[Storie] Sessant'anni ad aspettare seduti al parco, insieme a Billy Stewart
Una carrellata delle migliori versioni di un capolavoro senza tempo come "Sitting in the Park".
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Le canzoni, una volta sbocciate, pian piano perdono il legame con il loro autore e abbracciano percorsi differenti, spesso sorprendenti. Qui, dalla più classica delle attese solitarie con il cuore spezzato in mano, voliamo avanti e indietro sugli oceani, coloriamo toni, rivitalizziamo oppure oscuriamo un gioiellino. Più che semplici cover, quattordici tappe di un viaggio che dal 1965 arriva ai giorni nostri.
Mortal Mirror delle Quix*o*tic è uno dei miei album preferiti di sempre, quelli da portarsi sulla famosa isola deserta, insieme a uno stereo e a tutto il necessario per poter colorare di musica la propria pace finale. In quel disco è inserita una delle canzoni più belle che siano mai state composte: scritta, come molte altre, da un talento andato via troppo presto. Il suo nome era Billy Stewart e la canzone è Sitting in the Park.
Una persona seduta su una panchina, da sola, nel parco. Non sappiamo nulla di lei: se stia aspettando qualcuno o se un incontro sia già avvenuto. In cuor nostro, però, risuona quella canzone, diversa ma uguale per ognuno di noi, e che ha costellato le storie d’amore di molte generazioni.
Sitting in the Park ha attraversato il tempo e girato il mondo, costantemente riguadagnando linfa vitale grazie a innumerevoli nuove versioni negli ultimi sessant’anni. Ogni artista che l’ha reinterpretata ha saputo cogliere il suo spirito e trasformarlo in qualcosa di unico e personale, donando nuove sfumature a un brano che continua e continuerà a risuonare attraverso epoche e generi musicali diversi. O forse è soltanto stata ferma, aspettando che il tempo passasse per tutti meno che per lei e il mondo le girasse intorno fino a perdere l’equilibrio, ubriaco della sua bellezza.
Comunque sia andata, non è ancora finita. E allora… suonala ancora, Billy!
Billy Stewart: Sitting in the Park
Nato a Washington DC, classe 1937, William Stewart II, fisico parecchio massiccio, inizia a suonare con i suoi tre fratelli Johnny, James e Frank come The Four Stewart Brothers. Tramite le sessioni con i Rainbows Incontra Bo Diddley, del quale diviene session men, partendo con lui alla volta di Chicago fino a riuscire a incidere per la prestigiosa Chess Records: si toglie parecchie soddisfazioni, insomma. Durante il corso degli anni ‘60 il suo stile vocale e compositivo gli darà lustro, arrivando diverse volte nelle Top 30 R&B e anche nella Hot 100 di Billboard.
Sfrutta la tecnica dello scat, riuscendo quasi a sdoppiare la propria voce, in un’irrefrenabile gioia dell’ugola. Sitting in the Park riuscirà a raggiungere il quarto posto nelle classifiche soul dell’epoca. In quell’anno, solo per citare alcuni brani che hanno fatto lo stesso, ricordiamo My Girl dei Temptations, Got to Get You Off My Mind di Solomon Burke, In the Midnight Hour di Wilson Pickett, Papa’s Got a Brand New Bag di James Brown. Tradotto: il livello non era alto, era altissimo.
Il suono di Billy Stewart è caldo, picchiettato dagli acuti dei coristi che ne preannunciano l’arrivo: voce di petto, si gigioneggia il giusto in un afflato lirico che letteralmente sbrodola oltre i margini. Il ritornello è magico fra i toni alti e bassi che vi si intersecano, con il coro che parte sotto per poi alzarsi, in una cornucopia di amore verso la persona attesa.
Purtroppo Billy muore in un incidente stradale nel 1970, dopo averci lasciato versioni incredibili di classici come la Summertime di George Gershwin.
Georgie Fame: Sitting in the Park
Sitting in the Park è stata ripresa in più versioni, da progetti eterogenei, a partire dal 1966. Inizia Georgie Fame (alias di Clive Powell), nato nel Lancashire, vicino a Manchester, nel 1943.
