[New Music Weekly] Tutti a ridere con David Byrne, a piangere con Alan Sparhawk, a godersi il viaggio con i Goodbye, Kings
Settimana 26 – con Alan Sparhawk, Bobby Conn, Cyborg9K, David Byrne, Falling in Reverse & Marilyn Manson, Fortunato Durutti Marinetti, Paul Cargnello & J. Emile, Psychonaut, The Gospel, Goodbye, Kings
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Stato d’animo che hai, canzone che trovi. E allora questa settimana, ecco una playlist che non discrimina nessun tipo di emozione.
Ve la sentite scialla, avete voglia di ridere e far sentire la vostra voce, insomma… state relativamente bene e siete propensi a vedere il bicchiere mezzo pieno? Allora via con l’ex Talking Heads (positivo, eclettico, arty e super-pop), un ritrovato Bobby Conn (tutto lustrini, rock’n’roll), Cyborg9K (uno dei progetti più misteriosi della scena indie americana che – nonostante dichiaratamente alla sua ultima uscita – ancora propone un folk sì profondo, ma mai del tutto depresso) e un combattivo Paul Cargnello (qui insieme a Jonathan Emile a prendersela con i fascisti, Dio ce ne scampi e liberi).
Devastati, malinconici, lontanissimi da quella luce alla fine del tunnel? Ditelo ad Alan Sparhawk (che sicuramente sta peggio di voi, al punto da chiamare un gruppo bluegrass del Minnesota per provare a tirarsi su) o all’ex Escape the Fate Ronnie Radke che tira fuori un pezzo niente male ma pensa bene di chiedere a Marilyn Manson di cantarlo, e così il fu Reverendo si prende tutta la scena al posto suo.
Alle prese con un mood più riflessivo, chill & psych? Mettetevi comodi, perché i nostri Goodbye, Kings vi hanno preparato un lavoro monumentale, suddiviso in due lunghe suite che vi faranno fare il giro del mondo (almeno psico-metaforicamente), mentre gli Psychonaut stratificano toni, atmosfere e spazi di un nuovo post-metal, in pieno stile Pelagic Records.
Se infine non vi ritrovate in nessuna di queste tre macro-categorie, allora probabilmente siete Jimmy Sweet, avete intorno cinque belle ragazze vestite da collegiali (timorate di Dio, ma ammiccanti quanto basta per non darlo troppo a vedere) e il vostro progetto paraculissimo chiamato The Gospel rischia sul serio di diventare qualcosa di grosso.
Alan Sparhawk with Trampled by Turtles: Not Broken
Genere: Folk
Se uno pensa a tutto quello che è successo ad Alan Sparhawk negli ultimi tempi, leggere un titolo come Not Broken fa venire subito in mente quel vecchio meme, in giro ormai da più di dieci anni, mutuato da una striscia di KC Green. Per chi non se lo ricorda: un sorridente cane con il cappello è seduto al tavolo della sua cucina, davanti a una tazza di caffè, solo che la stanza è in fiamme, eppure lui si rassicura dicendo: «This is fine». Ecco, in due immagini, tutto il concetto del “raccontarsela”, il corrispettivo di quello a cui chiedi «Ehi! Come va?» e lui «Tutto bene, grazie», mentre corre a rintanarsi in un angolo dove urlare tutta la sua disperazione con la faccia a due centimetri dalla parete.
Not Broken è una canzone piccola, scarna, costruita con pochi elementi: le chitarre, gli archi e tutto il resto dell’ambaradan (banjo, mandolino e via dicendo) dei Trampled by Turtles – affidarsi a un gruppo bluegrass del Minnesota per elaborare un lutto è l’ennesima cosa che profuma di ironico in questa storia, ma solo fino a un certo punto – però suonati come se fosse l’ultima cosa rimasta da fare prima del silenzio, una voce (anzi due) che pare uscita da un sogno, e un senso di vuoto che non consola ma accoglie. Sembra fragile, ma non lo è: spogliata piuttosto, sottile, ma forte della solidità di quelle cose costruite solo dopo che hai capito le priorità.
