[Storie] La donna che cadde dal futuro: Laurie Anderson e Mr. Heartbreak
Una carriera (e due dischi) in cui il futuro era ieri, oggi, domani. Quaranta anni fa.
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Quando pensi alla musica che ha raccontato l’oggi, vive in una dimensione “a sé” e non è minimamente invecchiata, è a Laurie Anderson che stai pensando. E all’accoppiata di Big Science e Mister Heartbreak.
Artista: Laurie Anderson
Titolo: Mister Heartbreak
Anno: 1984
Tracklist:
Sharkey's Day – 7:41 (testo e musica: Laurie Anderson)
Langue d'Amour – 6:12 (testo e musica: Laurie Anderson)
Gravity's Angel – 6:02 (testo e musica: Laurie Anderson)
Kokoku – 7:03 (testo e musica: Laurie Anderson)
Excellent Birds – 3:12 (testo e musica: Laurie Anderson, Peter Gabriel)
Blue Lagoon – 7:03 (testo e musica: Laurie Anderson)
Sharkey's Night – 2:29 (musica: Laurie Anderson / testo: William S. Burroughs)
Formazione:
Laurie Anderson – voce, violino, synclavier
Adrian Belew – chitarre
Bill Laswell – basso
David Van Tieghem – batteria, percussioni
Il gusto dell’avanguardia
Posso vedere il futuro, ed è un luogo.
Let X = X
Da che mondo è mondo, pop e sperimentazione intrattengono un balletto di impollinazioni incrociate. Si piacciono, si cercano, si corteggiano. Quando si uniscono, la musica che qualcuno per pregiudizio e/o spocchia considera “leggera” compie dei significativi balzi in avanti. Uno degli aspetti più intriganti di questa danza sta nella leggerezza, da intendere nell’accezione che le dava Italo Calvino, ovvero di un mezzo con il quale l’autore compie una sottrazione di peso. Il che, pressappoco, significa che forme più scorrevoli, anche se ispide e scontrose, facilitano la trasmissione delle idee.
Del resto, tra i pregi e i compiti dell’arte rientra un tentativo di raccontare il mondo cercando di stemperare la fatica di vivere, magari nel mentre si setaccia la modernità e ci si immagina un domani. A maggior ragione allorché il tempo è un elemento mutevole e più che mai soggetto alla percezione dell’individuo, qualcosa che, in un gioco di interazioni, ci plasma mentre ne restituiamo una visione che non è mai la stessa. Così, rileggendo il passato con le lenti del presente, capita di osservare l’avvenire che zampilla da dischi pubblicati decenni or sono.
L’arte autentica non invecchia e lo stesso vale in misura maggiore per le avanguardie. Basta dare un’occhiata allo sviluppo della popular music per rendersene conto e ricevere conferma di un altro aspetto fondamentale: chi è “avanti” rimane tale in eterno nella misura in cui si tiene strette le emozioni. Il cerchio si richiude sul pop, lo sperimentalismo e una catena d’oro che, da Joe Meek e Phil Spector, conduce a Brian Wilson e da lì a Revolver, a Syd Barrett, ai Velvet Underground, ai Can, ai Roxy Music, a Brian Eno, a David Bowie. Quanto ai visionari in difetto di popolarità, non possiamo incolparli se il mercato assorbe solo una certa misura di intelligenza e si arresta.
Prova ne sia che all’uscita Pet Sounds vendette meno dei precedenti album dei Beach Boys e uno dei più grandi singoli di sempre – il doppio sogno a occhi aperti propulso dall’acido Strawberry Fields Forever / Penny Lane – fu il primo 45 giri dei Beatles a non centrare il primo posto. Ciò nonostante, si tratta di classici assoluti. Allo stesso modo, sarebbe legittimo che Tuxedomoon o Pere Ubu vendessero milioni di dischi, tuttavia il gusto medio ha bisogno di molti anni per evolversi e accettare l’innovazione. Pensate a Van Gogh e a quanto (non) ha venduto mentre era in vita.
