[New Music Weekly] Con Fabri Fibra c'è sempre gusto, mica come Gina Birch, che ogni volta crea problemi. E poi Caroline, Caroline ovunque.
Settimana 24 – con Caroline & Caroline Polachek, Cheer-Accident, Fabri Fibra & Tredici Pietro, DIIV, Gina Birch, Sea Lemon, Sofia Kourtesis & Daphni, Tapesfromtheloop, Tune-Yards, Twirlies.
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Cominciamo con i Feat. – questa settimana particolarmente interessanti. Pare un meme di Toy Story, ma invece la combo ridondante Caroline + Caroline Polachek è perfetta come il cacio sui maccheroni. Quasi quanto quella che vede la nuova stella nascente della consolle Sofia Kourtesis sponsorizzata dal mentore Caribou (qui in versione Daphni). E che dire poi del ritorno in grande stile di Fibroga? Ci voleva giusto il figlio di Gianni Morandi per renderlo ancora più appetitoso, quasi quanto un gelato banane e lampone.
Ma se parliamo di ritorni in pompa magna, è inevitabile passare dall’ex Raincoats Gina Birch (irriducibile paladina del grrrl power nei secoli dei secoli), dai DIIV di Zachary Cole Smith (oggi in vesti più riflessive, ma non per questo meno efficaci), dagli inossidabili Cheer-Accident (perfetto connubio di caos e melodia) e dai contagiosi Tune-Yards (già belli e che pronti per allietare la stagione afosa).
Il resto è pop (grazie ai Twirlies e a Sea Lemon) che illumina soundscape elettronici scuri e cinematografici, quelli creati da William Buscicchio, che inaugura così il suo nuovo progetto Tapesfromtheloop.
Caroline (feat. Caroline Polachek): Tell Me I Never Knew That
Immagino l’algoritmo di Spotify sia andato in tilt non appena è uscita questa traccia. Due Caroline? In una sola canzone? In qualche sala server sperduta nella Silicon Valley, un recommendation engine sta piangendo amare lacrime di frustrazione sulle sue schede perforate.
D’altra parte si sa: naming things è una delle due cose più complicate non solo nell’informatica, ma proprio nella vita in generale. In ogni caso, al di là di questo, il fatto è che alcune collaborazioni sembrano essere proprio inevitabili. Come il burro d’arachidi con la marmellata. O l’angoscia con il capitalismo. O (è proprio questo il caso) come una delle più talentuose realtà avant folk con la sacerdotessa del pop etereo. Dopotutto, i Caroline già erano in otto nella formazione ufficiale: una Caroline Polachek in più che vuoi che sia?
Tell Me I Never Knew That si presenta come uno dei pezzi di punta di Caroline 2, l’atteso (indovinate un po’?) secondo disco dei londinesi, ancora saldamente domiciliati in casa Rough Trade. Inizia con un motivo acustico solo all’apparenza semplice (che il chitarrista Casper Hughes ha definito «un riff da Backstreet Boys» – senza offesa per nessuno, solo per sottolinearne l’innegabile orecchiabilità). Ma non lasciatevi ingannare: ciò che segue non è la prima cover alla chitarra del vostro cuginetto adolescente. È più come se i Radiohead di In Rainbows si fossero persi in una stradina sterrata dove il navigatore non ha segnale e avessero deciso di unirsi a un collettivo performativo rurale iniziando a lavorare di piccole aggiunte progressive partendo dal quasi nulla. Tipo la prima volta che sali la pasta e non hai bene idea di come andrà a finire.
La voce della Polachek entra in scena da subito e sembra un fantasma benevolo che infesta la nostra sindrome dell’impostore, mentre canta «I don’t even know if I’m alive / But I don’t wanna be somebody else». Se vi è mai capitato di fissare il vuoto della vostra casella email valutando la possibilità che non siate altro che delle intelligenze artificiali particolarmente senzienti, questa fa per voi.
Da lì in poi, il tutto si sviluppa secondo il classico stile dei Caroline: con delicatezza, respiri ampissimi e poi – all’improvviso – un tuffo al cuore devastante. Flauti, ottoni e percussioni educatamente travolgenti si mescolano, culminando in un loop elaborato che sa di mantra: «It always has been / It always will be / It always happens / This always happens». È un uroboro lirico, una specie di meditazione metrica. È anche esattamente il suono del tuo cervello alle 5:12 del mattino di un martedì uggioso. O magari un potenziale testo di Thom Yorke scartato all’ultima curva prima di dare alle stampe Kid A.
Eppure, nonostante tutto il suo peso esistenziale, Tell Me I Never Knew That è splendida. Non in senso patinato, né preparato a tavolino. Piuttosto come un attacco di panico silenzioso in un campo inondato dal sole – sempre che vi siate portati dietro le cuffie giuste e un cestino da pic-nic.
