[New Music Weekly] C'è un inedito dei Cure, che vi piaccia o meno, ma anche roba nuova a firma Graham Coxon, GY!BE e Gavin Friday
Settimana 35 – con The Cure, The Waeve, Gavin Friday, The Awakening, The Crown, Fury, Alphabet, Il Lungo Addio, Godspeed You! Black Emperor, Co'Sang & Liberato.
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A meno che non abbiate vissuto su Marte fino a ieri – «Annunciazione! Annunciazione!» –, Robert Smith, dopo un travaglio lungo sedici anni, si è deciso a registrare in studio (perché dal vivo è un po’ che lo sentiamo) qualcosa di nuovo a nome Cure. Suona Cure fino al midollo e, in base a cosa significa “Cure” nella vostra testa, la cosa potrebbe essere un bene o un male. Per noi è un bene.
Sarà lo spirito di emulazione, ma (casualmente?) la selezione di questa settimana è piena di gruppi con il “The” nel moniker. Partiamo con il progetto di Graham Coxon dei Blur insieme a Rose Elinor Dougall delle Pipettes: decisamente qualcosa che pare qui per restare. Proseguiamo quindi con gli Awakening di Ashton Nyte, una sorta di David Sylvian in goth che raramente delude. Senza dimenticare i Crown, che ci riportano ai bei tempi andati in cui la gente, su al Nord, si divertiva a bruciare le chiese di notte, e buttando dentro ovviamente anche Il Lungo Addio di Fabrizio Testa, che meta-cita gli Area offrendo loro una pensione in Riviera fuori stagione.
Senza articoli, infine, ma con un nome, dei titoli e una musica difficile da dimenticare una volta che hai imparato a ricordarteli, salutiamo il ritorno del post-rock canadese per eccellenza: Godspeed You! Black Emperor. E poi i Fury, metal in salsa Worcester, gli Alphabet, londinesi un po’ post-punk e un po’ new wave, il buon Gavin Friday, che insieme a Dave Ball non può fare a meno di finire a mischiare Virgin Prunes e Soft Cell, e i Co’Sang che, per essere sicuri di etichettare il nuovo disco all’insegna della napoletanità, senza se e senza ma chiedono aiuto a Liberato.
Alphabet: Artificial Light
Vagai affrontando le inevitabili intemperie scatenate da un nome fin troppo comune per il Tubo, però i props di Fontaines D.C., Shame ed Egyptian Blue non potevano essere ignorati. Già il semplice ritrovare il primissimo singolo degli Alphabet è costato al sottoscritto un onesto quantitativo di imprecazioni, ma eccolo lì, nel bel mezzo del marasma di video per bimbi che devono ancora imparare l’ordine delle lettere, lucente e nuovo di zecca: Artificial Light.
Fa specie come la prima testimonianza in studio della band londinese suoni come il prodotto di una compagine ben rodata, un pezzo dalle tinte acquose e riverberate che un po’ deve al post-punk, un po’ alla new wave – quest’ultima dalle tinte decisamente cold.
Nulla di innovativo, non ce l’aspettiamo mica, ma tutto quello che gira all’interno di Artificial Light è fatto con criterio e passione: la produzione cristallina che esalta il drumming mascolino, il dualismo vocale che anima una corporatura possente e un ritornello, invece, destinato a lande più evanescenti, l’arietta gelida che si accalora quando le sei corde si ergono e incendiano.
Le orecchie si spostano inevitabilmente agli Eighties, salvo poi riagganciarsi al presente, agli Whispering Sons di Image, ai Preoccupations di Ricochet e ai Twin Tribes, collocando questi giovanissimi in un connubio temporale pressoché intoccabile.
Buona la prima, come si suol dire.
Co’Sang (feat. Liberato): Sbagli e te ne vai
Dinastia nasce per rappresentare Napoli e le sue mutazioni. Era quindi impossibile esimersi dall’ospitare il John Doe per eccellenza della scena partenopea degli ultimi anni.