Però, ogni tanto, accadono cose bellissime. Del tipo che ti scopri in un universo dove le radio passano un pezzo di otto minuti, costruito su un tappeto di tastiere e su una voce trattata e scagliata nell’infinito con un loop che recita più che cantare. Insieme desolata e calda, questa giostra ipnotica che pare provenire da una segreteria telefonica si conficca in testa e nel cuore nonostante tratteggi un quadro fosco dell’attualità. La sua, la nostra.
Corre l’anno 1981 quando la scintillante polaroid tecno-umanista O Superman (for Massenet) plana alla seconda piazza della graduatoria inglese, sgranando un racconto astratto di aeroplani americani in arrivo, supereroi, amore, giustizia, armi. Accantonati i brividi suscitati dall’11 settembre, è tuttora stupefacente e ha l’aspetto di un cristallo d’ambra che contiene genio puro. Il genio di Laurie Anderson, la donna che cadde dal futuro.
Vita su una corda
Trovo il processo creativo molto divertente.
Intervista a Rolling Stone, 2023
Improvvisamente il grande pubblico si accorge dell’esistenza di Laurie, ma lei non sbuca dal nulla. E non è nemmeno una one hit wonder, dal momento che – pur non centrando altri successoni – presto consegna due album degni della qualifica di capolavoro e un ulteriore paio più tardo che non vale meno. Non c’è da stupirsi, in fondo, poiché “geniale” è l’unico aggettivo capace di incasellare chi proietta l’eclettismo rinascimentale nel post-postmoderno, proponendo musiche riconoscibili e tuttavia cangianti che hanno lasciato segni indelebili sotto il profilo della metodologia, del suono, dei temi, di un approccio che all’epoca iniziavamo a definire multimediale.
In quei giorni la Anderson ha 34 anni e un corposo bagaglio di esperienze esterne al perimetro del rock. Citando il titolo di uno splendido LP che pubblicherà a fine decennio, è uno strano angelo: sguardo acuto e sorriso cordiale, incarna un “a sé” dall’aria vagamente androgina capace di distinguersi tra figure assai simili per vocazione e rilievo come Brian Eno, David Byrne e Peter Gabriel. Compone, inventa strumenti, mescola performance art, letteratura, sociologia, danza, cinema, pittura.
Affonda le mani nel quotidiano ricavando intuizioni che stempera con ironia e traduce in un’espressività mai udita prima, e come per i succitati colleghi, il senso dell’umano permette a una stratificata complessità di stregare a vari livelli conservando naturalezza e slancio. Con una metafora adatta al background della Nostra, è scultura sonora che armonizza gli opposti: agile e materica, astratta e fisica, onirica e concreta.
Per una ragazza dei sobborghi di Chicago il primo amore è il violino, suonato al conservatorio e tenuto in valigia quando, per proseguire gli studi, si trasferisce in California e infine a New York. Insegna storia dell’arte con abilità affabulatoria che tornerà utile, collabora con la rivista Artforum e allestisce le performance artistiche che a metà anni Settanta ne impongono il talento. Eloquenti la presenza nel ’78 alla Nova Convention accanto a William Burroughs, Philip Glass, Frank Zappa, John Cage e Allen Ginsberg, il celebre Duets on Ice in cui si esibisce su pattini avvolti in blocchi di ghiaccio e il juke-box che in una galleria newyorchese suona brani da lei incisi.
Sì, perché nel flusso di iperattività ha anche stretto amicizia con gli esponenti di spicco della Lovely Music Peter Gordon e David Van Tieghem, è apparsa in raccolte di autori vari e ha pubblicato il 45 giri It’s Not the Bullet that Kills You (It’s the Hole). Mica finita: lavora alacremente a United States I-IV, costosa e fluviale epica multimediale portata in giro per i teatri che, tra le altre cose, è incentrata sulla comunicazione e il linguaggio. Arriverà da lì gran parte del repertorio dei primi LP, inclusa la O Superman (for Massenet) presentata in anteprima all’Irving Plaza nel maggio 1980.
Messa su nastro nel suo studio casalingo con la produttrice Roma Baran e Perry Hoberman a sax e flauto, nell’81 il manager B. George la sistema su un 7” della minuscola One Ten Records. In agosto George è ospite dell’amico John Peel ai microfoni della BBC, fa girare il dischetto e sul pavimento cadono mascelle a ripetizione.
