[New Music Weekly] Grazian senza Alessandro, Neffa con Fabri Fibra, Gitane Demone con Paul Roessler
Settimana 21 – con Alessandro Grazian, Gaia, Dana Gillespie, Umbra Vitae, Guster, VetoCode, Wolke8, The Alarm, Gitane Demone & Paul Roessler, Neffa & Fabri Fibra.
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Laddove featuring sulla carta (e non solo) perfettamente azzeccati – Gitane Demone e Paul Roessler che rinunciano al pesce d’aprile per ricordare la scomparsa di Rozz Williams, Giovanni Pellino che ritrova l’amico Fabrizio Tarducci ricordandoci che in nessun caso come in italiano rap e pop si sposano a meraviglia – sono sicuramente un valora aggiunto, sottolineiamo qui la scelta di Alessandro Grazian che, come a togliersi tutti i possibili fronzoli di dosso, torna con un nuovo lavoro in cui si presenta senza il nome di battesimo.
Less is more, ci suggeriscono. Ma non ditelo a Gaia o agli Umbra Vitae, a modo loro ai due estremi di un barocchismo musicale mai comunque inutile. La prima è electropop patinatissimo, iper-prodotto, ma parecchio bene. I secondi, capitanati da Jacob Bannon, supergruppo post-tutto (post-hardcore, post-sludge… diciamo post-metal e finiamola lì) per eccellenza (Converge, Hatebreed, Red Chord, Job for a Cowboy), liberano fiumi di lava vellutata sul tappeto un tempo cucito dalla scuola Neurosis.
Se poi volete music discovery vera, date un ascolto al rock coinvolgente dei VetoCode, o provate a scoprire chi si cela sotto il passamontagna fluo e i bassi sintetici e grassissimi di Wolke8.
Se invece vi piacciono i classici ancora duri a morire, c’è gente di un certo livello che si cimenta in ottime cover: Dana Gillespie canta Morrissey, mentre Mike Peters fa il David Bowie.
Dana Gillespie: Spent the Day in Bed
Dana Gillespie, dall’alto dei suoi 75 anni, ha attraversato decenni della storia della musica, lavorando con David Bowie (che inizialmente aveva scritto per lei il brano Andy Warhol), con Jimmy Page e con Sir Tim Rice (è stata la Maddalena a teatro per il Jesus Christ Superstar prima della sua trasposizione cinematografica) e ha ormai all’attivo un’infinità di album pubblicati in tanti anni di carriera.
L’attrice e cantante ha pensato bene di tornare con un disco di cover nel quale, grazie alla produzione di Marc Almond e Tris Penna, offrirà la sua versione di brani dei Green Day, di Leonard Cohen, di Bowie e molti altri.
Tra questi c’è anche Spent the Day in Bed, pezzo che il buon Morrissey aveva pubblicato nell’album meno riuscito della sua carriera, Low in High School, e che Dana ripropone donandogli l’incisività che in fondo mancava nella versione originale. Un’incisività che a pensarci bene viene aiutata dal momento storico che stiamo vivendo: il testo invita infatti a riappropriarsi del proprio tempo e a cercare di evitare di vedere i telegiornali che riescono solo a renderci impauriti e insicuri (« Smetti di guardare le notizie / Perché le notizie riescono a spaventarti / Per farti sentire piccolo e solo / Per farti sentire che la tua mente non ti appartiene»), insinuando nel nostro Io un senso di passività di fronte a eventi al di fuori del proprio controllo. Riappropriarsi del proprio tempo e del proprio pensiero, un’impresa disperata che sembra essere ormai una chimera per generazioni nate e cresciute in un sistema di sviluppo economico che determinava e indirizzava le scelte, che favoriva un appiattimento culturale e che oggi ci fa vivere momenti drammatici.
«[…] if it’s not love / Then it’s the bomb […] that will bring us together» cantavano gli Smiths nel 1987: sono passati tanti anni ma nulla sembra essere cambiato.
Gaia: Dea saffica
È tornata Gaia, dopo l’esibizione a Sanremo di supporto a Big Mama insieme a La Niña e a Sissi, con un nuovo singolo intitolato Dea saffica. Prodotta da Bias (che già aveva dato prova di sé insieme a Madame) è una canzone che permette alla cantante italo-brasiliana di attorcigliarsi sulle melodie spezzando le proprie linee vocali ed esprimersi in una dichiarazione d’amore romantica e universale.
È la storia più vecchia del mondo, il tira e molla di muscoli cardiaci che ci fa incontrare e lasciare, e in questo caso prende spunto dalla poetessa greca che tanto scalpore diede all’incirca 2.600 anni fa sull’isola di Lesbo. Qui Gaia gioca unendosi all’acqua, fra abluzioni e danze, incuriosendoci per quello che potrebbe essere il suo futuro artistico. La stoffa non le manca e quanto inciso finora la mette sul medesimo piano artistico di chi guida al momento la carrozza. Eppure, non sapremmo spiegare il perché, se dovessimo puntare due real su qualcuno, Gaia potrebbe essere la scelta giusta.
