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I Fantastici Quattro del punk? Impossibile negare che gli X siano stati unici. Un concentrato di stile, passione e poesia che ha deciso di uscire di scena una volta per tutte: a testa alta, come solo i grandi che hanno conquistato l’immortalità possono permettersi.
In the city of Lost Angels
Pur non essendo mai stato a L.A., puoi comunque dire di averla conosciuta attraverso pellicole e romanzi e sotto diverse forme. Per esempio, da bandolo di brutture celate dietro un’apparenza glamour, oppure come un gioco di scatole cinesi che confonde realtà e immaginazione. Non è un caso, siccome è a Hollywood che fabbricano i sogni e anche lì che spesso muoiono. E non è un caso che, si fossero formati altrove, gli X avrebbero vestito il loro romanticismo realista con altre sonorità. Basta confrontare la concezione estetica del punk che si aveva a New York per lanciarsi in teorie plausibili, considerando che – a fronte di intenti e radici condivise – lo stile californiano risulta diverso proprio per il genius loci di una metropoli che è una e centomila.
Considerazioni di geografia psicologica che possono sembrare oziose, quando invece appartengono all’attualità. All’inizio dello scorso agosto, infatti, la formazione originale (per gli smemorati o i giovanissimi: John Doe, Exene Cervenka, DJ Bonebrake, Billy Zoom) ha pubblicato Smoke & Fiction, splendido album prodotto da Rob Schnapf che sarà anche l’ultimo del gruppo. Ne è seguito un tour americano d’addio e tutto ci è parso una bellissima maniera di salutare e un motivo più che valido per scrivere dell’epoca d’oro di una band sul serio leggendaria. Una band che non si è mai svenduta, né ha barattato la dignità per un ipotetico – e comunque improbabile, dati i tempi – successo di massa.
Mai stato quello l’obiettivo degli X, sin da quando si aggiravano nella fiera di vanità e stramberie nota come Los Angeles, animati da un’integrità e un’onestà che hanno saputo conservare lungo la loro seconda (oppure terza, dipende da come la vedete…) vita. Nondimeno, l’attualità va cercata nei primi tre LP usciti decenni or sono: sta lì il senso della loro esistenza, del loro operato, di una bellezza che sfida il tempo alla faccia delle rughe che solcano i volti di John, Exene, DJ e Billy.
E alla faccia delle nostre, di rughe, che abbiamo imparato ad accettare come un dato di fatto e un’eredità dell’esistenza (metaforica e non) cui non si può sfuggire. Anche questo ci hanno insegnato gli X e anche per questo siamo loro grati, oltre che per canzoni sublimi e per aver mostrato che non bisogna temere o disprezzare il passato. Per la semplice ragione che rappresenta una fonte cristallina da cui attingere forme, contenuti e significati mentre fabbrichi il qui e ora. Perché se qualcuno nasce grande, è così che lo rimane. Le meraviglie che stiamo per raccontarvi sono qui a dimostrarlo.
Unheard music
A dispetto di una natura estremamente “underground”, la scena punk della California ha esercitato un ascendente enorme su critici e appassionati, vuoi per una personalità riconoscibile all’interno del filone di riferimento e vuoi per un’aura genuinamente romantica legata all’epoca. Parliamo di anni in cui eri punk prima di suonare punk e non ci facevi i milioni. Anni di difficoltà, sacrifici e di un profondo senso d’identità: con tutto quel che ne consegue, tipo essere i primi a mettere il “suono losangelino” sulle mappe grazie a un riconoscimento su ampia scala concesso dalla stampa, affascinata da una classicità tanto evidente quanto rivisitata.
Nessuno eguagliava gli X e la loro poesia punk’n’roll. Come altri nomi scaturiti dalla tempesta del ‘77, non avevano intenzione di fare a pezzi tutta la storia del rock ma solo quella specifica fase che lo aveva reso arido, ridondante e innocuo. Il resto lo avrebbero celebrato degnamente, poiché disponevano di classe, istinto, autenticità, idee, capacità di comunicare su un piano universale. Anche se non abitiamo sul Pacifico, gli X ci parlano tramite una fede nella musica che trasforma la realtà in uno schermo dove scorrono riflessioni sui massimi sistemi.