Altri DJ la programmano, il singolo va a ruba e la Anderson telefona a Karen Berg, talent scout della Warner che ha già espresso interesse per i suoi lavori. Contratto firmato seduta stante, in ottobre O Superman (for Massenet) è hit imprevista e contagiosa di un villaggio sempre più globale. E se volete una definizione, chiamatelo art post-rock.
La musica è un virus dallo spazio (e la lingua dell’amore)
Mi sono resa conto che l’unica cosa che conta sono le canzoni d’amore, di ogni genere esse siano.
Intervista a RBMA Radio, 2015
Nel volgere di un semestre, O Superman (for Massenet) illumina d’immenso un 33 giri d’esordio sublime e sul serio epocale. In retrospettiva ha poco senso separare Big Science e Mister Heartbreak per la comune provenienza da United States I-IV e ancor più in ragione di spartiti qui ombrosi e là attraversati da una peculiare solarità, ma che a ben sentire non mostrano cesure. Le due dimensioni si intersecano in gemme che, cancellando la distinzione tra organico e sintetico e impreziosite da testi di rara profondità, indagano la realtà per metterne in luce l’inatteso che nasconde.
Scrosciano gli applausi per il jazz robotico e i sapori circensi della tesa From the Air, per una lunare title track, per le volute insieme cosmiche e terrigne in scia ai Kraftwerk di Let X = X e It Tango. A un’eterea Walking & Falling replica il folk celtico trasfigurato omaggiando l’anima affine Yōko Ono di Sweaters, per la minimale sospensione cameristica Born, Never Asked (la rileggeranno gli Spiritualized: tutto dire) ci sono gli intarsi di multilinguismo, ottoni vivaci e sghemba aria popolaresca di Example #22.
Imprendibile e personalissimo, Big Science, come si conviene a chi schifa e schiva le categorie e nell’anno di Orwell svela la propria concezione del pop. Mandato nei negozi il giorno di San Valentino, l’obliquo ed eccentrico Mister Heartbreak si appiccica alla stessa memoria con la quale lavora, dispiegando ricordi di futuri immaginari però possibili, exotica riscoperta in largo anticipo, saggi di etnografia da laboratorio. Un valore aggiunto è rappresentato dai musicisti, prestigiosi e abili a inserirsi nella visione d’insieme: la fantasiosa chitarra di Adrian Belew, il basso plastico di Bill Laswell, l’apparato ritmico raffinato e puntuale di Anton Fier e Van Tieghem, la partecipazione sul serio straordinaria di William Burroughs, Peter Gabriel, Nile Rodgers.
Eppure ciò conterebbe zero se non ascoltassimo sette composizioni favolose, come una Sharkey’s Day paradigmatica per articolazione e struttura a incastro, la sorella Sharkey’s Night che chiude il programma dipanando funk mutante sul declamare pastoso di Burroughs, l’ascendente viluppo Langue d’Amour, l’inquieta etno-wave ispirata a Thomas Pynchon Gravity’s Angel, lo scorcio di Oriente immaginario Kokoku, la sinuosa e irresistibile Excellent Birds, l’avvolgente risacca Blue Lagoon.
Affermatasi fuori dall’ambito delle arti figurative, la Anderson può permettersi di pubblicare album con cadenze dilatate lungo un percorso multiforme e sorprendente scandito dal continuo mettersi in gioco. Non ha mai riposato sugli allori, la signora. Non quando all’alba del terzo millennio rinnovava lo spirito di Big Science e Mister Heartbreak in Life on a String. Non quando si è presa cura del marito Lou Reed, con il quale adesso “dialoga” artisticamente grazie all’Intelligenza Artificiale. Non quando con i SexMob ha riletto dal vivo il repertorio per «sfidare la gravità, resistendo alla spinta e invertendo la caduta».
È stata lungimirante come pochi altri, perché il futuro può davvero essere un luogo a suo modo persino meraviglioso, malgrado stridori, incertezze e ansie. Basta che ad accompagnarci nell’esplorazione sia una Grande Scienza che non spezza il cuore, ma lo rende più leggero riempiendolo di vita.