Inizia a suonare il piano all’età di sette anni e a quindici occupa le sue serate esibendosi nei Dominoes. Dopo un concorso canoro gli viene offerta una posizione da backing di Rory Blackwell dei Blackjacks. Voce sensuale e polso fermo, negli anni suona per Billy Fury e Marty Wilde. Accompagna in tour artisti come Gene Vincent ed Eddie Cochran, ma a inizio anni ‘60 si prende il nome che utilizzava per accompagnare appunto Fury, e crea i Blue Fame insieme a Rick Brown.
Sarà uno dei primi artisti bianchi a dichiararsi influenzato dallo ska giamaicano e, sedendosi nel parco, compie un piccolo miracolo di eleganza, nel quale è facile immaginarlo a piedi nudi su una spiaggia bianca a Kingston mentre si diverte con l’arrangiamento di fiati a trasportare il suo romanticismo sotto il sole bruciante dei Caraibi. Stuolo di tamburi, fiati come se la barca di Love Boat fosse ancorata poco lontano.
Owen Gray: Sitting in the Park
Si rimane in Giamaica per una versione lover a opera di Owen Gray, reputato una delle prime star locali a livello musicale.
Voce affilata e acuta, supportata dal suono della sua band, i Maximun Breed. A vent’anni (nel 1959) è uno dei primi cantanti a collaborare con il sound system di Sir Clement Dodd, boss del celeberrimo Studio One. Cinque anni dopo si esibisce già regolarmente in Europa e nel Regno Unito.
È il 1968, forse il 1969, quando scelgono di far uscire un 7” in Inghilterra, con due strike secchi incisi, uno per lato. Side A per Ben E. King (a essere ritratta è infatti una solare e piuttosto grezza Stand By Me), mentre per la B side sceglie una via molto più leggera e aerea, ricolma di falsetti, un misto fra soul music, reggae leggero leggero, delle coriste che sembrano venire dritte dagli anni ‘50 e tanto, tanto amore, in un parco scintillante.
Keith Hampshire: Sitting in the Park
Keith Hampshire nasce a Dulwich, Londra, ma si trasferisce all’età di sei anni in Canada, da dove torna ventunenne per lavorare come DJ per la radio pirata Radio Caroline.
Voce potentissima, riesce in carriera a piazzare tre brani nella Top 10 canadese e la sua versione di Sitting in the Park, nel 1973, è colma della sua ruvida bontà. Roco il giusto, alleggerito quanto basta dalle scintillanti coriste, fiati cristallini e verve da imbonitore blasé. E poi uno stacco urlato che è puro velluto beat e trasforma l’attesa rigorosa e ordinata in una foga nella quale la panchina viene letteralmente sommersa dalla sua esuberanza.
Slim Smith: Sitting in the Park
Si torna in Giamaica con Slim Smith, definito il più grande vocalist a emergere in tutta l’era rocksteady.
Prima leader degli Uniques e poi come solista ha girato in lungo in largo Giamaica ed Europa, riscontrando un ottimo successo. Come per Keith Hampshire, siamo nel 1973 quando la canzone raggiunge le radio (il brano uscirà postumo, sul suo album Memorial), ma siamo – come si può immaginare – su pianeti completamente differenti. Qui Slim – schietto, solare, scarno e vibrante – si arrampica grazie ai suoi falsetti gestendo non solo la panchina, ma tutto il parco, tra fiori e farfalle.
Personalità fragile, finisce in un turbinio di cure psichiatriche e passa all’altro mondo nel 1972, dopo essere rimasto senza chiavi ed aver sfondato la finestra della casa dei genitori procurandosi un taglio al braccio che lo lascerà dissanguato.