Trovi anche questo in canzoni che saldano il ‘55 al ‘77, gli assalti all’arma bianca alle trasfigurazioni roots, le voci di John ed Exene a una parafrasi punkabilly dei Jefferson Airplane. Il riallacciarsi agli anni ‘60 sulla base di uno spirito contemporaneo trova ulteriori paralleli nel rileggere i Doors e nella produzione di Ray Manzarek, segnali di un passaggio di testimone e del definitivo riconoscimento per chi si raccontava grandissimo già al primo 45 giri.
In un gruppo che ha cantato la Città degli Angeli con una compiutezza che allora conosceva eguali nei soli Wall of Voodoo, non è un paradosso che tre membri su quattro provenissero da altri Stati. Un punto di vista esterno e partecipato ha consentito di scrutare nel quotidiano, di indagare i bassifondi con un occhio a Bel Air, di narrare vicende credibili ricorrendo a brillanti simbologie. Solo il batterista DJ Bonebrake è di natali californiani – Burbank, per la precisione – e si aggrega buon ultimo alla band allestita tra ‘76 e ‘77 da John Doe (all’anagrafe dell’Illinois John Nommensen Duchac: il nome d’arte si riferisce alla catalogazione dei cadaveri non identificati).
Bassista/cantante fresco di trasloco e folgorato da Horses e dai Ramones, grazie a un’inserzione si imbatte in Billy Zoom, alias Ty Kindell. Anche lui dell’Illinois, è un polistrumentista con ciuffo platinato, chiodo e chitarra argento e pseudonimo perfetto. Quel che più conta, ha un’enorme esperienza nel circuito rockabilly, blues e R&B e, in un primo collegamento con il passato, ha suonato con Gene Vincent. Come Doe, riconosce nei Ramones qualcosa di nuovo ma antico e iniziano a suonicchiare, dopo di che il bassista invita la fidanzata (del tutto priva di esperienza) a cantare versi che lei stessa ha composto. L’alchimia c’è, dunque si prosegue.
Christine Cervenka arriva dalla Florida, ha incontrato John a un corso di scrittura ed è nato l’amore sulla base di gusti letterari condivisi. Colei che da ora in poi sarà Exene prende possesso del microfono, ma per qualche tempo gli X soffrono il viavai dietro piatti e tamburi finché non scippano Donald James “DJ” Bonebrake agli Eyes. Il ragazzo entra nel febbraio ’78, la band decolla e si accasa alla Dangerhouse per il singolo Adult Books / We’re Desperate: il lato A incastra ritornello e crescendo irresistibili su chitarre indecise tra Clash e Television, mentre il retro incalza su un tappeto di fratturazioni ritmiche. Coppia di assi cui per fare tris va aggiunta la Los Angeles contenuta nella compilation Yes L.A., un magistrale racconto breve di controcanti e strutture travolgenti però elaborate. Partenza migliore non avrebbe potuto esserci.
Big black skies
Per accedere agli annali serve comunque un cambio di scuderia. I quattro non sono soddisfatti e passano all’altrettanto prestigiosa Slash, mentre tra un’incursione e l’altra nei locali entusiasmano Ray Manzarek, che – riconosciuto un idem sentire nella coolness e in un rock selvatico che corteggia la letteratura – apprezza l’incendiaria cover di Soul Kitchen. Ecco i nessi di classicità due e tre, che spiegano come gli X si ispirino a trascorsi gloriosi senza passatismo: a quel punto è naturale che Ray si unisca a loro sul palco e si offra come produttore dell’album d’esordio.