E qui la priorità è sopravvivere, o quanto meno convivere con l’idea che da ora in avanti ogni giorno la priorità sarà sopravvivere. Alan canta come uno che non ha più bisogno di spiegare: chi ha orecchie per intendere, intenda. Come uno che ha imparato a coesistere con la crepa e ha deciso che non vale la pena aggiustarla. Non perché non ne sia capace, ma perché è diventata parte del design. È una forma minimale e ostinata di kintsugi, la simbolica tecnica di restauro giapponese in cui le ceramiche in pezzi vengono ricostruite con collanti a base di oro in modo da dare al nuovo oggetto un valore ancor più alto dell’originale. L’oro, nel caso specifico, è la voce della figlia Hollis: mettere insieme i pezzi e scoprire che è lei a ripetere il mantra del ritornello diventa il classico bruscolino nell’occhio che fa traboccare il vaso lacrimale.
Perché è inutile girarci intorno: c’è un fantasma grosso come un elefante che si aggira dentro la gioielleria dell’ex Low, e si chiama Mimi Parker – donna, moglie, madre, musicista. La buona notizia è che lo fa con la consueta grazia e tutta la delicatezza che l’ha contraddistinta in vita, in modo – appunto – da non rompere nulla. E la bellezza della canzone sta proprio lì, in quella strana miscela tra vulnerabilità estrema e rigore formale, senza un grammo di compiacimento o autocommiserazione: Sparhawk è uno che il dolore lo conosce bene e ha capito che non serve farlo diventare spettacolo. Not Broken non è una canzone triste: è una canzone che il dolore in questione lo prende sul serio e lo tratta con rispetto, quasi con pudore. La conferma che si può fare musica significativa anche quando non si ha più voglia di combattere, ma solo di essere gentili. Con se stessi, prima di tutto.
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Bobby Conn: Never Felt Better
Il ritorno dopo cinque anni di Bobby Conn riempie di gioia quanti, nella loro vita, abbiano incrociato il funambolo in questione in una delle sue evoluzioni. Lo troviamo lucidissimo, lanciato a mille all’ora in un rock’n’roll introdotto da cori voluttuosi che si rivela tanto schietto quanto old school e irresistibile. «Bobby is back» canta la vocalist (che immaginiamo e speriamo sia sempre Monica BouBou, geniale musicista e consorte del Nostro) e quando la voce di Bobby si apre al microfono a tornare in mente è uno dei mammasantissima della materia, il prode Jerry Lee Lewis.
Roba che andava sessant’anni fa direte voi? Roba che andrà per sempre, fino a quando il pubblico pagherà per vedere qualcuno dimenarsi sul palco, armato di fantasia e personalità. Cose che qui non mancano: si chiamano in causa i violini e si picchia forte sulla batteria, mentre si surfa letteralmente sulle onde, bussando alla porta del punk in un acido viaggio.
Jello Biafra non è così distante a livello di grana vocale e se è lui a dirci di non essersi mai sentito meglio noi ci crediamo, alziamo il volume e balliamo con lui, ci armiamo di brillantina e impariamo le mosse, cercando di mantenere l’equilibrio in mezzo alle maree.
Tutto è bellissimo: la luce, il rock’n’roll, lo stile, l’essere così fuori dal tempo e sempre attuali. Bentornato Bobby!
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Cyborg9K: Model Man
Cyborg9K, tra i progetti più intriganti e misteriosi della scena indie americana, ha pubblicato l’11 giugno The End of Possibility, ultimo lavoro rigorosamente autoprodotto che, stando alle dichiarazioni dell’artista, chiude definitivamente una parabola musicale avviata nel 2022 suggellando l’impressione di essersi trovati di fronte a un talento unico nella sua ecletticità.
L’album segue di soli tre mesi lo scoppiettante concentrato di indietronica rappresentato da What Did You Expect?, ma, a riprova della poliedricità di Cyborg9K, riabbraccia un sound slacker/indie rock con sfumature folk più vicino al debutto, I Feel Ok (So I Guess that Means I’m Fine). Una scelta stilistica che sembra anche un chiaro segnale di rottura, sulla scia di artisti come Gezebelle Gaburgably, con la controversa scena e-punk spesso associata alla cultura incel, da cui Cyborg9K ha da tempo tenuto a prendere le distanze.
