno Erlanger, sale su un aereo per Parigi e mette su nastro Le Chat Bleu, passeggiata tra soul’n’roll, R&B, cajun e sentimentalismo impreziosita da tre canzoni composte con Pomus. Incanto che ai piani alti non capiscono e ritengono invendibile, viene immesso sul mercato dalla sussidiaria Pathé-Marconi diventando il vinile d’importazione più richiesto oltreoceano e riscuotendo l’entusiasmo della stampa. Ora di prendersi una doverosa rivincita ed entrare negli annali.
Sweet revenge
A patto di trattenere il senso di umanità evitando la retorica un tanto al chilo, la riscossa che porta a Coup de Grâce è materiale da film (infatti, con il volto che si ritrova, DeVille interpreterà nell’86 un truffatore in Va Banque e, due anni dopo, la guardia del corpo in Homeboy). Il primo passo è rifondare la cosca attorno a Kenny Margolis (il tastierista / fisarmonicista giunto in squadra per Le Chat Bleu) scovando gente abile con nomi da cast dei Soprano. Accasatosi presso la Atlantic sull’onda della stima di Ahmet Ertegün, compone con inchiostro del più pregiato una scaletta che arricchisce con riletture dell’altrui repertorio che profumano di dichiarazione di intenti e d’amore. Infine, richiama Nitzsche per stendere un affresco compatto sul quale spargere finezze e dettagli. Gli ingredienti per un capolavoro, insomma, ci sono tutti e lo chef non fallirà.
L’essenza di Coup de Grâce sta nell’ambientare un The River singolo e malandrino tra le mura della Stax di metà anni Sessanta, però con uno spirito che guarda avanti e appoggia le melodie vincenti su sonorità minimali e allo stesso tempo curate. La scelta delle cover chiude il cerchio tramite un’avvolgente Help Me Make It a firma Eddie Hinton e nella You Better Move On di Arthur Alexander tradotta in asciutto melodramma, tuttavia la parte del leone spetta a un roots rock dalla spiccata personalità esemplificato in Just Give Me One Good Reason e Maybe Tomorrow) e a un soul bianco come lo avrebbe inteso un giovane Van Morrison propenso a sorridere e omaggiare i Drifters e Ben E. King (End of the Line, Teardrops Must Fall, She Was Made in Heaven). Aggiungete gli aromi mai oleografici di Love & Emotion, il ribaldo inno Love Me Like You Did Before, la ballata metropolitana in cinemascope So in Love Are We ed ecco trentaquattro densissimi minuti che tirano le fila di un’intera carriera, in un colpo di grazia divina cui nell’ottobre 1981 manca solo l’adeguato riscontro commerciale.
Dalla vetta non si può che scendere: Where Angels Fear to Tread accenna segnali di stanchezza, un biennio scorre in beghe contrattuali che influiscono sullo scialbo Sportin’ Life e DeVille si pianta in un limbo dal quale emerge sciogliendo la gang e ripartendo da solista. Con la produzione di Mark Knopfler, Miracle vende benino però non quanto vuole la Polydor e, in tutta risposta, lo zingaro sbatte la porta traslocando nella “Parigi d’America”. Meticcio nella città meticcia, a New Orleans si sente a casa: con Dr. John, Allen Toussaint, Eddie Bo e i Meters recapita Victory Mixture, schietta rivisitazione di standard della Big Easy da inserire negli scaffali a fianco di Backstreets of Desire, che oscilla tra roots e latinità restituendo l’aspetto solare di un’estetica che Loup Garou invece indaga dal lato del torbido lirismo voodoo.
Facce della stessa moneta – solo alcune delle “incarnazioni” cui nel 2023 allude Larry Locke nel documentario Heaven Stood Still – e di un autore che anche negli anni ‘90 cammina su una corda tesa. Nel nuovo millennio qualcosa cambia: Willy si disintossica, fa la spola tra New Orleans e una tenuta in Mississippi con la seconda moglie, nondimeno una crisi coniugale causa il suicidio di lei e l’uomo, folle di dolore, incappa in un grave “incidente” automobilistico. Traete le conclusioni che ritenete più opportune, sapendo che a dispetto di tutti i casini Willy si interessa alla cultura dei nativi americani e recapita un pugno di album che con classe girano attorno a un linguaggio consolidato.
Ti domandi cosa avrebbe potuto ancora offrirci e se all’epoca sentisse su di sé l’incombenza di un conto da saldare. Così fosse, avrebbero un diverso valore il ritorno a New York, l’ultimo scorcio della produzione discografica e la generosità profusa sul palco, dove appariva più scavato e la fluente chioma corvina lo faceva assomigliare a un orgoglioso capo indiano. Intanto il conto alla rovescia era scattato: nel febbraio 2009 un’epatite cancellava gli impegni promozionali, William scopriva di avere un cancro al pancreas e in estate lasciava questo mondo e la terza consorte. Forse avrebbe preferito andarsene sui titoli di coda di una pellicola in cui il più fico e duro del quartiere si batte per una donna o una questione d’onore, ma siamo sicuri che, anche in un letto d’ospedale, avrà conservato la sua guascona eleganza. Ci manchi, hermano, in un modo che le parole non possono spiegare.
Non conoscevo, recupero subito, grazie per questa magnifica retrospettiva.