E allora ecco l’amore e i rapporti umani, in un infinito tira e molla che Liberato serve su un piatto d’argento ai Co’Sang. Sullo sfondo e in primo piano l’eterna battaglia con una misteriosa lei. Luchè è lirico, cercando in qualche modo di gestire queste emozioni per quei momenti proibiti ma indispensabili, Liberato rincara arrivando al francese e prepara il terreno a Ntò che dà il tutto per tutto cercando di dimostrare che anche i più duri possono rappare a petto aperto, il cuore in mano.
Ovviamente il tutto resta in mano alla misteriosa lei: noi possiamo solo sperare e osservare insieme i passi di una sceneggiata musicale napoletana che continua da anni e che con l’unione di questi due poli forse – ma dico forse – potrà conquistare l’amata e perdonarla per i suoi sbagli. Così non fosse, ci sarebbe comunque materiale per ballare nei club e per altre storie d’amore da far nascere tra i bassi e le barre. Sicuramente per i bassi e le barre.
Fury: Prince of Darkness
I Fury arrivano da Worcester (che se non lo sapete si pronuncia “Woster” senza far sentire “rce”), terra di salse famigerate nel mondo dei fegati e di cattedrali gotiche. Sono in giro da una decina d’anni, contano quattro album e una sfilza di singoli: ben tredici, pubblicati nel corso degli anni. Si tratta di una cosa interessante perché esprime nuove strategie di marketing che – anche se a rilento rispetto ad altri generi – si stanno iniziando a diffondere pure tra le giovani leve metalliche. Si tornerà agli album raccoglitori di pezzi sfusi e non all’opera interamente concepita da zero come album? Forse, ma non li chiameremo più 45 giri, anche se il mercato del vinile lucrerà sicuramente su questo vecchio concetto per l’irrinunciabile effetto nostalgia.
Dicevamo dei Fury e di questo brano, intitolato Prince of Darkness. Come potrete notare non c’è molta fantasia. Il nome del gruppo è una sola parola, abbastanza semplice e ricorrente nella metrica heavy, così come Fire, Destroy, Satan. Anvil, Axe o Steele. Ci sono decine di band con questi nomi proibiti dal 1988 e la stragrande maggioranza è nata da pochi anni. Anche i Fury convivono con un sacco di omonimi, ma da un po’ c’è voglia di tornare alla semplicità e il rischio di essere confusi o di pestarsi i piedi attraverso la nomenclatura sembra non essere più preso molto in considerazione nel circuito metallurgico.
E in quanto a tradizioni, anche per il titolo, a livello di banalità non ci si risparmia. Il principe delle tenebre conta almeno una cinquantina di elegie arroventate solo tra il 1982 e il 1986, nel mondo brutallaro. Eppure la freschezza dei Fury si trova proprio in questa immediatezza, nella semplicità senza grandi moine masturbatorie. I riff sono dei riff classicissimi, le melodie non vanno incontro a nulla di inaspettato: niente dissonanze, tranne qualche fugace concessione nel solo di chitarra. Il testo sembra la gloriosa invocazione al lato oscuro concepita da un quindicenne emarginato durante l’ora di chimica, eppure la cosa funziona esattamente così, nella sua robustezza dritta e tensiva. Seducente la florida e sbarazzina Nyah Ifill, la cui voce da una sola ottava, poderosa e schietta, spacca in due qualsiasi velleitaria fame di sperimentazione.
Gavin Friday: Ecce Homo
di Max Zarucchi
Il problema di Gavin Friday è sempre stato quello di essere… Gavin Friday! E poche ciance, il suo nome era, è e sarà per sempre legato a doppio filo con i Virgin Prunes, motivo per cui ogni sua uscita solista ha perlopiù deluso i fan dei cuginetti degli U2.
Eppure nella sua pluridecennale carriera per conto proprio, Gavino non é mai stato avaro di buona musica, certo lontana (a volte lontanissima) dalle intuizioni della combriccola dublinese ma non per questo poco meritevole di ascolto.
Assieme a lui, in questo nuovo capitolo della sua vita artistica, troviamo Dave Ball, che dei Virgin Prunes è stato anche produttore (stiamo parlando dei Prunes più accessibili, quelli di The Moon Looked Down and Laugh per capirsi) ma che passerà alla storia come membro fondatore, assieme a Marc Almond, dei Soft Cell.