Mike Patto: Sitting in the Park
Passa un anno e Mike Patto è giunto al termine dell’avventura con i Patto, che interrompono la scrittura del loro quarto album (Monkey’s Bum, che non verrà mai completato), e sta progettando i Boxer, che lo vedranno protagonista insieme al chitarrista Ollie Halsall a partire dal 1975 per tre dischi e quattro anni, dopo i quali Mike perirà nemmeno quarantenne per una leucemia.
Sitting in the Park sembra una pausa, una piccola sosta in mezzo a un Hyde Park solare e conciso, dove si sentono ricami di chitarra su un impianto tipicamente giamaicano. La voce con un veloce raddoppio di parola sulla prima battuta dà una piccola scarica al brano che si mantiene rilassato ma con un buon movimento, per un momento ritemprante, sereno e molto, molto godibile.
Winston Francis: Sitting in the Park
Si ritorna in zona Studio One con Winston Francis, personaggino che nel suo secondo album (California Dreaming del 1971) si permetterà di utilizzare come coristi Bunny Wailer e Bob Marley.
A sedici anni si trasferisce a Miami, dove si iscrive a una scuola di musica, iniziando a esibirsi con la Afro Jamaican Band di Carlos Malcolm. La sua visione del parco è assolutamente mirabolante: puntuta, colorata, forte di voci femminili sullo sfondo così flautate da sembrare uscite da un cartone animato. Ma la verve e la grazia con le quali Winston passeggia sul selciato di Billy Stewart è incredibile. Quando apre l’ugola e si lancia in impervi entusiasmi ci si sente come in quelle scene da musical dove tutti, senza nessuna ragione, smettono di fare la qualunque per ballare e cantare all’unisono.
Ammetto, mea culpa, di aver trovato questa mania forzata, prima di ascoltare questa versione. Ovviamente non ci permetteremo mai più di rientrare sull’argomento. Si è fatto il 1974 e la panchina non accenna a perdere smalto.
Dr. Alimantado: Sitting in the Park
Che dire poi di Dr. Alimantado? Celeberrimi i suoi legami con il reggae e Johnny Rotten, Winston Thompson a.k.a. The Ital Surgeon nella carriera ha collaborato con molti sull’isola, sempre distinguendosi per temi trattati ed eleganza nel canto.
Trova la sua via quasi soffiando a mo’ di locomotiva il testo, sopra il motorico arrangiamento che nella versione greensleeves trovata online si propaga per più di otto minuti. Il parco segue il suo viaggio in treno portandoci in altri mondi, dimostrando polmoni e caratura da soulman navigato che si spinge fino al limitare, oltre la siepe, là dove si vede il mare, lo skyline delle città, la famiglia e gli amici. Ci stanno tutti sul soul train guidato dal dottore, per una versione che non vorremmo mai sentir finire.
Bobby Thurston: Sittin' in the Park
Ancora Washington DC: Bobby Thurston apre gli anni ’80 con una versione scintillante, facendosi forza della sua stazza vocale e fisica, muovendosi leggiadro in un dancefloor sostenuto dai controcanti dei sodali e dai suoi stessi gorgheggi.
Bobby, un classe ‘54, fa la sua gavetta iniziando con il suonare le congas insieme agli Spectrum LTD, poi incontra la coppia di produttori formata da Willie Lester e Ronnie Brown che lo portano in studio per registrare il suo debutto, You Got What It Takes: cinque brani che si estendono per più di trenta minuti assolutamente ubriacanti.
È un nuovo decennio e Bobby lo cavalca alla grande, riuscendo a modificare il brano – ormai un classico – per portarlo sulla pista da ballo in una danza morbida, bypassando il parco e infilandosi direttamente negli androni più bui e caldi della notte.
GQ: Sitting in the Park
I GQ – già conosciuti nel Bronx come Sabu & the Survivors, in una prima fase, e poi come The Rhythm Makers – sono stati un progetto che ha viaggiato per quasi trent’anni nella scena.
Al momento della registrazione di Sitting in the Park, all’interno di un tributo a Billy Stewart, viaggiavano in quartetto, ma negli anni hanno più volte cambiato parrocchia sonora, annusando disco, R&B, soul e funk con diversi rimaneggiamenti.
