[Storie] Marlene Kuntz: 30 anni di ineguagliata Catarsi
Un disco, 59 minuti, 1994. Ovvero Catartica, l'esordio dei Marlene Kuntz: così lontano, così vicino.
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Difficile decidere come trattare un anniversario. Ricordo, nostalgia, la collocazione rispetto alla propria vita o nella scena dell’epoca. Tagliando la testa al toro, si potrebbe anche solo scegliere di ascoltare il disco e iniziarne a scrivere in un flusso di coscienza che ripercorra un’ora di tumultuosa espressività e angst tutt’altro che teenage. Ed è esattamente quello che abbiamo fatto.
Artista: Marlene Kuntz
Titolo: Catartica
Anno: 1994
Tracklist:
M.K. – 3:23 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Festa mesta – 4:14 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Sonica – 6:38 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Nuotando nell'aria – 5:20 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Giù giù giù – 3:19 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Lieve – 3:42 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Trasudamerica – 4:59 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Fuoco su di te – 3:29 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Merry X-Mas – 3:18 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Gioia (che mi do) – 5:03 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Canzone di domani – 3:52 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Mala mela – 5:19 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
1º 2º 3º – 4:31 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Non ti scorgo più – 2:32 (testo: Cristiano Godano / musica: Marlene Kuntz)
Formazione:
Cristiano Godano – voce, chitarra elettrica
Riccardo Tesio – chitarra
Gianluca Viano – basso
Luca Bergia – batteria
Marlene che si autoinvita alla festa solo per vederla fallire
Per una volta questa non sarà una storia contestualizzata né un resoconto con origini, sviluppi e conclusioni. Non ci si chinerà sulle possibili sliding doors, né su padri, figli e figliastri. Vero, è una commemorazione, o per lo meno è un compleanno, ma per il sottoscritto è solo l’occasione per scrivere la cronaca di un disco che ho conosciuto recuperandolo in ritardo. Non lui né io: semplicemente, Catartica. Esordio dei cuneesi Marlene Kuntz che ho conosciuto dopo aver sentito la loro seconda opera, Il vile, dove già i versi baloccavano tra api regine, culi sfondati e orditi, trame, stoffe e seta.
Qui siamo nel più acre, diretto e centrato noise-pop mutuato da ascolti di Sonic Youth, Butthole Surfers ed Einstürzende Neubauten. Aggiungeteci un frontman, Cristiano Godano, mai più così centrato nel sintetizzare tormenti interiori, di base e sociali. Quattordici brani per quasi un’ora di musica, con la presunzione di iniziare con una canzone praticamente omonima, M.K., che spezza e spazza, che inizia in sordina e poi esplode, fra spari e crani che schizzano ovunque. Il «rock sulla tua crapa dura» è sicuramente lanciato ai vecchiazzi del posto, ma soprattutto a dei pari che non li capivano, mentre l’idea era quella di entrare nel fiore dell’intellighenzia che probabilmente li avrebbe derisi. C’è una foga, in questi Marlene Kuntz, indubbiamente figlia dei progetti prodromi ma che qui, in questo momento, in questo luogo, prende vita e si accende. MK? OK.
Poi ci siede al tavolo, la gente fa salotto, però è difficile essere integrati e mischiarsi se le basi mancano e se la voglia non c’è. Quindi tanto vale mandare tutto apertamente a puttane, la festa è mesta e il punch è molto più buono sorbito sulle macerie, tra gli sguardi assassini dei convitati. E c’è lei, certo, lei che silenziosamente la si manda a cagare in una vicissitudine di relazioni che ha lo stigma del macello.
La tempesta prima della quiete
Il terzo brano, per me, è sempre legato al racconto che di lui fece un amico di mio fratello, quando, a Milano per lo show dei Prodigy, si vide salire sul palco delle figure magre, sciatte e quasi inermi.
Gli sguardi della gente erano pieni di sufficienza. Eppure, nella lunga orbita strumentale, qualcosa prima del riff a un minuto e mezzo dall’inizio, lasciava presagire il peggio. Nel senso del meglio, s’intende. Era Sonica: una roba da orso, il suo muoversi. Un maelstrom che trascina tutto con sé e che dimostrava – e dimostra ancora oggi – che il rock in italiano poteva essere spaziale e pesante dall’inizio alla fine. Siamo quel dannato plantigrado in enorme difficoltà, così nervoso. Intorno a lui le stelle, dentro di lui, peggio ancora, un cazzo di universo che si rivolta, un cristiano che urla, chitarra basso e batteria che furoreggiano. «Sonica, so-so-so-sonica, sonicaaaa!».
A un certo punto bisogna decomprimere, far entrare la carne e farla entrare leggera, in un amore in assenza di gravità, batteria con bacchette come grissini leggeri, una chitarra e le moine, l’amore e la pelle, un’epidermide che si dibatte e si muove alla ricerca del contatto ma l’aria, intorno, è più nebbia che altro. Brutta storia un cuore in gabbia, una virtualità che reprime e che incatena: certo che poi si urli e si esploda. E basterebbe soltanto un grammo di gioia del tuo sorriso, che pena.