Il risultato è quanto più ovvio e scontato ci si potesse aspettare da questa accoppiata: un pezzo ballabile, electro, moderno anche nelle sue nuances rètro, ma con la voce teatrale e profonda di Friday a tenere banco. Eppure funziona, si fa ascoltare più volte e svela a ogni passaggio delle sfumature inedite, segno che il lavoro di produzione è stato tutt’altro che frettoloso o poco curato. Un ottimo singolo dunque, ma a chi piacerà? Semplice: ai nostalgici dei due, che troveranno qualcosa per i loro denti, mentre difficilmente porterà nuovo pubblico al loro cospetto, anche se probabilmente la cosa importa ben poco ormai, no?
L’unico neo davvero difficile da digerire è il videoclip che lo accompagna: una poracciata fatta con la AI (come purtroppo va di moda ultimamente) che, davvero, avesse lasciato spazio a un fermo immagine dei due era meglio.
Godspeed You! Black Emperor: GREY RUBBLE – GREEN SHOOTS
Rinunciare alla propria immagine ha qualcosa di liberatorio, come rompere uno specchio e mandare in frantumi tutte quelle false verità che porta. Da sempre alla scelta dei Godspeed You! Black Emperor di evitare qualunque opzione estetica corrisponde la strategia di una musica sovversiva opposta ai meccanismi di un sistema capitalistico disumanizzante che si nutre degli appetiti consumistici e delle guerre che genera ogni giorno. Ecco perché l’elettricità magmatica dei GY!BE è forse l’ultimo baluardo di opposizione, una linea di resistenza contro l’ignoranza e indispensabile a contenerne il degrado.
GREY RUBBLE – GREEN SHOOTS è la traccia che anticipa l’uscita il 4 ottobre del nuovo album, sempre per la Constellation Records, dal titolo NO TITLE AS OF 13 FEBRUARY 2024 28, 340 DEAD. Il titolo fa riferimento al numero di palestinesi uccisi a causa dell’intervento militare israeliano in risposta agli attentati di Hamas il 13 febbraio scorso. D’altronde, «Questo secolo sarà ancora più crudele» ci dicono. Nei quasi sette minuti c’è tutto l’apparato concettuale dei canadesi, nonché il peso specifico di una fase sonora che si sviluppa a partire da Allelujah! Don’t Bend! Ascend!, con la consueta intensità dinamica che crea saturazioni e abissi infiniti.
Mentre la prima parte si snoda lungo una sorta di epica marziale intrecciata a echi klezmer, la seconda porzione si immerge in una dimensione di malinconico languore sullo sfondo di rovine immaginarie, città bruciate e una nazione con un popolo senza più case. Il messaggio è che il coraggio più grande non è camminare tutta la vita in mezzo a una linea di confine morale disegnata con la lama di un coltello, ma scegliere da quale parte stare. Questo è quello che resta di una musica necessaria a immaginare il crollo di regimi, così come quella libertà che rende uomini.
Il Lungo Addio: Giugno, luglio, agosto nero
Si potrebbe parlare di senso dell’equilibrio nel caso di Fabrizio Testa, da sempre impegnato a incanalare i mille rivoli della sua mente e anche quest’anno – vestiti i panni di Il Lungo Addio in compagnia di Luca Ciffo, Sergio Montemagno e Fabrizio Carrero – il concetto continua a valere.
Qui si spostano gli Area indietro di un mese. È un’estate agli sgoccioli, i bagnanti e i turisti sono scomparsi. Sul lungomare e nelle città deserte si sentono soltanto i lamenti e le scudisciate sonore che sembrano essere in grado di intensificare il dolore in gocce di sudore freddo. Adriatico è il disco dal quale questa chicca è stata strappata, un lavoro che conferma la capacità di portare un certo suono folk apocalittico e industriale sulle spiagge della Riviera, tra palazzotti che potrebbero essere le basi di qualche etichetta discografica rivoluzionaria o di qualche popstar armata e bizzosa. Già, che qui si va al nocciolo della faccenda, minando il romanticismo della canzone italiana, colpendo lo stereotipo dove fa più male.
«Camere d’albergo e silenzi, vorrei partire senza dover morire». La speranza è di tutti, ma viene più facile immaginarci trasportati via dalla corrente piuttosto che ridenti e stanchi su un’utilitaria in autostrada. Forse solo la Madonna dietro la ghiacciaia del gelato potrà salvarci, speriamo.
