[Storie] Reggatta De Blanc: il capolavoro dei Police come band
Non erano solo Sting, ma una band vera, un'alchimia irripetibile. Ascoltare per ricredersi!
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Il primo successo dei Police è anche l’album che meglio restituisce una miscela sonora di successo. Tra vivacità pop, minimalismo post-punk e trasfigurazioni reggae, una pietra miliare scolpita da tre talenti diversi ma complementari.
Artista: The Police
Titolo: Reggatta de Blanc
Anno: 1979
Tracklist:
Message in a Bottle – 4:50 (testo e musica: Sting)
Reggatta de Blanc – 3:05 (musica: Sting, Andy Summers, Stewart Copeland)
It's Alright for You – 3:12 (testo e musica: Sting, Stewart Copeland)
Bring on the Night – 4:15 (testo e musica: Sting)
Deathwish – 4:12 (testo e musica: Sting, Andy Summers, Stewart Copeland)
Walking on the Moon – 4:59 (testo e musica: Sting)
On Any Other Day – 2:57 (testo e musica: Stewart Copeland)
The Bed's too Big without You – 4:25 (testo e musica: Sting)
Contact – 2:37 (testo e musica: Stewart Copeland)
Does Everyone Stare – 3:48 (testo e musica: Stewart Copeland)
No Time This Time – 3:17 (testo e musica: Sting)
Formazione:
Sting– voce, basso
Andy Summers – chitarra, tastiere, cori
Stewart Copeland – batteria, cori
Ghosts in their own machine
Non di rado, le carriere soliste che prendono il via allo scioglimento di un gruppo ne svelano gli equilibri nascosti. Altrettanto spesso, a sommarle, quelle carriere non valgono la metà di quando i membri militavano nella stessa formazione ed è allora che possono arrivare delle sorprese. Prendete l’oggetto di questo articolo: tutti a pensare che Sting fosse il leader, invece l’irripetibile alchimia dei Police era frutto di personalità distinte. Di tre talenti in là con gli anni che, diversi per peso, entità e retroterra, si incrociano armonizzando (e scontrando) i rispettivi ego.
All’epoca, Gordon Matthew Thomas Sumner in arte Sting è quello con il curriculum pregresso più scarso: professore di liceo e bassista cresciuto a Beatles e jazz che suona fusion a Newcastle, laddove Stewart Copeland ha già fatto progressive fiamme nei Curved Air e Andy Summers porta sul groppone trentacinque anni sul serio suonati allorché entra in squadra. Buon ultimo però basilare per spiccare il volo, Summers vanta trascorsi con George “Zoot Money” Bruno, Soft Machine, Animals, Kevin Coyne e nella fantastica meteora psichedelica Dantalian’s Chariot, quindi non sorprenderà ascoltarlo collaborare con Robert Fripp. Sarà sufficiente ricordare le trame allestite nei Police attorno alla (parole sue) «sofisticata ricerca armonica» innestata sulla mescolanza tra ritmi in levare e punk.
I suoi arpeggi e le cascate di accordi di nona sono responsabili della tipica atmosfera impalpabile, fluttuante e percorsa da una tensione latente, che sul piano ritmico si riflette in un’energia compressa e, più in generale, in un clima piuttosto stranito. Il risultato è unico, poiché (senza allontanarci geograficamente né cronologicamente) nelle mani dei Clash e di Joe Jackson la medesima fusione è faccenda diversa. Comunque superiore, tuttavia non è questo il punto. Il punto sono hit planetarie di elevata qualità, un respiro pop dalla moderata sperimentazione, l’intelligenza che prevale sui luoghi comuni.
Tornando al reciproco interagire tra le prime stelle espresse dalla new wave, spicca l’apporto di Copeland, virtuoso mai sopra le righe che, con sincopi e nervosi contrappunti, costruisce intelaiature di fantasiosa solidità. Infine, l’uomo al microfono, e, di conseguenza, più degli altri sotto le luci della ribalta, è il principale autore di brani originali e immediati, offerti con una voce riconoscibile in grado di adattare con personalità le influenze soul e rhythm’n’blues. Ciliegina sulla torta, è in possesso del physique du rôle da belloccio intellettuale sensibile e riservato. Insomma: nemmeno rinchiudendo uno stuolo di creativi in una stanza si sarebbe escogitato qualcosa di così equilibrato.
