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Quella fra Imaad Wasif e Brian Girgus è una storia breve e, se vogliamo, minore. Tuttavia necessaria per comprendere l’intensità dei loro dischi, la rabbia, l’onestà e l’emozione di una coppia di liceali cresciuti insieme fino a diventare autori maiuscoli, nonostante il nome.
Il deserto, la vallata
Palm Desert (già Old Macdonald Ranch, poi ribattezzata per via delle immense piantagioni di palme da dattero) si trova a poco meno di 20 km dalla più rinomata Palm Springs. Il territorio, prerogativa soprattutto della tribù dei Cahuilla, era stato la base della terza armata del generale d’acciaio George Patton prima della Seconda Guerra Mondiale. Negli ultimi sprazzi degli anni ‘80 i Katzenjammer erano già belli che evoluti in Sons of Kyuss, che diventeranno poi Kyuss per portare il rock nello e definire il genere stoner. In zona tendeva le orecchie e agiva interessato anche il leader dei Masters of Reality, Chris Goss, pure lui stabilitosi nella vallata e già passato anni addietro da cover heavy metal a composizioni che dettavano lo stile che poi andrà per la maggiore.
Nei licei cittadini, i giovani studenti tendono a tessere amicizie e relazioni che sbocceranno in altro ed eccoci a raccontarvi di due di loro, Brian Girgus ed Imaad Wasif. Galeotta una t-shirt degli Skinny Puppy indossata dal primo e notata dall’altro, per un legame dapprima basato sull’interesse reciproco, poi sull’amicizia e infine sulla classica giostra di garage e sale prova. I suoni che esploravano in quei giorni, partendo dalla trimurti Pink Floyd/Jimi Hendrix/Led Zeppelin, si ampliano in modo costante, ripescando il passato di Minutemen e Joy Division accanto a un presente che parla i linguaggi di Pavement, Mudhoney e Melvins.
Da liceali, suonare insieme è una scelta cosciente per allontanarsi dal vuoto desertico e riuscire, soprattutto nel caso di Imaad, a rivalersi nei confronti della discriminazione e del machismo della scena rock locale (che poco interessava a entrambi) trovando una via espressiva e una comunione attraverso un diverso tipo di musica. È il 1993, su tutto risuona la forte presenza di Kurt Cobain e l’eco di un’angoscia di una generazione intera espressa con rimpianto che andrà prendersi tutta quanta la scena. Pian pianino i due amici iniziano a frequentare la limitrofa Los Angeles e in particolar modo il club Jabberjaw, al 3711 di Pico Boulevard, Arlington Heights, Central L.A.
Le scelte musicali dei fondatori Gary Dent e Michelle Carr permettono al pubblico di conoscere un suono ampio e variegato che spazia da Beastie Boys ai Teenage Fanclub, tanto che la compilation istituita nel 1994 per sovvenzionare i lavori di ristrutturazione vede sfilare Girls Against Boys, Hole, Unsane e Chokebore. La coppia prende appunti sotto il palco, si adopera per trovare un batterista e viene a conoscenza di quanto si muove fra i coetanei, scoprendo a posteriori che la loro rabbia e intensità avrebbe trovato sodali in quella scena che sul Pacifico stava portando avanti i medesimi ideali DIY.
Due è abbastanza
In realtà, questo periodo si protrae a lungo e i due inizieranno presto a mettere fieno in cascina nella versione duo, guardando a Spiderland come unica e fondante influenza comune. Solo nel 2020, con la pubblicazione su Bandcamp della raccolta Very Early Recordings, possiamo ascoltare i primi vagiti: un poker brani per una ventina scarsa di minuti, in una sessione registrata su un quattro tracce a Indio, California. Il primo singolo, invece, pubblicato per la Punk is My Vitamins di Vernon Rumsey sarà Two Songs: appunto due pezzi, Sometimes I Feel Like a Vampire e Surefire Solvent, registrati nell’estate del 1994 e immediatamente pubblicati. La vicinanza con Vernon era nata proprio al Jabberjaw, con Brian che era diventato una presenza fissa in compagnia degli Unwound ogni volta che visitavano Los Angeles, mettendo così il proprio nome sulle cartine dei prospetti interessanti di allora. Da lì altri due sette pollici faranno crescere una eco enorme nei confronti del duo.