Mandata a memoria questa Dea saffica vedremo il da farsi, intanto seguiamo la marea e la sua dea.
Grazian: Nonostante
Alessandro Grazian ha cambiato nome, presentandosi con il solo cognome e tornando a cantare di struggimenti poetici e fortemente umani. Lancia parole a un’umanità alla svolta, davanti ai bivi di una vita, alle piccole possibilità e decisioni che vanno a slegarsi come i fili che tessono il nostro destino. Musica autoriale, romantica e aperta, pop come quella che fuori dal tempo torna a bussare al nostro dopo decenni, quella di Grazian prova a lanciare il cuore oltre l’ostacolo per lei, per sé, per farcela nonostante tutto a raccogliere i propri sogni.
E allora speriamo veramente che i due possano tenersi e superare le paure, che da che mondo è mondo a ogni relazione serve un proprio carnet di canzoni. Nonostante sarebbe sicuramente una buona opzione da spendere, perfetta per i momenti nei quali, crogiolandosi nelle proprie disfatte, si cresce un pochino insieme. Un punto di ripartenza proprio dalla spiaggia, dagli occhi di una figlia.
Non possiamo ancora dire cosa ci riserverà l’eterna ricerca di Alessandro, ma sapere che ancora la porta avanti ci dà un’ottima sensazione, una piccola sicurezza come la sveglia al medesimo orario, il caffè, le belle melodie. Cose che, nonostante tutto, sono entrate a far parte della nostra vita in maniera sensata.
Guster: Maybe We're Alright
“Andrà tutto bene” è stata, nostro malgrado, la frase ricorrente del triste periodo del primo lockdown pandemico, a inizio 2020. Aggrapparsi al valore autoconsolatorio di una formula del genere è del resto naturale di fronte a un futuro incerto e talvolta necessario per continuare a coltivare speranze. E vale per molte delle nostre incertezze quotidiane.
Uno stato d’animo che i Guster mettono in musica con questa delicata Maybe We’re Alright che ricorda i tempi andati di una relazione giunta al termine. Immagini come fotografie a scandire sensazioni, ma anche la constatazione che a volte le scelte dolorose sono necessarie per guardare in avanti e ricominciare da capo. Un brano profondo, dotato di una velata malinconia ed estremamente evocativo: l’inizio intimo con chitarra e voce, la crescita graduale dell’arrangiamento ad accompagnare la corrente emozionale e quel coinvolgente Bah ba-ba-ba-bah da cui farsi cullare, che entra prima nel cuore e poi in testa, per non uscirne più.
Raccontare i sentimenti e saperli mettere a fuoco è complicato, ma i Guster fanno sembrare tutto profondamente naturale. Forse è per questo che funziona tutto alla perfezione.
Neffa (feat. Fabri Fibra): Foglie morte
Ogni ritorno di Giovanni Pellino, soprattutto quando le sue espressioni tornano a lambire il mondo rap al quale molto ha dato in passato, accende aspettative e speranze. Qui, insieme all’amico Fabrizio Tarducci, con il quale in diverse occasioni ha lavorato, viaggiano di notte tra foglie morte e spiagge. Il rap trova i suoi spazi, in mezzo a fischi, melodie e beat notturni e sensuali: Neffa e Fabri Fibra giocano tra testa e cuore, creando un brano che cresce ascolto dopo ascolto.
Foglie morte è un brano in cui la luce è ridotta al minimo e la noia viene tenuta lontana grazie allo sbattimento, al camminare senza avere risposte ma cercando qualcosa e qualcuno, fuori e dentro di noi. Le voci dei due si sposano in maniera naturale, volgendo lo sguardo verso un’impalpabile assenza, verso una porta aperta sul nulla, verso fiori che bruciano e cambiamenti in senso lato. La bellezza di un brano che dimostra la maturità di due artisti che insieme riescono a vergare canzoni che rimarranno impigliate dentro di noi per le immagini e i ritmi, portandoci insieme a riflettere, fino a trovare quelle risposte che questo eterno autunno ci vorrebbe nascondere, foderato di rumorose foglie morte.
Poi, chissà, dovesse anche uscirne qualcosa di più lungo, tipo un disco, potremmo anche riuscire a promettere di nascondere l’entusiasmo.
Umbra Vitae: Velvet Black
A discapito di chi avrebbe gradito maggiore attenzione e dedizione alla main band, quattro anni fa, il frontman di lunga data dei Converge, Jacob Bannon, ha presentato il suo nuovo supergruppo Umbra Vitae: dentro anche l’ex chitarrista degli Hatebreed e Twitching Tongues, Sean Martin, un paio di membri dei Red Chord e un ex batterista dei Job for a Cowboy. Il tutto non era stato affatto male, ma senza mai affrontare i grandi riflettori della scena, restando ancorato a quell’underground che Bannon e soci convergiani hanno contribuito a plasmare, prima di entrare nell’Olimpo del post-hardcore. Underground in cui, nonostante tutto, sembra sguazzino ancora bene.