La prova di come funzionasse bene un meccanismo di non facile gestione – e la dimostrazione dell’assioma esposto in apertura – si trova appunto nei percorsi in solitaria. Con poche eccezioni, colpisce (soprattutto per l’ex frontman, non solo se si cimenta con il vecchio repertorio) l’assenza di ingredienti fondamentali. Come per i più defilati compari, pensi che l’esito avrebbe potuto essere migliore e ti chiedi che aspetto avrebbe in un ipotetico album del trio.
Alla fine, il confronto con i vertici raggiunti dai Police (la cui parca discografia, diciamolo pure, non è esente da pecche) diventa schiacciante e Sting, Copeland e Summers prendono l’aspetto di fantasmi nella macchina da loro creata. Una macchina che a cavallo tra anni ‘70 e ‘80 li ha resi ricchi e famosi con pieno merito, grazie a una corposa manciata di classici e a Reggatta de Blanc. Un capolavoro che è opera di una vera band.
A bit of synchronicity
È stata raccontata così tante volte, questa vicenda, che quasi ci vergogniamo a riproporla. Eppure, ragionandoci sopra, realizzi che tra gli eventi e le canzoni che chiunque conosce esiste un filo rosso, rappresentato da una chimica che prende progressivamente corpo, fungendo da combustibile per la creatività e coronando le ambizioni. Un po’ cavalcando l’attualità e un po’ andando controcorrente, con il cinismo, la scaltrezza e la tenacia che si hanno a una certa età, i Police sono stati abili nell’assemblare un puzzle con quanto il destino ha concesso loro.
E questo fin dal principio, ovvero da un sabato dell’autunno 1976 in cui il giramondo statunitense Copeland incontra Sting a Newcastle e i due si scambiano recapiti e promesse. Tempo dopo, nel suo appartamento di Mayfair squilla il telefono: Gordon eccetera è giù in strada, chiama da una cabina e vorrebbe fare una chiacchierata. La sua band è andata a rotoli, ha intenzione di giocarsi un’altra carta e il padrone di casa, pure lui a piedi, suggerisce di lanciarsi in una jam. L’intesa scatta ed eccoli in cerca di un chitarrista per inserirsi nel subbuglio punk.
Lo trovano in Henry Padovani, nativo della Corsica che funge da lasciapassare nella scena: nel marzo 1977 tengono il primo concerto ed entro due mesi mandano nei negozi il singolo Fall Out / Nothing Achieving, ruvida e sferragliante farina del sacco di Stewart. A completare un “affare di famiglia” il marchio Illegal cofondato con suo fratello Miles, esperto del settore poi a capo di una I.R.S. che avrà in catalogo R.E.M. e Wall of Voodoo. Frattanto, Mike Howlett ha varato gli Strontium 90 con Summers e Sting e quando Chris Cutler degli Henry Cow declina l’invito, anche Copeland si aggrega.
Benché effimero, il progetto dell’ex Gong permette di accogliere Andy nel gruppo, che prosegue in quartetto fino all’estate. Fuori Padovani, le tessere vanno a posto: in bolletta, i tre girano uno spot pubblicitario e devono tingersi i capelli di un biondo ossigenato che tornerà buono per l’immagine, come del resto il formato power trio che in quel frangente storico, con l’eccezione dei Jam, rappresenta una rarità. E ancora: il piede tenuto nell’art rock lavorando con l’eclettico Eberhard Schoener e le sonorità che imboccano altre strade quando l’amico americano introduce Sting al reggae e Summers dona linfa a strutture e arrangiamenti.
Il bello è che Miles Copeland storce il naso al suo ingresso, ritenendo che possa minare la credibilità underground. In realtà, con il punk i Police c’entrano poco: lo “sfruttano” con la giusta dose di pragmatismo, interpretando una nascente new wave in materiali che sarebbe ora di fissare su nastro. Detto, fatto: ottengono in prestito 1.500 sterline dal Copeland maggiore e spalmano le registrazioni lungo un semestre al Surrey Sound di Nigel Gray. Ogni tanto il mecenate passa e li sbeffeggia finché non ascolta una canzone tagliente e torbida con un ritornello luminoso che, dall’iniziale bossa nova, ha cambiato passo su iniziativa del batterista. Roxanne basta e avanza per convincerlo a impugnare le redini manageriali e spalancare le porte della A&M.