Con Caroline 2, la band ha fatto evolvere il proprio suono distintivo (un mix di minimalismo d’avanguardia, sincerità post-rock e frammenti di seduta terapeutica involontaria) in qualcosa di più cristallino, maniacale, ricchissimo. Questa canzone è il loro manifesto emotivo, con ospite ai cori l’unica persona che potrebbe trasformare un manifesto emotivo in un ritornello.
Quindi sì, a modo suo è arte. Ma è allo stesso tempo qualcosa di placidamente accessibile. Il genere di roba che ascolti mentre metti in discussione ogni decisione della vita che ti ha portato esattamente in questo angolo di chamber-folk sperimentale, rannicchiato a chiederti se davvero ne è valsa la pena.
Per quel che conta la mia risposta: sì, ne è valsa la pena.
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Cheer-Accident: Cold Comfort
Genere: Rock
I Cheer-Accident, pur essendo ormai un’istituzione dopo quasi quarantacinque anni di carriera, non smettono mai di sorprendere. In grado, nei medesimi anni, di incidere sia per una mammasantissima del noise rock come Skin Graft che per una del prog come Cuneiform, tornano con Cold Comfort, ennesimo brano dove con tempi e modi del tutto personali il pop viene stirato e ribaltato come un calzino.
Thymme Jones e Jeff Libersher suonano innestando un giro puramente indie rock sopra a una nuvola di pop pastorale che non sembra finire mai. I toni aciduli delle voci sembrano pian piano accendere l’attività elettrica; il pianoforte, le tastiere e la tromba ne gonfiano la massa ma non c’è l’esplosione che ti aspetteresti. Lo sfiato è in un piccolo coro che potremmo definire quasi angelico e che ci trascina sopra al nostro paesaggio, smossi dal vento.
Non possiamo far altro che rimirare questa meraviglia che se ne va dopo sette minuti. Una meraviglia in grado di unire ancora una volta mondi lontani con una naturalezza e una classe incredibili, tenendosi il tempo per una sorta di haka vocale che stordisce e stupisce sul finale. Ancora una volta sorprendenti, anno dopo anno, brano dopo brano.
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DIIV: Return of Youth
Genere: Rock
Zachary Cole Smith pare essersi lasciato definitivamente alle spalle i demoni di un passato turbolento, mutando (in positivo) assieme ai suoi DIIV. C’ha pensato Frog in Boiling Water a restituirci l’artista in vesti più riflessive, in bilico tra flebile speranza e malinconia fluttuante, frutto di un mondo davvero complesso da decifrare. Il jangle pop frizzantino e irrequieto di prima si congela in uno shoegaze lento e ragionato, prossimo allo slowcore, a cui si rifà l’ultimo singolo della band, Return of Youth, un toccante crocevia per sentimenti nuovi e altri sepolti.
Traccia delicatissima, devastante a livello emotivo e sorretta da una doppia anima, ognuna delle quali custodisce in sé una chiave di lettura: scritta poco prima della nascita del primogenito del frontman, incarna lo sguardo di un bambino: occhi placidi che guardano la realtà senza il filtro inquieto dell’essere grandi, stracciando le preoccupazioni e i sintomi di un mondo e di una società sciacalli della serenità.
Il video è straziante: immagini di famiglia e istanti di felicità pescati dalla bellezza essenziale della quotidianità. Al loro fianco, clip struggenti della Los Angeles distrutta dalle fiamme, tra le cui macerie figura anche la casa di Smith.
Ed ecco che gli accordi strascinati, i sussulti di gioia bambinesca e il senso di attaccamento ai piccoli gesti – «Playing in the mud, watching the sky (What do you see?) / Talking with the stars, opening up (Hand me down) / All my love is yours, meet me outside (Love me)» –, assieme alla voce evanescente che sbuca dal mesto dream pop che fa da matrice ai quasi otto minuti della traccia, diventano una sorta di tributo alla nostalgia, uno sguardo alla spensieratezza di qualche mese prima, dove tutto, anche una corsa a piedi nudi sulla rugiada mattutina tra sorrisi destinati al vento, pareva perfezione e ora non è altro che cenere.
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Fabri Fibra & Tredici Pietro: Che gusto c'è
In attesa di Mentre Los Angeles brucia, Fabri Fibra cercava qualcuno che potesse spalleggiarlo per un singolo che lo rimettesse sulla traccia. Questa volta però, invece che nel mondo indie o pop, la scelta è caduta su un rapper di nuova scuola e di famiglia nota come Tredici Pietro. Un rapper che, al netto della condizione di figlio d’arte che ne accompagna la figura (per chi non lo sapesse, è il figlio di Gianni Morandi) da anni ormai si conferma come penna e lingua duttile e fresca. Qui gestisce la parte più cantata e melodica, nonostante abbia già dimostrato di potersi occupare anche del rappato, tanto che sarebbe interessante sentire una reprise del brano a ruoli invertiti.
