[Storie] Che fine ha fatto il noise rock?
Spoiler: è ancora tra noi, vivo e vegeto. Ma i migliori interpreti sembrano essere sempre gli stessi di venti e più anni fa.
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Per uno strano allineamento delle stelle o del destino, nel 2024 ci siamo accorti di nuovo del noise rock. Una brutta bestia che sembra non avere alcuna intenzione di calmarsi, nonostante l’invecchiamento di alcuni dei suoi più grandi autori, che si sono ripresentati aggressivi e convinti come non succedeva da tempo. Musica matura per un pubblico maturo? Forse, ma l’intento di brutalizzare qualche nuovo paio d’orecchie appare chiaro, dagli Stati Uniti al Giappone al nostro Stivale. Vediamo come, cosa e perché.
Per la sordità basta alzare il volume
Il noise rock invecchia con noi, viva il noise rock.
Vedendo alcuni dischi usciti in questi ultimi mesi, dagli Human Impact di Chris Spencer, Jim Coleman, Phil Puleo e Chris Pravdica (una sorta di crème uscita da Unsane, Cop Shoot Cop, Swans e Xiu Xiu) ai redivivi Jesus Lizard e ai nostri Three Second Kiss, passando per l’agire dietro mix e master di Dave Curran, per il ritorno di Eugene S. Robinson e compagnia italiana, per alcuni stralci di Sacred Bones (pensiamo agli Uniform), fino ai coniugi Lombardo nei Venamoris, agli Uzeda e al lavoro di chi sta dietro a realtà come Skin Graft, Overdrive, Improved Sequence e Ipecap, verrebbe da dire che il rumore preserva gioventù e freschezza. Altro che tinnitus e ossa rotte.
Il noise rock è maturo e sta piuttosto bene perché non è mai finito. Chi lo segue e lo apprezza da anni tutto questo lo sa benissimo. Tuttavia possiamo ammettere che, forse, è arrivato il momento di dire con serenità che suonare fuori da limiti canonici, andando a lambire il rumore – e che lo si avvicini alla pazzia colorata e nonsense dei fumetti, alla brutalità hardcore, all’espressione di un malessere emotivo, al latrato del punk più sporco – raramente genera fuochi di paglia.
Rumore e fumetti
Parliamo in primis di etichette, poiché storicamente questa comunità fatta di disagio e fierezza tende a concentrarsi attorno a cardini che possono comprendere e veicolare meglio la loro forma espressiva. Cardini che, in molti casi, sono vere e proprie istituzioni culturali.
Una di queste è senza dubbio la Skin Graft, che dal 1986 e sempre sotto la guida di Mark Fischer propaga acufene in ogni recondito angolo del globo. Solo nel 2024 ha prodotto il trio berlinese Cuntroaches (Martina Schoene-Radunski a chitarra e voce, David Hantelius al basso, Claire Panthère alle pelli) che dal punk più zozzo approdano al rumore selvaggio. In poco più di mezz’ora, il loro omonimo album trasporta in un abisso nero, preparandoci sostanzialmente al peggio, a un mondo dove le parole perdono definizione e significato e dove la massa informe e buia del black metal sembra prendere possesso delle nostre anime per sempre. O almeno fino al termine della prossima birra.
Già, perché d’un tratto, nello stesso scantinato, arrivano i colori sgargianti degli Squid Pisser – fusione di membri di GWAR e Starcrawler – che, in un mondo fra comics (del resto, prima di arrivare ai dischi la Skin Graft iniziò con degli album illustrati…) e brevi pezzi lancinanti, uniscono le intuizioni lanciate decenni fa dai Lightning Bolt a una certa attitudine hardcore mantenendo un ghigno sul muso, trasfigurato dalle maschere indossate, per il peggior incubo possibile.
Arriviamo così alla coppia nipponica delle Hyper Gal, che con il loro secondo LP After Image (il primo, Pure, è uscito la scorso inverno), sono riuscite – tramite un insieme di suoni e vocine in un mondo creepy che forse non corrisponde esattamente all’idea tradizionale di noise pesante, ma riesce comunque a insinuare nelle orecchie quel fastidio folle capace di liberare papille gustative, visive e umorali – a farci ballare nella peggior maniera possibile.