Messages in a bottle
All’inizio nessuno si accorge di quel gioiello. Nella primavera 1978 la BBC non lo programma e, con gesto à la Malcom McLaren, Miles sparge la voce che sia bandito per il testo (il protagonista è innamorato di una prostituta) e tramuta tutto in un mezzo promozionale. Di nuovo, nulla di fatto. Migliore fortuna per un’incisiva Can’t Stand Losing You che lambisce il fondo dei Top 50 nazionali, anche se – ironia della sorte – viene effettivamente bandita a causa della copertina. Altro buco nell’acqua l’eccellente gioco di ripartenze con acido assolo chitarristico di So Lonely, che a novembre cerca di trainare il 33 giri d’esordio.
Malgrado un lato B zoppicante, Outlandos d’Amour delinea le sonorità che faranno grande la band, ripescando i succitati assi a 45 giri e investendo con piglio punkettaro l’unione tra reggae e rock. Eloquenti la (stilosa) partenza a testa bassa Next to You e una Peanuts verso l’orlo della crisi di nervi, si collocano una spanna sotto la tirata Truth Hits Everybody e l’angoscia sardonica di Hole in My Life. La caduta rovinosa giunge a fine programma con l’innodia un tanto al chilo di Born in the ’50s, una Be My Girl-Sally che scippa in modo maldestro l’idea della bambola gonfiabile ai Roxy Music e il prolisso girare a vuoto di Masoko Tanga.
Spetta agli Stati Uniti imprimere una svolta commerciale: pubblicata colà su singolo nel febbraio ‘79, Roxanne smuove le acque cagionando una ristampa in madrepatria, l’apparizione a Top of the Pops e l’inizio della scalata intanto che il terzetto, battendo un ferro ormai ben caldo, confeziona il secondo LP. Oltre che nella maturità della scrittura, le fondamenta di Reggatta de Blanc sono da individuare nella coesione esecutiva lasciata in dote dai concerti: è lì che, a corto di materiale, si è fatto di necessità virtù espandendo le trame con spunti successivamente rielaborati in canzoni compiute.
Aggiungete una A&M che (ancora) non assilla chi, rifiutata la proposta di uno studio più grande, torna fiducioso da Gray coprendo i costi con una parte del ricavato di Outlandos d’Amour per mantenere il controllo artistico. Mossa saggia che permette di lavorare con calma su quarantuno minuti dei quali non butti nulla: annunciato da un autoironico francese maccheronico, il “reggae del bianco” è un succedersi di colpi da maestro, che conducono la formula alla perfezione assoluta esemplificata nell’inno alla solitudine contemporanea Message in a Bottle e nell’aeriforme, estatico intarsio Walking on the Moon.
Raffinato, policromo e forte dei due successoni, Reggatta de Blanc incanala l’irruenza in configurazioni dilatate (l’inquieta Bring on the Night, una cupa The Bed’s too Big without You dalle marcate volute dub) conservando lo scintillante pop appeal che, sbancate le classifiche, irrobustisce la ruvida eleganza rock wave di It’s Alright for You e No Time This Time, gli XTC evocati dalla strumentale title track, un’ombrosa Deathwish vicinissima ai Devo, la verve sghemba – sempre Andy Partridge dietro l’angolo – mostrata da Stewart in una nevrotica On Any Other Day e nelle allucinazioni Contact e Does Everyone Stare. Immune alla minima incertezza e a cali di tono, l’album dei Police preferito dal batterista (non un caso, verrebbe da insinuare con una punta di malizia) si arrampica ai piani alti delle classifiche con il plauso unanime della critica.
Da qui la strada alterna salite e discese. Nel 1980 il pessimo Zenyatta Mondatta consacra la band, che affronta la celebrità sterzando verso la black e ispessendo le tessiture nel più che discreto Ghost in the Machine. Un biennio e l’ottimo Synchronicity completa la mutazione monopolizzando le charts e sancendo la fine della corsa. Stanchezza, consapevolezza di non potersi ulteriormente evolvere e l’esaurimento della pazienza necessaria a sanare i contrasti interni portano a una pausa e, infine, al rompete le righe. Nel frattempo Sting è uscito allo scoperto con il primo disco solista. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. Parecchio più noiosa, anche, con buona pace dei numerosi fan del belloccio intellettuale, sensibile e riservato.