Che gusto c’è entra in testa come ogni singolo di Fabri Fibra, tra la lettura sociale, i luoghi comuni evidenziati e il ritratto di uno spaccato del presente che avanza brano dopo brano. Conquista cultori, ascoltatori occasionali, popolo e dancefloor, tra Charles Bukowski e Sfera Ebbasta, Rovagnati e Flavio Briatore, in un’Italia che non può prescindere dal suo ritorno.
Fatturato e contante arriveranno, ma intanto… che gusto c’è?
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Gina Birch: Causing Trouble Again
Gina Birch (già Raincoats, per i più giovani ai quali saremmo lieti di aprire porte verso questo tipo di passato) ci aveva stregato un paio di anni fa con un disco, I Play My Bass Loud. Ora torna, coerente, irriducibile e fresca in maniera quasi impensabile.
Aria caraibica, svisate synth-punk, una voce e dei cori che penetrano direttamente nei nostri timpani come fossero urlati da piccole creature in battaglia. I nomi di personalità “scomode” che hanno cambiato le regole causando problemi all’establishment sono quelli di cantanti e artisti con cui Gina disegna una tela variegata e perfetta.
Del resto nulla si crea e nulla si distrugge, così è una trasformazione che ha portato il verbo di Nina Simone attraverso Patti Smith, Delia Derbyshire, Dolly Parton, Nico, Angela Davis, Peaches e molte altre. La colonna sonora perfetta per continuare a dare fastidio scrivendo pagine importanti. Anche e soprattutto questo è punk, signore e signori.
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Sea Lemon: Cynical
Sea Lemon (al secolo Natalie Lew) colpisce ancora nel segno con Cynical, il quarto e magnifico ultimo singolo che ci prepara al suo album di debutto Diving for a Prize, appena pubblicato per Fat Possum.
Il brano è la prova definitiva che l’artista si è conquistata il titolo di interprete più sfaccettata dello shoegaze revival di questa prima metà degli anni ’20, sapendone unire le diverse anime in un mix unico e originale. Alla commistione tra Alvvays, Hazel English e Castlebeat che caratterizzava i due primi EP – Close Up (2022) e Stop at Nothing (2023) – Cynical introduce una nuova sfumatura più dark che ricorda i migliori DIIV.
L’influenza di Andy Park – produttore di Seattle che tra le altre cose ha lavorato anche all’album più “post-punkish” dei Death Cab for Cuties, Kintsugi – è evidente: le pulsazioni magnetiche del basso si scatenano sin da subito, sostenute dal ritmo meccanico e ossessivo della drum machine che cattura l’ascoltatore in una morsa irresistibile. Ma ecco che accade la magia: proprio quando il brano sembra voler precipitare in territori più cupi, la voce celestiale e sussurrata di Natalie ci trasporta nel suo universo onirico. I synth e le chitarre prima irrompono in un ritornello etereo che dissolve la tensione iniziale come neve al sole, e poi riemergono come visioni abbaglianti nel resto del pezzo.
Questa ambiguità sonora riflette, di fondo, la cifra stilistica della scrittura di Sea Lemon, che trova in Diving for a Prize la sua sintesi musicale definitiva: parole che parlano di un mondo spietato e brutale e che forse, proprio per questo, ha bisogno di dolcezza per essere raccontato.
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Sofia Kourtesis (feat. Daphni): Unidos
Genere: Electro
Consegnato di diritto a Sofia Kourtesis il riconoscimento per uno dei migliori set del C2C Festival dello scorso anno, mi verrebbe da dire che al sottoscritto andrebbe assegnata d’ufficio la medaglia (di legno) per la resilienza dimostrata nelle assidue ricerche di un pezzo tratto da quel set. Perché ne scrivo qui? Perché lo stronzo in questione è da novembre che shazamma, cerca sui post, scartabella le varie discussioni su Reddit e non trova info su tale dannatissima traccia, catturata in un video storto e sudato durante il day 3 della rassegna.
Qualche giorno fa, un po’ a caso, esce Unidos, nuovo singolo della producer peruviana in collaborazione con Daphni a.k.a. Daniel Victor Snaith a.k.a. Caribou e indovinate un po’? È esattamente quel pezzo. Delirio, fomento, goduria.
Ma a parte gli scherzi, è graditissimo il ritorno della Kourtesis, a due annetti dal bellissimo Madres che ne ha suggellato un talento coltivato in giro per il mondo, testa e gambe a Berlino, mente e cuore radicati nella madrepatria Perù, in un abbraccio che avvicina l’house ai ritmi sudamericani, che smuove le anche e celebra le origini, la famiglia, l’amore inscalfibile verso il nido.