Chiudiamo la parentesi Skin Graft con Mansuetude dei Buñuel. Secondo disco anche per la band di Eugene S. Robinson, indimenticabile frontman degli Oxbow accompagnato da una backing band che raccoglie tutta la sostanza di una certa scena noise italiana: Xabier Iriondo (che ricordiamo sferragliante nei suo trascorsi Six Minute War Madness), Franz Valente, già Teatro degli Orrori, e Andrea Lombardini, nuovo acquisto al basso, che fino a ora si era mosso principalmente nell’area jazz. Suono oscuro e pneumatico, massiccio e unto, con Eugene a far la parte del padrone mentre sotto si scatenano inferni di diverse tonalità e gradazioni.
Ricordiamo poi, a titolo informativo e per non perdere comunque una mappa di riferimenti, il notevole lavoro portato avanti da Barnacles (alias di Matteo Uggeri) insieme ai romani Vonneumann e intitolato The Gravedigger Kid: un forte tributo all’estetica Skin Graft stessa che va a riprendere i personaggi ricorrenti dei loro comics (come Mr. Brown e Gumballhead) e li inserisce in un contesto di morte artistica che negli ultimi anni ha decimato un parterre di personaggi iconici. Ne esce così un disco che, più che un tributo sonoro, è un omaggio personale e che non mancherà di affascinarvi.
California dreamin'
Trasferiamoci poi in California, sede della Ipecap, entità originariamente creata solo per far uscire il debutto dei Fantômas – quell’Amenaza al Mundo che ancora si staglia come uno dei graffi più brillanti nella musica estrema degli ultimi venticinque anni – e velocemente trasformatasi in una fucina produttiva che ha sostenuto a lungo gli esperimenti dei Melvins e di Mike Patton, portando molti altri a dipingere di toni oscuri le nostre vite, come Dälek e ISIS, solo per fare un paio di nomi.
A interessarci in questa sede sono soprattutto due produzioni, però: Gone Dark degli Human Impact e Rack dei Jesus Lizard (perdonatemi per la citazione iniziale dei Venamoris – il nuovo disco arriverà solo il mese prossimo, ma l’idea che una coppia come Dave e Paula Lombardo si trovi a esprimere il suo amore attraverso il rumore non mi fa stare nella pelle). Comunque, siamo di nuovo lì, fra i reduci.
Gone Dark è scuro, fra hardcore e noise, e ci fa veramente credere di essere sotto i colpi degli sbirri antisommossa rappresentati in copertina. La sensazione è quella di non esserci spostati di un centimetro: suono quadrato e consono a un clima di eterna tensione, la sensazione di essere osservati dai performer sopra al palco e la volontà che il volume si alzi sempre di più, fino a ottenebrare la mente e fondersi con i cori berciati dal pubblico.
Anche i Lizard sembrano essere in gran forma, tirati a lucido e lanciati negli undici pezzi che compongono il loro ultimo Rack, anche e soprattutto grazie a David Yaw, probabilmente uno dei frontman e vocalist più caratteristici degli ultimi quarant’anni. Mancavano a rapporto da tredici e la sensazione è che non si siano minimamente scordati come si faccia a unire urla, batteria gommosa e possente, chitarre raglianti e basso plastico. Pare di vedere la Via Crucis di una palletta rimbalzina attraverso un ambiente marcio. Scatti e salti brucianti, via via più sporchi, fino a caricarsi di sudicio e carattere, pronti a colpirci senza il minimo preavviso, lasciandoci sconcertati.
Sempiterni anche i Melvins, che sono ritornati con il loro ventisettesimo album, Tarantula Heart, unico nella composizione per quanto riguarda la band di Aberdeen. Nasce infatti come una lunga improvvisazione di batteria a cura di Dale Crover e Roy Mayorga, sopra alla quale Steven McDonald e King Buzzo sono andati a intervenire con basso, chitarra e voce, trascinando l’organo cardiaco verso pulsazioni coerentemente sludge e pesanti, solenni per alcune linee vocali e di sicuro ben rappresentative di chi ormai da una vita ha scelto una strada unica senza mai aver avuto il dubbio di guardarsi indietro.
New York, New York: cosa succede nella Big Apple
Sacred Bones che dice, invece? Innanzitutto, parte dalla Grande Mela: già, quella New York che da anni dà fiato e movimento agli Uniform, formazione che recentemente, con American Standard, ha provato a esorcizzare un disturbo alimentare come la bulimia che da anni la accompagna, intitolando l’album come la marca di latrine nelle quali più spesso si è trovata a vomitare.