Il brano Model Man è sicuramente uno degli apici di The End of Possibility, sia per scrittura che per resa sonora. La chitarra acustica, limpida e dominante, si intreccia con percussioni serrate e un organo elettrico discreto ma presente, evocando l’estetica lo-fi e intimista dei Neutral Milk Hotel, non fosse per la voce intenzionalmente iper-processata al fine di donarle un timbro robotico – marchio di fabbrica di Cyborg9K – che si differenzia nettamente da quello crudo e viscerale di Jeff Mangum. Il testo danza sul crinale del coming of age, tra la paura del tempo che passa e il bisogno di vivere senza regole alla luce del fatto che «The modern world is tragic / Because life’s become a game / Where the only winning move is not to play». Eppure, nel finale, qualcosa si incrina. L’ironia lascia spazio alla tenerezza: consapevole di essere «On the way / to dying in my room alone»: l’artista desidera solo tornare bambino, per rimediare ai propri errori e diventare forse, un giorno, un model man.
La chiusura del brano racchiude il cuore di The End of Possibility: la fine di un ciclo, il desiderio di rinascita. Cyborg9K abbandona il suo alias e si prepara a ricominciare da zero, con un nuovo progetto e un’identità tutta da riscrivere. Diventerà davvero un “uomo modello”? Noi, come sempre, vi terremo aggiornati.
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David Byrne: Everybody Laughs
Genere: Pop
di Max Zarucchi
Signore e Signori, David Byrne è tornato con un singolo che anticipa il suo prossimo, nuovissimo album intitolato Who Is the Sky?
Si potrebbe finire qui, no? Perché insomma, cosa vi aspettate dall’ex Talking Heads? Death metal? Eddai, su.
Il Nostro si è sempre distinto per un intelligente mix di pop, avanguardia e world music e questo singolo non fa eccezione. In bilico tra il malinconico e il “massì, ma in fondo, macchissenefrega”, Everybody Laughs ci regala un Byrne particolarmente riflessivo, anche se non privo del suo tipico sarcasmo sottile, il tutto avvolto in un suono cucito ad arte dal newyorchese stesso assieme a una sfilza di collaboratori che solo gente come lui può permettersi di avere alla propria corte.
Un invito a guardare oltre, a riprendere in mano la propria vita puntando soprattutto sul bicchiere mezzo pieno, a lasciarsi andare completamente a se stessi sfuggendo al rincoglionimento generale. Positivo, eclettico, tremendamente arty ma pur sempre pop, David continua a fare centro pur avendo passato i settant’anni, grazie a una vitalità invidiabile che molti dei suoi nipoti ipotetici possono solo sognarsi.
Il mondo ha ancora terribilmente bisogno di gente (non) comune come lui.
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Falling in Reverse (feat. Marilyn Manson): God Is a Weapon
Genere: Rock
di Max Zarucchi
Inutile girarci troppo intorno, meglio andare dritti al sodo: God Is a Weapon dei Falling in Reverse è sì piacevole, ma non fa strappare i capelli di per sé. A farlo è il featuring di quella vecchia volpe di Marilyn Manson che, tornato prepotentemente sulle scene con il discreto (ma troppo immerso nell’autotune) One Assassination Under God – Chapter 1, dimostra qui due o tre cosette di un certo spessore.
In primis, che la sua voce (da sempre filtrata per scelta, ma che non ha bisogno certo di aiutini posticci) continua a far rizzare i peli sulla schiena: il modo in cui riesce a interpretare qualsiasi brano rende quest’ultimo quantomeno interessante, se non un capolavoro. Secondariamente, che non basta “fare” l’artista maledetto per convincere: bisogna esserlo davvero, con tutti i suoi pro e contro, per riuscire realmente ad arrivare dritti allo stomaco.
Ecco allora che il brano (carino, non c’è dubbio) si eleva davvero solo nel momento in cui il signor Warner apre la bocca, cosa che se da una parte magari gioca a sfavore della band dell’ex Escape the Fate Ronnie Radke, dall’altra conferma lo stato di grazia del fu Reverendo. L’allievo ha ancora molto da imparare dal maestro.
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Fortunato Durutti Marinetti: Full of Fire
Fortunato Durutti Marinetti è di nuovo fra noi, sembra aver portato seco un’orchestrina direttamente da Love Boat e riesce a vendersi in maniera quasi subliminale: suoni flautati, melodie, quella voce. Il suo tono, la movenza colloquiale, l’essere quasi il cantante da show del sabato sera in camicia con le gale, pur rimanendo affilato e potente. Utilizza le armi del pop a proprio favore, lavora su arrangiamenti che sono assolutamente meravigliosi e ci gioca sopra, semplicemente cantando e raccontandoci una storia.
