[New Music Weekly] Venite a bere al Bar Italia: riguardiamo Shining insieme a Bruno Dorella, mentre diamo un ultimo saluto al cane di Jah Wobble
Settimana 28 – con Bar Italia, Boneflower, Bruno Dorella, Castle Rat, Ick, Jah Wobble, Jeanines, Samara Cyn & Smino, Scarlet Sinister Sister & Barry Galvin, The Young Gods.
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Odore di gran passo verso il mainstream, in casa Bar Italia: sarà la volta buona che si abbandonano i radical-chicchismi lo-fi? Non c’è pericolo, in questo senso invece (di passare per gente che strizza l’occhio al mainstream, intendiamo), per Bruno Dorella (che insieme alla compagnia di danza ravennate Nanou concepisce un tributo allo Shining di Stephen King/Stanley Kubrick che dire di nicchia – e di altissima qualità – è poco), per il duo californiano Ick (che anche in così pochi riescono a metter su un assalto malatissimo e brutale – altro che White Stripes!) o per i madrileni Boneflower (nonostante qualche passaggio che vira il loro hardcore verso orizzonti emo). Così come la cosa frega il giusto all’ex P.I.L. Jah Wobble: il suo cane Tyson è volato a miglior vita e l’unica cosa che gli interessa è ricordarlo in salsa dub.
Quarant’anni senza compromessi anche per gli elvetici Young Gods: rock quasi industrial, percussioni tribali e atmosfere cyberpunk non son proprio pane per i denti di Top of the Pops, dove invece starebbero benissimo i Jeanines (immaginate dei Belle and Sebastian ancora più twee) e, visto il ritorno di modissima del rock doom, anche quei mezzi cosplayer doppiogiochisti di ruolo dei Castle Rat.
Per concludere, ecco due feat. succulenti: da un lato c’è Samara Cyn che mischia rap, R&B, salsedine e jazz grazie all’aiuto di Smino, dall’altro Scarlet Sinister Sister e Barry Galvin che ci ricordano cos’è il deathrock e perché ha senso anche nel 2025.
Bar Italia: Cowbella
Genere: Rock
Ultimamente i Bar Italia paiono aver tirato fuori la testa dalla sabbia: un’esposizione più chiara, dopo anni di nascondino sotto gli spessissimi strati di un ricercato lo-fi, dietro i quali scorrevano vibrazioni scarne e distorte, pensieri stranianti e devoti all’essenza dello slacker rock: insomma, a dir poco enigmatici e tanto, tanto piacioni proprio per il loro essere sfuggenti, quasi al limite dello snob – ricordate le polemiche di un paio di anni fa per i loro primissimi live in Italia? Concerti cortini e quasi zero interazione con il parterre.
Ma se parlassimo di Cowbella in relazione a tutto ciò? Potremmo dire che tanto è cambiato in un lasso di tempo piuttosto ristretto: The Twits, difatti, reggeva ancora il velo caliginoso di un sound volutamente minimal, pur non raggiungendo l’efficacia (e la completezza compositiva) di Tracey Denim.
Due anni sono trascorsi, i Bar Italia rimodulano un po’ il loro sound e pubblicano anche un video che non sia la ripetizione sfocata di un fotogramma o un mix di piani sequenza sporchi e in bianco e nero – tranquilli, non si capisce comunque una mazza, nonostante la notevole evoluzione alla cinepresa.
Una mossa voluta, certamente, quella di volersi “sgrezzare”, e Cowbella ce lo dimostra in toto. Prendete My Little Tony, scartavetratela e ritinteggiatela con vernici pregiate: chitarre sempre essenziali, ma ripulite e gonfiate a servizio di una stratificazione importante, le voci di Nina Cristante, Sam Fenton e Jezmi Tarik Fehmi che tornano a rincorrersi senza celarsi, però, sotto gli stridii degli amplificatori e una produzione che sprigiona una limpidezza decisamente nuova.