Nati intorno a Keith Crier (già Sabu), bassista e cantante, si componevano al tempo di Emanuel Rahiem LeBlanc alla chitarra, Herb Lane alle tastiere e Paul Service (subentrato a Kenny Banks nel 1978).
Qui il suono è sintetico e laccato, ma le linee vocali sono talmente sentite e spinte che non si può che cadere vittime dello charme dei Nostri, veri e propri riempipista professionisti, ai tempi.
Bobby McClure: Sitting in the Park
Sempre Chicago, dove Bobby McClure vanta un passaggio in quei Soul Stirrers che hanno avuto fra i loro membri anche Sam Cooke, ed è ricordato per il grande merito di aver aiutato a lanciare la carriera di Fontella Bass.
Per quanto riguarda la propria, di carriera, si adopera soprattutto nei singoli, proprio come quello che nel 1980 riprende Sitting in the Park, in un arrangiamento ricco e forse un filo lezioso, ma dolce e sensuale il giusto per fare breccia nel pubblico di allora.
Riascoltando il suo unico album, The Cherry del 1988, ci si ritrova un vocalist ormai maturo che riesce ancora a blandire la sua platea, con savoir faire e mosse ormai introiettate da tempo: sicurezza vera.
Flo & Eddie: Sitting in the Park
Flo & Eddie – già The Turtles e parte dei Mothers of Invention di zappiana banda, amici di Marc Bolan e Alice Cooper – hanno attraversato gli ultimi cinquant’anni di musica pop statunitense barcamenandosi tra commedia, pop, yacht-rock e collaborazioni varie. Impossibile rinchiuderli in poche righe, di certo la rete e la riproduzione casuale potranno aprirvi o riaprirvi un mondo che non immaginavate.
Per quanto riguarda il loro incrocio con Billy Stewart, galeotta fu la Giamaica e il loro disco Rock Steady with Flo & Eddie. Registrato presso gli studi Tuff Gong sotto la produzione di Errol Brown degli Hot Chocolate, doveva essere nelle prime intenzioni un disco di versioni reggae di successi pop americani, ma Brown decise di prendere in mano la situazione educando la coppia alle vera musica giamaicana.
Riprendono così diversi brani celebri (tra le quali la “loro” Happy Together a nome Turtles) e Sitting in the Park non può sfuggire alle loro grinfie. Trattata molto semplicemente (diremmo senza infamia e senza lode), se non fosse per un finale nel quale decidono di lasciarsi andare maggiormente, portandola in un bagnasciuga tropicale che risolleva la loro incursione.
Deadly Weapons: Sitting in the Park
Nel 1986, l’insieme creato da Steve Beresford, John Zorn, Tonie Marshall e David Toop pubblica Deadly Weapons, una colonna sonora fantasma per un film noir mai girato.
L’atmosfera leggera e ambientale, la voce (magnifica) di Tonie che si muove leggera sopra i cenni e i rumori, quasi sibilandoci nell’orecchio la sua attesa verso di noi, in un misto fra candore e lussuria, sono cose che valgono un viaggio nel tempo come quello affrontato per trasportare Sitting in the Park in un altro tempo, in un altro parco, in un altro pianeta.
Quix*o*tic: Sitting in the Park
Bypassiamo le due registrazioni su album live di NRBQ e degli Zombies per giungere alla versione che ha scatenato questo percorso, ovvero il frutto delle sorelle Billotte – Mira e Christine –, qui accompagnate da Mick Barr, già con Orthrelm e Flying Luttenbachers.
Con le Quix*o*tic chiudiamo il cerchio. Siamo nel campo della leggerezza, strumentazione minimale e sfumature in bianco e nero, un sentore doo-wop e un’elasticità irresistibile. Per la prima volta sono voci femminili quelle che affrontano il testo di Billy Stewart, con una morbidità e una bellezza che parte da qui e abbraccia un album, Mortal Mirror, che a distanza di ventidue anni risuona sempre come un capolavoro, almeno per il sottoscritto.