In picchiata, poi di nuovo a librarsi nervosi e leggeri
Allora scendiamo, in picchiata, Giù giù giù, incontro a un maligno che ci ributta addosso la nostra rabbia. Esce la lussuria, lo sdegno, quel vezzo maligno che spesso i Marlene Kuntz si porteranno con sé. L’assenza, il liquame stilla dal buco, bava, libido, l’uomo che si fa bestia nei suoi istinti. Si viaggia che è un piacere e gli inserti strumentali spingono a danze forsennate, sulle quali il ritorno della voce è miele sulle ferite aperte.
Poi ci ritroviamo, a occhi chiusi, in quello studio di Videomusic dove Giovanni Lindo Ferretti e i CSI ci avevano dato in pasto per la prima volta Lieve, presentandoci le difficoltà vocali che avrebbe potuto provocare nel deus ex machina del Consorzio Produttori Indipendenti. L’originale è summa della poetica marleniana: spazi aerei, pensieri alti, nervosismo strumentale. Ma forse, sicuro, è il bene più radioso che c’è. Il poter sparire dal mondo, da se stessi, dagli altri, farlo in maniera leggera, quasi che la loro figura possa perdersi fra la nebbia e il nebbiolo.
Dall'America alle armi, mentre il Natale incombe
Ma non c’è riposo, non c’è possibilità di stare fermi, che i rigurgiti non sono ancora finiti. Il continente è al di là dell’oceano, si sente ancora il profumo delle esperienze, dagli agiti avventurieri, delle crescite cercate fuori dagli schemi. Una fotografia risveglia i ricordi, Federica e i suoi sandali, quel che manca nessuno potrà ridarlo ai nostri ma rileggerlo è un modo per serbarlo per sempre. Do you remember? Do you agree?
Dall’America alle armi? È un caso? Non sta a noi dirlo, del resto è al Signore che i Marlene si rivolgono per fare fuori qualcuno. Fuori di testa, gente che ha perso la testa, che vola e non si ritrova più. Non sappiamo se l’intento si sia trasformato in realtà ma l’idea di vomitare sui nostri piatti migliori, ammettiamolo, era realmente a effetto. Le chitarre sembrano serpenti e le batterie scoppi di petardi, danze totemiche e sciamannate.
Ridendo e scherzando si è fatto dicembre, la festività incombe e si cerca in qualche modo di tenerci stretti i pochi che potrebbero salvarci da… cosa? I parenti, il futuro, la famiglia, la notte o la vita. Comunque sembra pressappoco un attacco di panico questo: pare di vederli in giacchetta al freddo piemontese bloccati senza vie d’uscita, le luci del focolare come antro infernale e l’unica via di là, nel buio, alla fine delle note.
Venire da soli, non venire mai
Parlami, chiedimi, non mi ridere, non mi trascinare, assecondami, ascoltami, amami. L’esercizio della masturbazione, il sonno alcolico, la Gioia (che mi do), il caracollare in condizioni verosimilmente indecenti, le urla al cielo e un sorriso di chi si basta. Il resto è fuori, lui piegato e senza fiato. Il canto si fa un bisbiglio, un delirio, la dignità perduta, gli sguardi, gli accenni e la bocca piegata in quella maniera.
Canzone di domani è una di quelle botte che salgono ancora addirittura dopo anni, partendo sui medesimi temi, su giri che sembrano ormai assimilati, ma che grazie a un equilibrio perfetto fra melodia e rumore concretizza i Marlene Kuntz come una band che (ricordiamolo, era comunque esordiente) unisce armonia, storture, libido e testi mai banali che riescono ad aprire porte inaspettate. Rispetto massimo per te, e sgargarellata di chitarra finale che ci rimette in sesto, pronti a cogliere il frutto proibito.
Dal Paradiso ai piedi del podio, prima della fine
Staccala tu quella marcia mela, in un brano che sembra essere più un passaggio di stato verso una condizione dove l’Altro e l’Io non hanno più importanza, tanta è la lontananza con gli altri. Potrei sbagliarmi, certo, del resto non ricordo esattamente cosa ci fosse scritto nel libro La tua vita nel sociale, ma considerando che nel giardino dell’Eden difficilmente avremmo avuto la possibilità di ascoltare certa musica, direi che ci è andata bene: pisciala fuori e a posto così.
Poi il momento supremo, il brano cardine nella rappresentazione della rabbia, quattro minuti e mezzo che rimangono i migliori da ascoltare a volume massimo, spingendo sul gas e urlando per una giornata uno sguardo o uno scambio sghembo. Quel che potrebbe andar male lo farà, certo Murphy, ma noi già non ce la facevamo più e tutti i metodi, compresi la pistola a sparare «merda Carlo aborto», avevano fatto cilecca. Nessun dramma: si fa ripartire, si urla di nuovo, si prova a fare di peggio, ancora una volta, fino a riuscirci a salire sul podio: primo, secondo, terzo.
Purtroppo siamo alla fine. I saluti sono onere e onore di uno stacco strumentale che rimane memorabile e ci dimostra di come Godano e compagni riuscissero, già allora, a sorprendere fra le diverse atmosfere della loro musica. Non ti scorgo più, ma soprattutto non ti scordo più, Catartica.
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