Odore di grande passo in casa Bar Italia che, volenti o nolenti, rimangono una delle realtà (alternative) più interessanti dell’ultimo quinquennio.
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Boneflower: Anniversary
Genere: Punk
Madrileni, i Boneflower sperimentano le differenti forme dell’hardcore moderno, non lesinando sperimentazioni ed energici cambi di ritmo e intensità. Sono ormai dieci anni tondi tondi che calcano i palchi di Spagna ed Europa e lo smalto è lucido, splendente, ordinato. Pronti al terzo album, primo per Deathwish Inc., label del giro Converge (e ho detto tutto). Tanto pronti e allenati che le urla belluine si posano su un’architettura melodica, pulita e orecchiabile, finendo addirittura con un cantato clean che li avvicina a orizzonti quasi emo.
Sembra quasi di assistere a una levigatura in diretta del suono, tanto che l’album nel quale sarà contenuta questa Anniversary (Reveries) potrebbe legittimamente giocare su più campi andando a prendersi attenzioni insperate. Del resto un compleanno è sempre un momento delicato in cui gioia e amarezza convivono, una piccola morte anagrafica per un traguardo raggiunto che forse va a chiudere altre strade.
Bello sentire però una musica così in movimento, per due minuti scarsi che ancora non riusciamo a collocare ma che promettono moltissimo. Another year together, salute a tutti voi.
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Bruno Dorella: Grady
Genere: Folk Altra musica
– Mr. Grady, noi due ci siamo mai visti prima?
– No Sir, credo proprio di no.
– Ehm, Mr. Grady… ma lei non era il custode di questo albergo?
– Ma no Sir, non mi pare proprio.
– Lei è sposato, non è vero Mr. Grady?
– Certo Sir, ho moglie e due figlie, sì.
– E… dove sono ora?
– Oh, da qualche parte, al momento, dove non saprei, Sir.
Provate ora a cambiare i personaggi di questo dialogo, il gruppo Nanou al posto di Philip Stone e Bruno Dorella in quelli di Jack Nicholson.
Eppure non è la prima volta che Bruno Dorella e Nanou collaborano: il primo musicista dalle mille anime e i secondi compagnia di danza ravennate. Insieme hanno concepito Redrum, nuovo album e tributo al celeberrimo Shining, di Stephen King prima e di Stanley Kubrick poi. Tutti ci ricordiamo le stanze dell’Overlook Hotel, gli esterni a Mount Hood, nell’Oregon, gli interni nell’Hertfordshire inglese. Finzione giostrata a meraviglia, che ancora dopo decine d’anni inquieta e affascina.
Succede lo stesso per il pezzo di apertura del disco di Dorella – che forse mai come ora è stato semplice e lineare nel suo suono – caratterizzato da una forza e una concisione unica. A tratti sembra di ascoltare un loop che si ripete, la mano di un DJ che ferma e ripristina un disco, ma a uscirne è un suono di chitarra, un beat, un fruscio che si sposano magnificamente allo scenario. Musica sospesa, d’attesa e di personalità, con la quale si torna forse agli albori delle espressioni di Bruno con i Ronin, quelli del primo EP, quelli scarni per necessità e virtù.
Così, oggi come allora, ammalia e strega anche esulando da tutto il resto, che immaginiamo meraviglioso e che di certo toccherà studiare e approfondire. Prepariamo già una risma di fogli e una macchina da scrivere.
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Castle Rat: WIZARD
In un qualche strano multiverso che è collimato incredibilmente con il nostro mondo, il caro e vecchio heavy metal doomeggiante è tornato di moda. Sì, sì, proprio quello fatto di giacchette di pelle, acconciature cotonate, gusto kitsch e immaginari da onanisti incalliti da cameretta. Non a caso il concerto al parco dell’Aston Villa dei Black Sabbath con millemila persone e hype pazzesco si chiama proprio Back to the Beginning. E – ancora più entusiasticamente – possiamo dire che questo revival ci gasa parecchio.