È un disco che fa male e dal quale traspare il disagio umano, ma anche la forza con la quale si decide di reagire, picchiando e pestando sulle pelli come se fosse l’ultima cosa da fare su questo pianeta. È un lavoro profondo, che riesce a essere espressivo attraverso il rumore perché tocca la sfera carnale e umana, industriale e meccanica, naturale e vegetale. Michael Berdan al microfono dà tutto quanto se stesso, con una formula mutuata dall’hardcore che non lascia nemmeno una briciola di energia al corpo, in una performance letteralmente toccante. I venti minuti abbondanti della title track crescono dopo un’ingresso a gamba tesa fatto da un call and response che sembra sfociare sempre più in un urlo emotivo, talmente profondo da trasformarsi in un gorgo che inghiotte tutto.
Qualche mese dopo l’uscita dell’album, la band si è cimentata con un’operazione di remix che ha preso forma in Nightmare City, viatico che ci mostra un disagio più umido e circoscritto, come se l’integrità degli attori fosse messa alla prova da un mondo avverso che li confina forzatamente nei propri spazi.
Il bajou infernale
Spostandoci In Louisiana, i Thou continuano imperterriti con la loro musica sfasciata, rumorosa e berciante, pur con punte di orecchiabilità più spinte rispetto ai cinque album precedenti. Umbilical è comunque una gragnuola che ci fa ondeggiare sotto i colpi. «Sludge putrido dal bayou», per citare l’emerito Aaron Giazzon di Sodapop: un disco che sembra azzannarci alla giugulare per non lasciarci più, con un immaginario horror e gore evocato semplicemente dalle atmosfere ferine della band.
Ma i Thou partono dal punk e si sente benissimo, resistono immuni a cambiamenti, moti e mode. Fanno il loro, forse si aprono, forse si chiudono, per certo colpiscono senza remore e fanno male quanto devono, in un hardcore che si trasforma in una coltre di pece che acquista sempre più massa e velocità, mentre i musicisti sembrano mutare in mostruose creature.
I quasi cinquanta minuti dell’album dimostrano ancora una volta che l’insistere su concetti semplici e ripetuti a volte paga e che, urlando, di norma entrano direttamente nel nostro cervello.
Depositi in miniera
Impossibile a questo punto non effettuare una deviazione verso Oklahoma City, da dove questo autunno hanno rifatto capolino i Chat Pile, progetto che, con God’s Country, lo scorso anno aveva letteralmente sparigliato le carte in tavola. Oggi, Cool World porta avanti un processo che, se da una parte inizia a lasciar trasparire un desiderio di normalizzazione, dall’altra dimostra di saper gestire una materia pesante e polverosa dandole una forma che ben si sposa con una (più o meno) sana follia, in una rielaborazione di un certo sound anni ‘90 all’insegna di intenzioni belluine e libere.
C’è un’apertura stilistica che scopre le radici di una formazione che conserva e utilizza le strutture più massicce del noise, facendole gravare su una disperazione che, in particolare nelle aree rurali e industriali, riesce a trovare una via d’espressione amplificando il volume e distorcendo sia la realtà che l’espressione. Benvenuti anche loro, dunque, in questa cerchia.
Incroci malefici
Come ultimo disco statunitense porto a sostegno della mia tesi l’incontro fra Full of Hell e Andrew Nolan che, in Scraping the Divine, uniscono le forze fino a creare una creatura elastica e pungente, un’entità amorfa capace di spezzare il ritmo e farsi sempre più asprigna, acida e malsana. Quando si apre, si sentono il rombo e l’ardore, ma è forse nei suoi antri più oscuri che possiamo assaporare il marcio vero.
L’unione, poi, di sonorità digitali e colorate dà a tutta la storia un fascino in qualche modo 2.0, parecchio intrigante, accompagnato da uno sguardo verso il mondo del Sol Levante che apre ulteriori porte. Alla voce in Gradual Timeslip troviamo infatti Taichi Nagura degli Endon, mentre ai suoni in un paio di brani troviamo GxCx, progetto che da circa un quarto di secolo riduce l’elettronica a rumore quasi bianco, in maniera instancabile.