Lui viene da Toronto, il nuovo album si chiamerà Bitter Sweet, Sweet Bitter e in Italia è arrivato grazie alla lungimiranza di Quindi Records. Ha stile a pacchi, ma riesce sempre a mantenersi entro i limiti del credibile, senza oltrepassare le righe del cattivo gusto o dell’eccesso, lasciando che il suo pop barocco rimanga credibile e magico allo stesso tempo.
Questo brano ne è l’ennesima conferma: nasce anni fa e doveva essere inserito nel suo secondo disco (tanto che il testo faceva bella posa nel retrocopertina) ma è solo oggi che appare. Ci conquista in cinque minuti e poco più, lasciandoci con la voglia di appendere il suo poster in camera e di imparare i giusti passi di danza. Fortunato lui e fortunati noi: possiamo ben dirlo!
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Goodbye, Kings: Transatlantic
Genere: Altra musica
di Max Zarucchi
Viviamo in un momento storico confuso, che non lascia tempo, dove la sensazione indotta dall’indigestione tecnologica è quella di essere sempre tremendamente in ritardo. Ecco allora che poco alla volta la soglia d’attenzione scende, si accavallano freneticamente immagini, frasi, suoni, colori, in un bazar caoticamente infernale che ha sostituito il nostro ipercubo, la nostra cameretta, i nostri pensieri. Perché è tutto così di fretta che manco scegliamo più: ci lasciamo ingozzare fino a perdere lucidità, come un criceto sbronzo che non riesce a scendere da una ruota sempre più veloce.
Ecco, se tutto questo vi ha stancato, i Goodbye, Kings hanno l’antidoto.
In totale controtendenza, invece che dedicarsi a rapidi jingle mascherati da canzoni, buoni giusto per qualche storia sui social, i Nostri pubblicano un lavoro monumentale diviso in due lunghe suite suddivise idealmente in sottocapitoli intrecciati tra loro, separate come se fossero due facciate di un disco in vinile, che richiedono concentrazione, attenzione, abbandono e soprattutto tempo. Ed è qui il punto: staccare per una volta dal mondo virtuale (sì, anche spegnendo il telefono) per un’ora è l’unico modo per poter affrontare questa Transatlantic e la sua controparte Transiberian, insieme opera ostica ma in grado di schiudere parti di noi ormai sopite, pezzi di umanità ormai stanchi di essere schiavi di “altro”, non ultima la gioia nella scoperta della bellezza viva, tattile, sensoriale, diametralmente opposta a quella sintetica propinataci dall’intelligenza artificiale.
Dentro ci troverete di tutto: dal prog meno onanistico alla psichedelia più riflessiva, dal post-rock più post che rock, all’avanguardia orchestrale classica, sprazzi di musica da camera (oscuramente cinematografica) e jazz dilatat(issim)o. Il risultato è un insieme amalgamato con gusto, dove tutto è pieno ma non abbondante, lasciando sempre spazio per la sensibilità dell’ascoltatore.
Se siete stanchi di tutto e volete ritrovarvi, ripartite da qui.
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Paul Cargnello (feat. Jonathan Emile): Fascists in Our Midst
Paul Cargnello ha chiamato Jonathan Emile e James Challenger e li ha invitati a fare una passeggiata su una sopraelevata. C’è anche Nik Brovkin che li filma. Siamo a Montréal, il tempo è bello, ma bisogna ribadirlo sempre: no ai suprematismi, no a fascismi, no a discriminazioni. Questa è Fascists in Our Midst.
I tre scelgono di farlo con le armi antiche del blues, musica potente e ritmata, utilizzabile come una mitraglia che colpisce, più elegante che mai. Non c’è nemmeno bisogno di fanfare, basta un coro messo su tra le reti di sicurezza per spingere ancor più in alto il messaggio di Paul, che, quando passa la parola a Jonathan, allarga ancora più il messaggio, portando a sé i Caraibi con un senso del groove impagabile, rime conscious e irresistibili.