Tra i gruppi principali che cavalcano questa onda non possiamo non citare i Castle Rat, reduci dalla vicinanza con i conterranei Green Lung (ormai tra i nomi più importanti del genere), che tornano sulle scene anticipando quello che sarà già – per l’hype dei più curiosi metallofili – uno dei potenziali dischi dell’anno (in uscita a fine anno). WIZARD, in maiuscolo, si annuncia già da sé, con tutta la sua carica revival postmoderna che ormai abbiamo imparato a conoscere bene.
Video da He-Man degli anni Ottanta, outfit da video dei Manowar, testi tratti da un Chat GPT che ha una mensola nel database dedicata esplicitamente alle B-side dei Pentagram: il tutto suona come deve e non ci fa rimpiangere nemmeno per un attimo di aver perso giovinezze dietro al collezionismo di toppe, CD e roba targata Tolkien. Direttamente da un regno parallelo fatto di fuzz, pelle borchiata e nebbia teatrale, i Castle Rat si fanno ancora le canne con pergamene d’altri tempi e ci accompagnano in un mondo che sembra lontano tanto anagraficamente quanto geograficamente.
La voce della Rat Queen – a metà tra una valchiria e una strega glam – ti guida come un’eco mistica tra foreste di delay e paludi di riverbero e possiamo dire che centra nel segno tutto ciò che non sapevamo di volere e quell’incantesimo doom psichedelico (anche se lo conosci già bene) sai che in fondo ti piace sempre. I suoi Castle Rat suonano alla grande e tengono il gioco: tutto fila perfettamente. “Rallegratevi, Sire” – direbbe un nuovo bardo cosmopolita – “anche se la guerra è alle porte, per quest’anno al castello ci sarà da divertirsi”.
Staremo a vedere se la cera si scioglierà con le luci oppure se l’acciaio non si piegherà. Intanto, lunga vita ai ratti metallari del castello.
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Ick: I Smell Pigs
Genere: Punk
di Max Zarucchi
Quando uscirono i White Stripes sembrò che la formazione a due batteria/chitarra e voce fosse una super novità, della serie less is more e tiriamo fuori tutto il possibile da ciò che abbiamo. Bene, se Meg e Jack White erano musicalmente bianchi, qui siamo all’opposto e le strisce sono inevitabilmente nere.
Voce femminile strappata dalle corde vocali, chitarra ipersatura su tutta la linea, batteria che in un minuto suona più roba del duo di Detroit di cui sopra in tutta la discografia, gli Ick con I Smell Pigs sono qui per fare piazza pulita di tutto e tutti, senza sconti. I californiani cancellano completamente dal loro pentagramma melodia e soluzioni easy a favore di un assalto sonoro malato e brutale, un matrimonio disfunzionale tra il crust punk e l’hardcore più oltranzista, assolutamente politically incorrect, di quelle cose che odorano terribilmente di lo-fi e DIY, per le quali sarebbe impazzito Kurt Cobain facendone pure una cover da infilare in un 7” prima di finire in un ipotetico seguito di Incesticide.
Gli Ick difficilmente passeranno alla storia, così come è molto improbabile che andranno a finire headliner al Download o al Primavera, ma lo sanno bene e probabilmente se ne sbattono altamente, come è giusto che sia. Non resta che alzare il volume, magari andando a ripescare la loro (breve) discografia.
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Jah Wobble: Tyson (dub remix)
Genere: Altra musica
di Max Zarucchi
Diffidate sempre di chi non ama gli animali. Quelli a cui gatti e cani fanno schifo perché (OMG!) fanno la cacca o perdono il pelo. Quelli che ogni volta in cui ci sono discorsi riguardanti la società e i suoi lati negativi non perdono occasione per infilarci gli amici a quattro zampe, colpevoli a dir loro del rincoglionimento delle masse e del calo delle nascite. Diffidate di loro, perché tendenzialmente dietro questo odio ingiustificato si nasconde una scarsa propensione all’empatia, alla cura del prossimo, un giudizio che scavalca il sentimento e una saccenza che affoga l’umiltà del voler imparare dalla vita e dagli esseri viventi, giorno dopo giorno.