Proprio gli Endon, con il recente Fall of Spring, hanno dato conferma del loro continuo talento, riuscendo a farci viaggiare in una meravigliosa decadenza primaverile a potenza massima. Per non farsi mancare nulla passa a dare la propria benedizione anche Justin K Broadrick, a conferma di un legame con i tempi che furono che è molto ben saldo fra i pieni e i vuoti.
Connessioni italiane
Ma ora voliamo in Italia e portiamo con noi il solito Dave Curran, che la milanese Overdrive (insieme ad altre cinque etichette per la più classica delle cordate: Tadca, Vollmer, Forbidden Place, Justice e Lost Well) ha saggiamente portato dietro al bancone di comando per il disco dei Cani Sciorri, Atletica ‘75, uscito nel 2023.
Musica selvaggia e allo stato brado fra rock’n’roll e noise bruciati dal sole, che una volta ancora ribadisce come le brutte abitudini siano dure a morire, considerando la più che decennale carriera dei cuneesi.
A onor di citazione, anche il contributo di Dave anche al mix e master di uno del progetti che da sempre preferisco della musica pesante italica: i Gufonero, dal Trentino, il cui splendido Ipnagogico del 2021 ha avuto il privilegio di essere benedetto da queste mani esperte.
Di Overdrive dicevamo “milanese”. Già, perché, partita nel 2009 a Soverato, in Calabria, in quindici anni è riuscita a inserirsi nella scena del capoluogo meneghino. Ha iniziato con la fabbricazione di vinili tramite Fabio Lupica, raggiunto poi da Cristian Urzino, e si è espansa sia nella stampa di supporti discografici che nella produzione di ristampe e dischi nuovi, in un catalogo che comprende nomi grossi come i già citati Buñuel, Six Minute War Madness (con la ristampa dello storico Il vuoto elettrico), Three Second Kiss, fino agli Uzeda e ai Bologna Violenta, diventando così il nome grosso per chi si dedica a un certo tipo di musica.
Ma, soprattutto, la bellezza di un catalogo come quello di Overdrive è la capacità di dare luce a progetti più piccoli e non meno validi come ad esempio i bolognesi Nadsat e i reggiani Dievel. Nomi che forse ai più non diranno granché, ma che rappresentano molto di quando descritto finora, declinato nella sua forma più fresca. I primi, con Torn Times e lo split insieme ai Demikhov, dimostrano di saper maneggiare un suono brutale e aggressivo, che parte dalla furia hardcore e si esprime attraverso incastri di chitarra e batteria in maniera feroce, la voce sull’orlo della rottura di Michele Malaguti e il ghigno sardonico di chi ha scoperto, tramite test del DNA, di essere direttamente connesso ai grandi vecchi.
Dei Dievel, poi, che dire? Un quartetto che porta con sé un bagaglio di esperienze nei più disparati progetti (Dolpo, Ornaments, the Death of Anna Karina, Amp Rive ed End of a Season), capace di stendere sotto di noi un tappeto di musica granitica, evocando lo sfacelo della materia: lento ma inesorabile, destinato a schiacciarci tutti. Cambi di ritmo come maree, la capacità continua di mantenere i corpi alla spasimo, pronti a un salto che non arriverà mai, in eterna tensione.
Dopo una panoramica sull’etichetta, approfitto della gentilezza di Cristian Urzino – considerata la sua gestione del negozio Dissonanze, in centro a Milano, e della sua frequentazione di concerti – per tastare il polso del pubblico milanese nei confronti di questo tipo di musica. Il ritratto che mi riporta è molto intrigante: parla di ragazzi che scovano dischi dei Sonic Youth nelle soffitte dei padri e si informano per approfondire quelli di Kim Gordon in negozio, ma anche di casi in cui qualche curioso rimane affascinato da esibizioni bizzarre e colorate come appunto quelle delle Hyper Gal e assalta il banchetto a fine concerto, proprio come ai vecchi tempi. Ragazzi e ragazze di 20-25 anni, interessati, affamati e senza particolari barriere né freni stilistici nel saltabeccare fra un genere e l’altro, ivi compreso – ci mancherebbe – il sano e vecchio noise rock.