The Awakening: Mirror Midnight
di Max Zarucchi
Da grandi soprannomi derivano grandi responsabilità. O qualcosa di simile, no?
Ecco allora che l’essere definito dalla stampa specializzata “il David Bowie di Johannesburg” è stata sicuramente sia croce che delizia per Ashton Nyte, ma se è vero che le divinità non si possono toccare (e Robert Jones lo era), è altrettanto fuori discussione che la carriera dei suoi Awakening non è mai stata avara né di buona musica in genere, né di sperimentazione.
Attivo sin dalla fine degli anni ‘90, il Nostro approda oggi al dodicesimo album sotto questo moniker (le collaborazioni sono altra cosa) e se il lavoro riuscirà ad eguagliare il livello del singolo apripista in questione ci si potrebbe trovare di fronte a uno dei dischi migliori del genere in questo 2024.
Sempre in bilico tra Cure, Sisters of Mercy e simili, la musica degli Awakening è la culla dove si posa la splendida voce di Ashton, sorta di David Sylvian in goth che era e resta il vero fiore all’occhiello della sua arte. Allontanate dunque le intuizioni più electro-oriented delle uscite recenti, qui si torna fieri a camminare su sentieri più postpunkeggianti, senza perdere un grammo di quel classico splendore maledettamente dandy. Elegante e raffinato, se non è l’erede di Bowie (e nessuno potrebbe mai esserlo) di certo è uno dei migliori allievi che il Duca Bianco abbia mai avuto, perlomeno in ambito dark wave.
The Crown: Churchburner
I Crown tornano a martellarci il petto e colarci nella carcassa tutta la poesia che può sprigionarsi da un tuono terribile in una notte nera. Dopo un tragitto fatto di pause definitive e ripartenze speranzose, sembrano ormai decisi a portare a compimento la propria parabola musicale infondendo in una struttura serratissima e vicina al brutal death americano quel sentimento esistenziale che permeava le band estreme europee.
Churchburner fin dal titolo richiama un periodo controverso della storia di questo genere, quando un pugno di adolescenti in Norvegia e poi in altri posti del Nord Europa bruciavano chiese per rendere meno noioso il fine settimana e misurarsi le rispettive lunghezze genetiche. Il brano non vuol evocare atmosfere nostalgiche, tartassa la vostra anima grazie alla nuova sezione ritmica del gruppo, tessendoci sopra una rete di melodie epiche e un po’ goth della vecchia scuola.
I Crown forse non sono qui per restare, ma di sicuro hanno un discorso molto personale da concludere. Churchburner è un assaggio del nuovo album, che guarda un po’, si intitola Crown of Thorns, esattamente il nome del gruppo agli esordi, prima che cambiasse moniker per motivi dovuti alle consuete beghe di omonimia con qualche gruppo in giro da prima di loro. Cosa sarà, l’indizio della chiusa di un cerchio o un principio da cui ripartire?
The Cure: Alone
di Max Zarucchi
Piaccia o meno. È uscito, dopo sedici anni, un nuovo singolo dei Cure. Che suona Cure. Solo Cure. Nient’altro che Cure. Non si sperimenta stavolta, non si cerca di replicare i successi dei singoli pop che in qualche maniera depistavano l’ascoltatore ignaro a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, né tantomeno si finge che il tempo non sia mai passato: è il 2024, non il 1981, sia per loro che per chi li ascolta.
Piaccia o meno. La vera novità sta nel portare (questo sì per la prima volta) non un qualcosa di catchy che stia dentro tre minuti, ma un brano che è archetipo del suono per cui i Cure si sono sempre distinti: lunga introduzione che si prende il suo tempo, testo ridotto a poche miratissime strofe (tanto semplici quanto efficaci: il dono della sintesi al servizio del pentagramma), bordoni di chitarre e basso che affogano in un mare magmatico di tastiere dove solo la batteria, a mo’ di tamburo funebre, dà il tempo in maniera rigida quel tanto che basta per evitare l’errore del dondolamento di testa. Al centro di tutto, come sempre, Robert Smith, che è icona da molto prima che dei noiosi colletti bianchi impettiti lo decidessero per lui.