Unidos, però, si stacca un po’ dalle contaminazioni, concentrandosi più sul clubbing: banger spacca-dancefloor, ancora sulle orme di una tech house frizzante, ma dai confini levigati, che pizzica i beat radiosi dei primi anni 2000 e li riversa nei giorni nostri, professando un po’ quella voglia di tornare a ballare più scioltamente con cui lo stesso Caribou ha animato l’ultimo Honey.
L’attesa è stata ripagata: la mia camera potrà tornare a essere teatro per i miei movimenti scoordinati – chiamarli accenni di ballo…, ecco, mi sembrava un pelino esagerato.
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Tapesfromtheloop: Funeral Anthem
Genere: Electro
di Max Zarucchi
I più attenti si ricorderanno dei Playontape, band salentina dedita a un sound post-punk duro e puro e fautrice di un paio di album e singoli davvero piacevoli il decennio scorso. Di loro si sono perse le tracce da un po’, ed è quindi con piacere ritrovare William Buscicchio (che della band era bassista nonché compositore principale) con un nuovo progetto che continua il suo viaggio sonoro.
Sapientemente scelto un nuovo moniker, ora il Nostro si muove con il nome Tapesfromtheloop, e cambia parzialmente le carte in tavola: non più rimandi più o meno diretti a Joy Division e compagnia, bensì una rilettura della musica elettronica figlia degli anni Ottanta, ma senza troppi paraocchi, tra soundscapes, intuizioni cinematografiche, svisate di ambient e un piglio che tende alla sperimentazione anche quando non sembra.
Questi gli ingredienti che troviamo in Funeral Anthem e per esteso nell’album A Dark Place, lavoro che per essere compreso e gustato al meglio va assimilato per intero, quasi come se ogni brano fosse una sezione di una suite che ha nel suo flusso fatto di chiaroscuri il vero punto di forza. Un lavoro strumentale non facile, ma che ci riporta un autore ispirato ed efficace, nella speranza che questo sia solo il primo tassello di una sua nuova fase artistica.
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Tune-Yards: How Big Is the Rainbow
Genere: Electro Altra musica
Ci sono diversi modi per capire quando è tornata la bella stagione; uno di questi è sicuramente la tentazione di rimettere sul piatto i dischi dei Tune-Yards, progetto di Merrill Garbus e Nate Brenner, autori di un pop colorato che si tinge di volta in volta di diverse sfumature black, disco e funk.
In questa How Big Is the Rainbow, parte del loro ultimo disco Better Dreaming, Merrill si trova insieme a Star Amerasu a condurre un telegiornale che prende presto derive impreviste. Il basso pompa, l’ugola si libera e i servizi – fra previsioni meteo, venti improvvisi e proteste sulle strade della loro Oakland – sono sostenuti da un groove inarrestabile che trascina la realtà nel mondo dei sogni e l’informazione in un vero e proprio caleidoscopio da dancefloor, tanto che, chiudendo gli occhi potremmo immaginarci al Paradise Garage con Larry Levan e Miriam Makeba.
Un pezzo incredibile e la conferma che se la televisione è fatta bene rimane un servizio pubblico fondamentale. Da Oakland è tutto, a voi studio.
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Twirlies: Think That I'm in Love
Genere: Pop
Il veterano dell’indie norvegese Christoffer Schou – già figura di spicco nei Remington Super 60 e Musique le Pop – è tornato sulla scena lo scorso 23 maggio con i Twirlies, trio nato nel modo più “twee” immaginabile nell’ambito di un corso di serigrafia tessile nella piccola Fredrikstad. Christoffer, Sara Jeanine e Sigurd Gedde Mojord erano dunque già un collettivo artistico quando, progettando la cover di un album, hanno deciso di creare anche la musica che vi stava dietro.
Think that I’m in Love, il loro primo singolo, distilla l’essenza del sunshine pop più puro: chitarre anni ‘60 cristalline, una linea di basso rilassata, batteria appena sussurrata e le voci di Christoffer e Sara che si intrecciano in un abbraccio melodico. Il risultato riecheggia i fasti di Millennium ed Eternity’s Children, un sogno a occhi aperti caldo come solo certi amori estivi dell’adolescenza sanno essere.
In un’epoca di bedroom pop e indietronica creati nell’isolamento della propria stanza, i Twirlies ci ricordano che la musica più vera nasce quando ci si ferma a comporre insieme. Se questo è solo l’inizio, non vediamo l’ora di scoprire quali altri colori sonori sapranno dipingere nel loro prossimo capitolo artistico.
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