Brass Tacks e Cadence escono nel corso del 1995 su X-Mas Records, e lì Imaad e Brian iniziano sul serio a capire che quel che stanno facendo può suonare interessante su più livelli. Il primo dischetto, dietro a una copertina sulla quale due ragazze tengono a fatica un enorme fucile, lascia libero spazio all’omonimo brano, rilascio di inquietudine, tensione e disperazione. Parti vocali urlate e ritmi o divaghi e secchi. Facile capire come Amphetamine Reptile possa innamorarsi di loro. Star 80 è cavalcata strumentale furiosa tanto che, quanto la voce di Imaad fa capolino sembra un rantolo. La coppia maneggia anche cambi lenti e pesanti, che sembrano immobili e allo stesso intensi, mentre il canto rimane sempre in secondo piano, con una miscela fra doom e shoegaze che lascia intravedere sprazzi di talento potente.
Cadence, al contrario, è più esile, sofferente e lucido. Potrebbe essere preso come stampo per i Lowercase e contiene tutto quello che ci ha fatto amare il duo di Palm Desert. Una furia nera, sbattimento e struggimento, quasi una corsa a perdifiato, quando le lacrime già rigano il volto del perdente, ma il corpo ancora non si è arreso e non riesce a fermarsi. No. 6 Arc è mobile e veemente, urlata fino allo strozzamento e con quegli sbalzi di ritmo che diventeranno un marchio di fabbrica. Parlando di Slint, qui si sentono, eccome, ma sono stati legati e coperti di pece, mentre piove e tutti piangono.
Tramite la combriccola degli Slug (progetto che in quegli anni, a partire dal 1988, sarà foriero di una musica noise e trasversale che prende ispirazione sia da Glenn Branca che dalla Bomb Squad) la coppia prende contatto con Ron Grimley e i suoi Poop Alley Studios, luogo dove nel tempo sono passati anche musicisti poi emersi alle cronache internazionali, come Weezer e Beck. Dopo circa un anno di esibizioni live quello che emerge dalle registrazioni è il debutto All Destructive Urges… Seem So Perfect, che vede la luce il 7 maggio del 1996 per Amphetamine Records prendendo il proprio titolo da un brano uptempo e piuttosto sbarazzino, See No Evil dei Television, da Marquee Moon.
Riascoltandolo oggi, il disco è invecchiato benissimo, le nove tracce sono gravide di cambi di ritmo come fossero maree e l’impeto di Imaad alla voce dà una nota dolente ai brani, a tratti rimbalzando fra un tono colloquiale e uno gridato come nella notevole Palace Vaccine, letale nella sua indolenza. Poi rabbia, e Brian che pesta come un ossesso. Non siamo lontani da alcune linee che verranno sviluppate l’anno successivo da progetti come The Trans Megetti, con un’apatia che si può trasformare in violenza e scarica aggressiva da un secondo all’altro. Il buon Piero Scaruffi arriva a delineare le parti vocali come orribili, i riff distorti e le ritmiche pestate. Nulla di sbagliato si potrebbe pensare: lo sfogo può spaventare e forse c’è anche del nichilismo nello sputare rabbia, visti i trascorsi di Imaad e la possibilità di esternare il proprio io e i propri impulsi distruttivi. Catartico, in questo senso, riuscire a esprimere tutto su disco e, subito dopo l’uscita dell’album, durante un mini tour di sette date fra California, Utah, Colorado, Nebraska e Minnesota.
Insieme a loro ci sono Unwound (che portano in giro Repetition), Pritchard e Oneton (di questi ultimi due progetti si sono perse le tracce nella polvere dei solchi). Stanchi della vita a Los Angeles, tra una frequenza all’UCLA che non va come dovrebbe, una vita sregolata che inizia a pesare sul cantante e il sole perenne che li cuoce facendoli dorare, i Nostri decidono di trasferirsi a San Francisco, dove vengono ben accettati dalla scena locale e vivono in maniera attiva il loro esserne parte, crescendo e facendo ulteriori esperienze. È qui che conoscono Tim Green, già con i Nation of Ulysses, e fanno amicizia con i membri di vari progetti locali attivi nelle scene punk, noise e math come Steel Pole Bathtub, Jawbreaker, A Minor Forest e J Church.
Dalla vallata alla baia
Ancora una volta è però difficile legare la loro opera a qualcuno di coevo, quasi navigassero in una deriva del tutto personale al largo della baia. Più sofferti e liberi di Seam e Codeine, si staccano subito dalla nomea slow core (dicendo di non ricordarsi nemmeno venisse utilizzata allora), iniziando a suonare per un periodo in trio assieme al bassista Justin Halterlein, che venne incluso anche nelle registrazioni del seguito, Kill the Lights. Tim Green dice di non ricordare se avesse ascoltato il loro debutto, ma la sua conoscenza del progetto sopra i palchi gli garantì una continuità in opera.