Piaccia o meno. La sua voce sembra avere fatto un patto con il diavolo: un Dorian Grey al contrario dove il corpo invecchia ma il timbro e soprattutto l’espressività rimangono intatte. Nessuno della sua generazione è riuscito a conservare così perfettamente e a lungo lo strumento più importante che ha, così come nessuno ne ha eguagliato l’influenza oceanica avuta su qualsiasi musicista alternative e pop (nell’accezione di popolare) negli ultimi quarantacinque anni. Non importa se goth, metal, dance, elettronica o altro.
Piaccia o meno. Come ogni artista reale, ruba idee e non ha paura ad ammetterlo. Ecco allora che l’ispirazione per il testo di Alone (e per quella che sarà la traccia conclusiva dell’album, Endsong) viene dichiarata apertamente – il poema Feccia di Ernest Christopher Dowson (1867-1900). Come con Lo straniero di Albert Camus, La notte di Franz Kafka, Gli occhi dei poveri di Charles Baudelaire, Charlotte Sometimes di Penelope Farmer e mille altri, Robert assorbe, metabolizza, trasforma, incuriosisce il pubblico altrimenti poco avvezzo alla letteratura ed entusiasma chi invece i libri li divora. Fosse anche solo per questa influenza su milioni di persone, artisticamente parlando di fronte a lui ci si può solo togliere il cappello.
Piaccia o meno. Il popolo del 2024 è inghiottito dai social, lì sfoga la frustrazione di un presente insoddisfacente e cerca continuamente lo scontro sterile, la frecciata, la polemica, la ricerca estenuante dell’Io al centro di tutto e tutti con la ragione autotatuata in fronte. E dimentica, spesso, che ci sono degli personaggi che hanno meritato ampiamente lo status di leggende, a prescindere dai gusti personali di ognuno.
Smith, volontariamente da sempre semirecluso, fa spallucce: è un uomo che a sessantacinque anni nelle interviste esordisce ancora con un disarmante «Ciao, sono Robert dei Cure», vive nel suo mondo e si fa sentire solo se ha qualcosa da dire. A volte è stato confuso perdendo la bussola, spesso ha preso dei granchi e non tutto quello che ha prodotto è imperdibile, ma se queste sono le premesse del nuovo album, stavolta strapperà via il cuore a coloro avranno voglia di comprendere davvero lo spessore di Robert Smith oggi come artista, scrittore e musicista, andando oltre gli stereotipi, i generi, l’immagine e il ciò che – ormai – fu.
Piaccia o meno.
The Waeve: Broken Boys
Il ritorno dei Blur con The Ballad of Darren e il relativo tour, che ha toccato anche l’Italia, ci aveva regalato di nuovo una band che si era dimostrata ancora viva e piena di energia. Ora che sembrano pronti per tornare in stand by, i vari componenti possono concentrarsi sui loro altri progetti, cosa che avviene immediatamente per Graham Coxon che – insieme a Rose Elinor Dougall ex Pipettes – riprende le fila dei Waeve.
Broken Boy – il cui testo esprime una cruda e amara visione esistenziale rivolta direttamente a Dio al quale, con un tono di sfida, si esprime la voglia di abbandonare la festa (leggi: la vita) e buttare via la propria anima – è uno dei singoli che anticipa l’uscita del nuovo album City Lights, un lavoro che sicuramente confermerà come Graham sia un autore dalla vena inesauribile, sempre capace di essere estremamente interessante e coinvolgente.
Il brano esplora sonorità garage rock su un tappeto di sintetizzatori e distorsioni nel quale ovviamente non mancano sprazzi di colori alla Blur che fanno capolino qua e là, contraddistinti dall’inconfondibile sound della chitarra di Graham. Tra gli autori è presente anche il mitico James Ford che ormai è diventato una garanzia e ha lavorato con il meglio in circolazione (Arctic Monkeys, Blur, Depeche Mode, Florence and the Machine, Gorillaz, The Last Dinner Party, Fontaines D.C. e molti altri) e che, in questo caso, non si limita alla produzione dell’album della band, ma dà il suo contributo anche alla scrittura dei pezzi, rendendo il tutto ancora più intrigante.