Sempre in Italia, ma a Bologna, opera da qualche tempo, con un ritmo quasi esasperato, Improved Sequence. Creata da Jonathan Clancy e Gianluca Cerri – il primo musicista rinomato nonché paròn della Maple Death, il secondo uno dei soci del Freakout, club storico bolognese. In un catalogo ricchissimo di ristampe si trovano spesso anche lavori contemporanei che riescono a lasciarci brividi lungo la spina dorsale, come i Dodenbezweerder, duo creato da Jouke Grit alla batteria e Maurice de Jong a voce e chitarra. Als De Hemel Zich Vult Met Apocalyptisch Kopergeschal è una sorta di black metal grugnante e sinfonico, che sembra impossessarsi del mondo intero, ascoltatori compresi. Una potenza costante, lenta e fagocitante che si rivela assolutamente irresistibile.
D’altra parte, solo il fatto che nel 2023 si sia scelto di aprire una label riproponendo titoli di Distorted Pony, Gnaw Their Tongues, Weasel Walter, Blurt, Mars è un segnale molto forte. Sta a significare che un pubblico esiste, fatto da gente che molte di queste cose le ha vissute e le riconosce come proprie. A detta di Jonathan Clancy l’idea di partenza iniziale era quella di ristampare su vinile produzioni che negli anni ‘90 erano finite direttamente su CD, concentrandosi su del materiale riconducibile a quanto presentava ai tempi un’etichetta come Amphetamine Reptile. Dischi fondamentali e dimenticati in Italia come le prime uscite degli OvO o quelle dei Three Second Kiss, oltre ai francesi Ulan Bator. Sono lavori che hanno segnato in qualche modo la crescita di un movimento, tra Assassine ed Everyday-Everyman, in maniera molto differente, confermando però in qualche modo lo smarcamento dalla semplice copia di ciò che veniva prodotto oltreoceano per arrivare a una sintesi personale che ha contraddistinto i progetti citati fino al presente (e ne sono passati di anni!).
Oltre a questa frangia viene portata avanti un’azione sul presente come la produzione dei dischi di Gnaw Their Tongues (progetto dietro al quale si nasconde lo stesso Maurice de Jong), cosa che riesce anche ad attirare una specifica tranche intergenerazionale che segue il personaggio.
Citati per la ristampa del loro esordio, nel 2024 sono tornati anche i Three Second Kiss con un disco, From Fire I Save the Flame, che ci riporta, dodici anni dopo la loro ultima opera, a dove il tutto è iniziato nel 1996. Architetture precise e fiotti strumentali sui quali si posa melliflua la voce di Massimo Mosca. Geometria in movimento, come la vecchia scuola insegna, per brani che rientrano in un’idea di noise rock che i bolognesi hanno portato avanti per un’intera carriera senza mai assomigliare a se stessi. Nervosismo, svisate e due intermissions di profondità toccante, per un disco maturo come una bottiglia di vino d’annata.
Per concludere è doverosa una nota che riguarda Maria Arena e gli Uzeda. Catanesi entrambi, la prima decide di lanciare una raccolta fondi per produrre un documentario sulla storia di questi ultimi, in qualche modo alfieri di certa musica noise e primi a tessere relazioni negli USA finendo su Touch and Go già nel 1998 con il loro Different Section Wires. Il risultato? DIY! Quasi ottocento sostenitori, più di ventimila euro raccolti e una testimonianza che, stando a quanti ne hanno apprezzato le prime visioni questo autunno, sembra essere una freccia al cuore. Basta il trailer per carpire parole di affetto da parte di Steve Albini, Jeff Mueller, Tobias Nathaniel, che li dipingono come un esempio, a dimostrazione di come parti di questo benedetto rumore siano riuscite a girare il mondo.
Insomma, se il mercato e le vendite si sono stabilizzate dopo l’ondata COVID, i progetti più persistenti hanno però uno zoccolo duro che acquista i formati fisici e sostiene la scena anche attuale e che sembra comunque essere quello dei 35-50enni (non un caso la scelta del vinile come supporto).
Rumore, sempre uguale e sempre diverso, che è riuscito a entrare nella musica mangiandola dall’interno, intaccando orecchie, cuori e cervelli di chi, da anni, non riesce più a farne a meno. Una musica che non può avere confini certi e può spostarti da una semplice durezza alla violenza più efferata, ma che ricerca in ogni caso una scossa e uno schiaffo. Rumore che può essere mutuato dal rock, dall’hardcore, dall’industrial o dalla musica sperimentale, ma che di fatto testimonia il bisogno e la ricerca dello spingersi sempre un pochino più avanti.
It's only noise rock but I like it.