Ora gli Umbra Vitae si stanno preparando a dare seguito al loro debutto del 2020 Shadow of Life con il nuovo album Light of Death. Dopo l’anticipazione del singolo Belief Is Obsolete, che era già una bella mina, la nuova Velvet Black si avvicina più ai toni meditabondi e cadenzati del progetto Bloodmoon (quello con Chelsea Wolfe, per intenderci), senza però dimenticare che Bannon e soci non mollano mai del tutto il loro sludge hardcorizzato. Oltre alla solita lezione Neurosis, che scorre come un fiume di lava in tutto ciò che sembra ancora chiamarsi post-metal, ci piace sottolineare una curvatura più “heavy”, che già aveva contraddistinto il progetto Wear Your Wounds (soprattutto nel secondo album, da recuperare assolutamente).
Dice il frontman a proposito del significato e della storia del brano: «Dal punto di vista dei testi, questa canzone parla della pressione e di come essa forzi azioni che non sono in linea con chi vogliamo essere. Spezza e cambia le persone, creando mostri e miti. Questi cicli di disfunzione danneggiano indiscriminatamente tutto ciò che ci circonda. Metaforicamente, esploro questo in due modi interconnessi. In primo luogo, l’idea che la crescita derivi dal decadimento. In secondo luogo, come scenario dell’aldilà in cui i morti tentano di oltrepassare i cancelli dorati. Non degni di passare a causa delle loro azioni sul piano mortale, si ritirano nell’oscurità del velluto nero da cui provengono».
«She wore black velvet…» canterebbe qualcuno, mentre noi continuiamo a goderci la prolificità di un personaggio che rimane arroccato sul suo status di beniamino del nuovo corso del metal. Post-metal, s’il vous plaît. Aspettando, naturalmente, un altro megalite targato Converge, restiamo sedotti da questa ombra sghemba e sempre oscura.
VetoCode: Morphine
Giovanissimi, irlandesi, un paio di loro stavano nei Kovanta, scheggia che mi aveva colpito lo scorso anno con un’EP fenomenale.
Siamo dalle parti di un rock con una grana grossa e una voce calda, una buona idea melodica lanciata verso il buio e la capacità di farla correre, in questa Morphine. Uno di quei brani che, ascoltati tre o quattro volte di fila ti danno l’impressione di incastonarsi nella tua testa, con quell’alternanza di voce rauca e melodica che potrebbe essere la base dalla quale partire per ovunque.
Transitando sui binari ormai lisi dal passaggio dei treni che li hanno preceduti, dimostrano però che il loro esserci è più che legittimo. L’urgenza punk è scomparsa, ma la voglia è la medesima: muovere gambe, braccia e teste in un headbanging e due minuti più tardi in un abbraccio. La morfina del resto è così: rilasciata nell’organismo riduce la frequenza respiratoria e cardiaca, oltre a rallentare l’attività cerebrale. Ben venga quindi questo mood ondivago, accompagnati dalla sostanza stessa e da chi ci sussurra all’orecchio di chiudere gli occhi, che tutto andrà bene.
È soltanto una canzone, potemmo scacciarla dal nostro cervello quando vorremo, certo, ma qualcosa ci dice che questi VetoCode ci daranno parecchie soddisfazioni.
Wolke8: Verboten
Una scheggia mascherata in un prato fiorito, Verboten è un’ipotesi trap svizzera-tedesca che sembra salire su un carrozzone sfasciato insieme a Pufuleti e pochissimi altri, additati dai più e portati su un palmo di mano da chi riesce ad andare oltre il primo sguardo abbandonandosi al ritmo puro.
Bassi grassissimi, linee di synth che riescono a trapanarci la testa e la forza della disperazione nella voce di Wolke8, che alterna rime lardose, gemiti bagnati di lacrime e urla disperate e ammonitrici. «Das ist verboten»: “questo è vietato”, ci intima infatti il losco figuro, ma qualcosa non torna. È solo in un bosco, elemento bizzarro fra alberi e cani, forse ciò che teme è a malapena scoprire chi si nasconde dietro a quel passamontagna colorato, il giusto anello mancante fra Ninja dei Die Antwoord e Mezzosangue.
Non so come spiegarlo, ma forzare i limiti, sfuggire alle regole, cercare quel passo oltre è ciò che potrebbe spingerci verso questo segreto nascosto, per capire se possa reagire con altre rime oppure a mazzate e latrati. Nel frattempo un secondo brano, Daki, ci sta svelando un altro lato della personalità di questo misterioso tizio che potrà – grazie al suo danzare sui limiti fra maschera e attore, rapper e pantomima – conquistare più di uno di noi, ricordatevelo.