Si parte con una She Takes Me che porta Imaad a forzare la voce, quasi spiritato. La musica sembra essere controllata, ma è la foga del vocalist qui a fare la differenza e a strapparci letteralmente l’anima di dosso. Sono urla necessarie, tempeste in mezzo a vite e crescite. Una profondità vigorosa che da sempre ha fatto da fil rouge al legame fra Imaad e Brian. Intensità che a tratti spaventa, ascoltando oggi un brano come Neurasthenia, dove l’amore si trasforma in ossessione, dove il suicidio è soltanto un’altra opzione, a qualche centimetro di distanza dal placarsi prendendo fiato.
Kill the Lights è composto solo da sette tracce, ma le ultime, Rare Anger e You’re A King, si prendono quasi ventun giri di orologio. La prima sembra essere un lento movimento a molla che carica per tre minuti e mezzo prima di portarci con sé sulle sue onde immaginarie, da dove far franare in un cumulo di macerie una torre fatta di menzogne e di potere. La seconda invece è un viaggio completo. «Girl, you’re a king / Waive your rights» è un testo sibillino che si espande sgolato e rimasticato per dodici minuti di passione, terminata la quale lascia silenzio e buio come un pugno nello stomaco.
Nonostante il contratto con Amphetamine Reptile fosse pensato per tre dischi, dopo l’uscita dell’album e relativo tour, le risicate vendite fanno svanire la magia nelle parti, con il duo che chiede e ottiene lo scioglimento del contratto e torna a casa da Vernon per cibarsi, ancora una volta, della sua “vitamina”. A occuparsi dell’ultimo disco è sempre Tim Green e il risultato è un gioiello dolente, con una copertina a cura di Pat Whalen sulla quale due figure maschili sembrano bloccate in una sorta di stallo comunicativo, forse addirittura imbarazzo.
The Going Away Present è indubbiamente il loro punto più alto, oscurato da una disperata malinconia, ma leggero nella sua forma, come fosse già disperso nell’aria. Tim partecipa anche come chitarrista acustico aggiunto, mentre il basso è appannaggio di Tiber Scheer (attivo anche nei P.E.E., quartetto che si dilettava di math rock nella Bay Area e che finirà anche per incidere la prima produzione di quella Absolutely Kosher che parecchi talenti ospitò fra le sue stanze, citiamo solo Xiu Xiu, Mountain Goats e Pinback, giusto per buttare un paio di nomi).
Il disco, tra l’altro il primo dei Lowercase che ascoltai ai tempi, quando ancora la mia vita si giocava al di là delle Alpi e le scoperte discografiche erano derivate da veri e propri raid nei negozi di dischi zurighesi, è assolutamente centrato. Perfetto nel suo equilibrio fra sadcore e hardcore, di certo ancora memore degli Slint, tuttavia personale nel macerare il suono in una soluzione di laudano e lacrime.
Un bivio e due strade separate
Con il senno di poi, appare ovvio che non potesse durare a lungo: del resto, quanto in profondità possiamo scavarci dentro senza il rischio di ledere tessuti e nervi, magari di attraversarci completamente lasciando veri e propri buchi alle nostre spalle? Così, con il tempo, l’unione fra Brian e Imaad inizia a barcollare, facendo capire loro che il progetto sta perdendo la propria necessità di esistenza. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma diceva Antoine-Laurent de Lavoisier: così le energie andranno a confluire in storie differenti. Nonostante brani in lavorazione – ma idee e spunti che andavano in direzioni diverse –, un momento di stacco rigeneratore si trasformerà nella fine dei Lowercase, con Brian che entrerà nei Track Star con Matthew Troy e Wyatt Cusick, mentre Imaad, trasferitosi stabilmente a Los Angeles, inizierà a suonare con i Folk Implosion di Lou Barlow e a portare avanti il suo progetto in solo con il nome di Alaska!
Nonostante questo, il suono dei Lowercase risuona ancora, in quella malinconia spettrale e in quella capacità di usare pochi elementi per trascinarci dentro le loro storie e le loro vicissitudini. Certo, non siamo mai riusciti ad assistere a qualche loro show. Certo, sarebbero potuti diventare un gruppo di culto. Certo, se solo le reazioni fossero state più calorose. Invece ci rimangono una manciata di dischi che sono per pochi, di quelli che si masticano fra i denti al mattino presto, quando l’aria fredda ti aggredisce e si deve nonostante tutto camminare per arrivare da qualche parte, magari controvoglia. Di quelli scritti in minuscolo ma che generano maiuscole emozioni. Per questi momenti nulla di meglio dei Lowercase al giusto volume. Per farci sentire imperfetti e inadeguati. Umani, nella maniera più corretta.