Jah Wobble ama gli animali, fortemente, e non si vergogna a dirlo a tutto il mondo. Questa sua Tyson è dedicata al suo cane, recentemente scomparso, e ha voluto ricordarlo come meglio gli viene: con una canzone. Muovendosi ovviamente in territori a lui affini (il post-punk immerso nella dub più acida e ipnotica), Wobble tesse le trame per una mini-suite malinconica e impalpabile, eppure tremendamente terrena: il suo tocco inconfondibile è il perno attorno il quale fluttuano riverberi ed echi. Un ultimo saluto con gli occhi lucidi verso un amico più fedele di buona parte dei bipedi incontrati in una vita intera.
Commovente e schietta, senza troppe lagne da emoticon grottesche e GIF imbarazzanti, Tyson è – artisticamente parlando – la conferma di una carriera sempre di spessore, che andrebbe riscoperta soprattutto da coloro che si limitano al suo apporto fondamentale sui primi due imprescindibili album dei Public Image Ltd. Lunga vita.
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Jeanines: To Fail
Genere: Pop
Se c’è una band che oggi incarna al meglio lo spirito indie e twee pop di fine ‘80 e inizio ‘90, sono i Jeanines. L’ex duo di Brooklyn formato da Alicia Jeanine e Jed Smith (ora trio dopo aver integrato permanentemente la turnista Maggie Gaster), conferma la sua maestria nel padroneggiare questo linguaggio musicale con il suo terzo album, How Long Can It Last, uscito lo scorso 27 giugno. A pubblicarlo, una doppia garanzia per cultori del genere: la storica Slumberland e la britannica Skep Wax, etichetta fondata da Amelia Fletcher e Rob Pursey degli Heavenly. Un doppio imprimatur non da poco come sa bene chi mastica il genere!
How Long Can It Last non si discosta dalla formula tradizionalmente seguita da Alicia e Jed di cui hanno dato prova di essere abili alchimisti: brevi, a volte brevissimi brani pop minimali fortemente orecchiabili e ritmati, in cui a melodie bucoliche e giocose si fondono testi spesso cupi e melanconici. In questo senso, il brano di apertura, To Fail, costituisce una dichiarazione d’intenti. La canzone ruota intorno a un riff di basso che sa di Merseybeat, arricchito via via da una chitarra jangle impeccabile e, nei ritornelli, da un violoncello che regala un tocco drammatico quasi à la Belle and Sebastian. Sotto questa elegante architettura twee, Alicia racconta con apparente leggerezza il senso di spaesamento dopo un fallimento sentimentale. Le sue coordinate emotive collassano («The path, it fades away»), lasciandole una sola via d’uscita: «stray», ovvero deviare dalla norma, liberarsi dallo sguardo altrui e ritrovare sé stessa, in un altrove autentico e finalmente libero.
In questo senso, la domanda ripetuta come un mantra nel ritornello («Is it okay to fail?») è in realtà retorica: il fallimento, in To Fail, non può essere evitato: è già avvenuto. L’unica possibilità che ci rimane, per non crollare, è abbracciarlo – e con esso le infinite strade alternative che si aprono davanti a noi.
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Samara Cyn (feat. Smino): Brand New Teeth
Un’unione che riesce a mostrare il meglio dei due artisti in gioco, questa di Brand New Teeth. Samara Cyn ci porta nel suo mondo, tenendo a bada l’ospite Smino, calato in una strada che si sposa perfettamente con la sua. Rap, R&B, il mare e il jazz: nella maniera più elegante possibile. Un singulto che si spande su un letto orchestrale, quello di Samara, ma che è moltissime cose insieme.
La capacità di risultare personale e sfaccettata, saltando dal rap della prima strofa alle parti cantate è solo una delle componenti. C’è una voce stupenda, morbida e decisa, ancorata alle radici, eppure capace di risplendere per luce e bellezza. Poi la scelta di Smino, già headliner nel tour a due chiamato Kountry Kousins, più di trenta date in tre mesi negli Stati Uniti e tutto luglio in giro per la vecchia Europa.