Sembra quasi di vederli i tre, all’angolo per una partita a domino, una birra o un gin: gente di una certa età, da anni in giro a dire la propria senza troppi fronzoli, eppure riuscendo a colpire il giusto e a ribadire, qualora fosse ancora necessario, che se la musica è nera non vuol dire che siano invitati i fascisti. È proprio un’altra cosa, la presenza non è richiesta, dev’esserci stato un errore. Ciao.
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Psychonaut: Endless Current
Nel marasma dei cloni post-metallari di nuova fattura, soprattutto in casa Pelagic (ancora esponente massima di queste sonorità – grazie, per esempio, agli Ocean), troviamo un nome piuttosto interessante, che ha saputo farsi spazio in maniera consapevole. Vuoi per la strizzatina d’occhio alla modernità djent e metalcore degli ultimi anni, vuoi perché incarnano al meglio il verbo post-metallaro per eccellenza, gli Psychonaut sono un nome da tenere d’occhio.
L’ultimo singolo dei belgi, Endless Current, anticipatore del nuovo album in uscita a ottobre, centra infatti l’obiettivo: tenere fede a ciò che di interessante il trio pelagico sta cercando di portare avanti. In un genere – c’è da dirlo – disseminato di climax scadenti e atmosfere troppo elaborate, il trio belga ha creato qualcosa di ben più raro: un pezzo post-metal a combustione lenta ed emotivamente intelligente che si dipana come un blend di modernità ben suonata. È immersivo, certo, ma anche disciplinato. Coerente eppure eloquente, senza sproloqui di sorta.
Non è un brano che implora di essere inserito in playlist, certo. Non è qui per essere facilotto o strappare consensi immediati. Incanala un retaggio (anche se ormai lontano) dei Neurosis, l’efficacia dei Cult of Luna, l’eleganza di certi Katatonia e la spinta estetica dei Tesseract, ma senza sembrare derivato diretto da nessuno di loro.
La produzione è squisita. Calde texture analogiche si fondono perfettamente con le frequenze basse (e per ciò si richiede decisamente un ascolto degno: cuffie o mega impianto nerd). Ciò che eleva il brano non è solo la sua intensità, ormai considerata necessaria al genere, ma la sua moderazione. Gli Psychonaut non hanno mai fretta di concludere. Al contrario, costruiscono la tensione come architetti, stratificando tono, atmosfera e spazio fino all’arrivo del finale, che comunque non arriva al solito climax scontato.
D’altronde, questi ragazzi hanno sempre flirtato con il metafisico, e anche questo brano segna un cambiamento: più oscuro, più denso, più raffinato. Ha a che fare con la nascita di un figlio, con la diagnosi di cancro per due dei padri della band. Ha a che fare con quello che succede nel mondo. Della musica e di noi stessi. Non c’è alcun atteggiamento qui, nessun cosplay di genere. Solo tre musicisti che esplorano i limiti del volume, della chiarezza e della presenza. Senza strafare, con delle buone mani e una produzione degna della modernità più efficace.
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The Gospel: The Only One
di Max Zarucchi
Gli inglesi Gospel sono una delle genialate più geniali uscite negli ultimi tempi, davvero.
Prendete un belloccio fascinoso, una specie di Nick Cave meno serioso e più piacione, mettetelo in mezzo a cinque belle ragazze vestite da collegiali un po’ timorate di Dio, un po’ ammiccanti quanto basta, girate attorno al tema dei predicatori made in USA camminando sapientemente sulla linea che separa farsa da goliardia e il piatto è servito. Forti di un’immagine micidiale ma assolutamente non privi di talento, i Gospel sanno essere accattivanti, paraculi e convincenti quanto basta per farsi notare, grazie a cover ben riuscite come Like a Prayer di Madonna o questa The Only One.
Diciamocela tutta, il buon predicatore Jimmy Sweet è un furbacchione che ci ha visto lungo, e se i Gospel riescono a trovare una label seria che li prende per mano (e ci investe un po’ di, ehm… offerte), non sarà difficile vederli emergere in un mercato ormai sempre più legato a doppio filo con l’esigenza di un’estetica definita e di una “storia da raccontare”. Nella migliore delle ipotesi li troverete headliner in qualche festival che conta, nella peggiore si scioglieranno lasciando comunque una scia di culto scintillante. Per ora, godetevi The Only One e convertitevi: per il pentimento c’è sempre tempo.
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