Nell’aprile 1980, Los Angeles spiega a chiare lettere la statura di capolavoro, poggiando il livello compositivo stellare e l’urgenza espressiva su un’abilità esecutiva rara nel punk. Punti di forza di un LP breve e intensissimo, inaugurato dalla malevola Your Phone’s off the Hook, but You’re Not e chiuso meno di mezz’ora dopo sull’euforia dionisiaca (Manzarek che impazza incontenibile) di una The World’s a Mess (It’s in My Kiss) che qualcuno ha definito la Light My Fire degli anni Ottanta. Sottoscriviamo, annotando che l’incalzante Nausea sistema Siouxsie sotto il sole tra coltellate d’organo, il brano omonimo viene ripescato enfatizzandone la ruvida eleganza e Johnny Hit and Run Paulene centrifuga Chuck Berry in un cortometraggio noir.
Dell’omaggio a Soul Kitchen abbiamo riferito, Sugarlight corre a perdifiato spalancando un innodico refrain, Sex and Dying in High Society vanta un’orecchiabilità martellante e la visionaria The Unheard Music si porge rallentata e acidula. La stampa è entusiasta e le vendite non sono male per un 33 giri indipendente: a rafforzare il clamore contribuiscono i tour fuori dallo Stato e, in era pre-MTV, la pellicola The Decline of Western Civilization di Penelope Spheeris, incentrata sulla comunità punk della metropoli. Ciliegina sulla torta (nuziale), il 1980 vede John ed Exene convolare a nozze.
Annata memorabile cui segue un ‘81 in cui si batte il ferro rovente. A maggio il secondo album Wild Gift trabocca autobiografia e vissuto: Manzarek rifinisce una sottolineatura meno cruda del predecessore ma al pari imperdibile, come dimostrano le nuove versioni di We’re Desperate e Adult Books, il retrogusto malinconico di The Once over Twice, una slanciata Universal Corner che immagina L.A. Woman in chiave punk, la melodia in scorza robusta di In This House That I Call Home e White Girl, una I’m Coming Over che strapazza Bo Diddley e una Beyond and Back che la imita con il rockabilly. Inevitabile che le major si interessino e, nell’ennesimo rimando doorsiano, la Elektra vince l’asta.
Nell’estate 1982, Under the Big Black Sun approfitta del budget più elevato per rafforzare una ricetta collaudata cui manca soltanto un adeguato riscontro commerciale. È l’unico difetto – si fa per dire – di una scaletta immacolata dove sfilano il cupo tumulto The Hungry Wolf, una title track fantasticamente esuberante, il deragliante country-punk Motel Room in My Bed e le dediche alla sorella di Exene, uccisa da un guidatore ubriaco, dell’amara Riding with Mary e della ballata anni ‘50 Come Back to Me. Altrove, per lo stiloso hardcore Because I Do trovi l’accorato rifacimento di Dancing with Tears in My Eyes, agli Wire squadrati però sexy di Blue Spark risponde una tiratissima Real Child of Hell, la sinuosa umoralità in anticipo sui Dream Syndicate di The Have Nots contrappunta l’immediata riconoscibilità di How I (Learned My Lesson).
E poi? Poi facciamo breve una saga giunta fino a noi in un flusso intermittente di saluti e ricongiungimenti, di un rimpasto che vede Tony Gilkyson subentrare per un po’ a Billy, di scappatelle di ottimo livello come l’Americana modernista dei Knitters (Doe, la Cervenka, Bonebrake più Dave Alvin dei Blasters), di carriere soliste che esulano anche dall’ambito musicale (John recita, Exene pubblica libri) e della fine di un matrimonio. Tutto contenuto nella cornice di una discografia parca ma più che semplicemente dignitosa (unico inciampo nell’84 Ain’t Love Grand) dove spiccano come minimo See How We Are e Live at the Whisky a Go-Go. Quelli però sono fatti, laddove i primi tre LP spremono vita e storia su un pezzo di vinile, com’era giusto e possibile solo allora.
Grazie infinite, Fab Four del punk.
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Traccia: X: Delta 88 Nightmare