I denti sono da sempre simbolo di denaro, quindi fortuna, stabilità, successo. Noi siamo completamente rapiti dal groove, ne seguiamo il percorso e preghiamo affinché i professionisti rifiniscano al più presto ciò di cui le loro cavità orali hanno bisogno, affinché possano rappare e cantare ancora a lungo, forse per sempre.
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Scarlet Sinister Sister (feat. Barry Galvin): Rhythm Of Us
Genere: Rock
di Max Zarucchi
Il re Mida del deathrock con la Telecaster è tornato e, come sempre accade quando c’è di mezzo lui, ha suonato e trasformato in oro la musica di una nuova/vecchia conoscenza.
Dal Messico ma con radici polacche, devota all’american gothic e – appunto – al deathrock, Scarlet Sinister Sister (alias Scarlet Elizabeth Ashari, alias Elizabeth Rose – Hekaté) è la voce e mente che sta dietro a questo progetto e ci regala un brano diretto, sanguigno, malinconico e ballabile, dove innegabilmente la parte da padrone la fanno le sei corde di Barry Galvin, ex Christian Death e Scarlet’s Remains nonché deus ex machina dei Mephisto Walz.
Quattro minuti schietti, più ballabili che sognanti (e se proprio di mondo onirico bisogna parlare, qua siamo più nella fascia dell’incubo) per un brano riempipista old school convincente e accattivante, roba che farà la gioia dei nerovestiti crestati di mezzo mondo.
Pretendere anche l’effetto novità forse è troppo, ma va benissimo così: a volte rifugiarsi in sonorità che si muovono nella propria zona-comfort è più appagante della ricerca dell’innovazione a tutti i costi: poco importa se siamo nel 2025 o nel 1990, pezzi simili continueranno a smuovere il cuore di coloro che portano tatuati sui nervi suoni come questi.
Alzate il volume, soffocate nella Splend’Or e lasciatevi catturare, fino alla prossima volta.
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The Young Gods: Systemized
Gli Young Gods compiono proprio quest’anno quaranta primavere, considerando il loro debutto nell’elvetica Friburgo nel 1985. Una carriera impressionante, per uno dei progetti più liberi e sfuggenti della musica moderna, in grado di muoversi liberamente all’interno di rock, industrial, pop e sperimentazione senza mai perdere un’oncia del loro valore. Attualmente in formazione a trio (Franz Treichler, Bernard Trontin e Cesare Pizzi), con Systemized hanno dato il la al loro nuovo album, Appear Disappear, in maniera acida e tagliente.
Il suono è quello convulso che unisce musica rock, percussioni tribali, atmosfera cyberpunk e il recitato intenso di Treichler. Il brano è un enorme gancio melodico che esplode non appena il frontman esterna la sua sensazione, l’essere sistematizzato all’interno di un insieme. E allora si parte con uno sciabordio che non sapremo descrivere se non come sexy.
C’è moltissimo in questi tre minuti e mezzo scarsi, quasi potessimo scorgere compagni di viaggio all’interno degli schermi in bianco e nero che pulsano nel videoclip. Connessioni, tributi, riflessi che ognuno di noi può legittimamente trovare o travisare. Del resto il concetto di essere sistematizzati fa venire alla mente attinenze e somiglianze. Potremmo citare un Trent Reznor, un John Lydon, dei riflessi quasi zooropiani nell’orbita U2. Ma tutto è un flash, al prossimo ascolto potrebbe uscire altro e ci rimarrebbe solo l’immagine di tre persone, probabilmente di spalle, che camminano nella notte e che continuano a muoversi lasciando traccia di sé in forma di suono e musica, che noi ci ostiniamo a raccontare.
Allora forse mai come in questo caso serve ascoltare e basta, entrando nel flusso dei giovani dèi, scuotendosi con loro.
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