[Storie] Guida a Prince in 10 dischi
Ok il love symbol, gli scazzi con la Warner, il Fentanyl e la morte prematura. Ma poi?
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di Eddy Cilìa
Eddy Cilìa distribuisce consigli per gli ascolti ai principianti assoluti: 10 album-simbolo per riassumere a grandi linee (e con il rischio di aver lasciato fuori a malincuore qualche capolavoro) la carriera di un artista che dir prolifico è poco, l’artista un tempo noto col suo stesso nome.
Tragicamente prematura la scomparsa dell’artista che era tornato a farsi chiamare Prince e che veniva trovato privo di vita, in un ascensore del lussuoso complesso che ne ospitava casa e studio di registrazione, dal figlio del luminare della medicina che avrebbe dovuto visitarlo la mattina stessa. Straordinariamente intempestiva, anche: morendo cinquantasettenne il 21 aprile 2016, vittima dell’epidemia di Fentanyl che pure fra i musicisti ha fatto strage (da lì a un anno e mezzo anche il decesso di Tom Petty verrà collegato al farmaco killer), se ne andava al nadir di una carriera quasi quarantennale. Se già nella seconda metà dei ‘90 aveva traversato una fase di scarsa ispirazione (di stanca no: stiamo parlando di uno la cui prima dipendenza era dal lavoro), tuttavia quella era durata qualche anno di comunque non totale eclisse seguita da una prodigiosa resurrezione. Laddove al congedo Prince Rogers Nelson giungeva avendo messo in fila dopo l’ancor valido Planet Earth del 2007 una sfilza di album dal mediocre al pessimo. Ma chi può escludere che non sarebbe tornato almeno occasionalmente a regalarci, inoltrandosi nella terza età, dischi di nuovo brillanti? Qualcuno persino all’altezza, per quanto inevitabilmente di non paragonabile rilevanza, dei classici qui affrontati. Si può fare, ci hanno dimostrato Bob Dylan e Neil Young, e aggiunge dramma a dramma che a Prince questa possibilità sia stata negata. Né potrà porre mano in prima persona, come proprio a costoro è stato dato, ad archivi sterminati per allestire una sua Bootleg Series. Che a oggi (aprile 2024) chi ha curato monumentali Director’s Cut di 1999, Sign o’ the Times e Diamonds and Pearls abbia agito in modo ineccepibile, regalando ai fans una quantità pazzesca di materiali di valore e minutaglia zero, vale come consolazione solo parziale, visto che tocca augurarsi toccando ferro che il finora unico album postumo, Welcome 2 America, che il titolare aveva inciso nel 2010 e accantonato benché al tempo i suoi standard qualitativi già si fossero assai abbassati, resti un inciampo isolato.
Dieci album per una discografia base di un solista o un gruppo possono sembrare tanti e in special modo se lo stesso numero è stato reputato sufficiente come introduzione per un neofita a una scena o un genere. Nondimeno alcuni artisti hanno avuto una tale rilevanza, per vastità e qualità del catalogo e influenza esercitata, avendo ispirato legioni di epigoni, da giustificare una trattazione in questo contesto. Prince appartiene al ristrettissimo novero. Addirittura, non soltanto alla resa dei conti dieci titoli per lui non sono sembrati troppi ma è toccato lasciare fuori lavori importanti, la cui assenza potrebbe venirci rimproverata dal cultore più addentro alla materia: Dirty Mind, che nel 1980 sanzionava un clamoroso balzo in avanti rispetto ai primi due acerbi LP e contiene due dei brani più schiettamente rock (la traccia omonima e When You Were Mine) dell’artista di colore che nello scorso secolo ha fuso come nessuno (oltre un riconosciuto maestro quale George Clinton) musiche bianche e nere; e ancora di più, per solidità complessiva, il successore dell’81 Controversy. Mentre in luogo di 3121 avrebbe potuto figurare il precedente di due anni Musicology. E che dire del monumentale (triplo o quadruplo, dipende dall’edizione) One Nite Alone… Live!, del 2002? Giusto che quello sì è sul serio troppa roba per absolute beginners.
1999 (Warner Bros, 1982)
Quinto lavoro in studio dell’artista di Minneapolis e con i suoi 70 minuti e 29 secondi fino a quel punto il più corposo, 1999 conquista a Prince la copertina di Rolling Stone. Seconda investitura presso il pubblico bianco a seguire alcune date di spalla… ai Rolling Stones, anche se ci vorrà ancora un tot perché l’accettazione da parte di quella platea sia completa. Come nei predecessori, l’artefice in sala d’incisione ha operato in quasi perfetta solitudine, con l’eccezione di qualche pista di voci femminili e un assolo di chitarra di Dez Dickerson in Little Red Corvette, avvolgente ballata che è una versione appena annerita dei Cars (influenza lampante pure in Let’s Pretend We’re Married). Resterà uno dei capitoli più rock della sua intera discografia, con echi diffusi di new wave e techno-pop UK (molto degli Human League in Automatic), tracce evidenti di Devo nell’attacco di Something in the Water e la chitarra che nel sospeso minuetto di Free divaga con stonata pigrizia. Unite a ciò un funk mai così FUNK e otterrete un album che non concede pause, o comunque poche fino alla melliflua International Lover che lo suggella. Non si saprebbe dire se risultino più irresistibili le melodie o i ritmi, se più ammirevole la sapienza di articolazione o il singolo attimo che esalta fino al delirio (esatto: Delirious).
Purple Rain (Warner Bros, 1984)
Chi non c’era non può lontanamente immaginare quanto fosse onnipresente nell’84 Purple Rain, colonna sonora di un film men che modesto (null’altro che una sfilata di stereotipi da rock movie) e a dispetto di ciò anch’esso trionfatore al botteghino (settanta milioni di dollari nei soli Stati Uniti ed era costato quanto un videoclip). Il disco, che sta in piedi benissimo senza immagini, è invece un indiscutibile classico, dalle voci declamanti su un bordone d’organo che conducono a uno scatenato funk hardelico di Let’s Go Crazy a quelle declinanti gospel del sognante finale della title track, lunga, malinconica e infinitamente seducente ballatona dalle fragranze blues. È come se Marvin Gaye facesse festa con Jimi Hendrix (quello romantico di Little Wing), come se Stevie Wonder incontrasse il George Clinton versante Funkadelic e insieme scrivessero una West Side Story nera. Dal sentimentalismo trattenuto e poetico di The Beautiful Ones si passa al ficcante riff di Computer Blue, da una Darling Nikki che alterna carezze e lamate a When Doves Cry, che fu la canzone che spinse l’album a un primo posto nelle classifiche USA occupato per ventiquattro settimane consecutive osando l’inosabile in materia di black music: niente basso.
Around the World in a Day (Paisley Park / Warner Bros, 1985)
Non sono trascorsi che dieci mesi dall’uscita di Purple Rain e il seguito è già fuori, non per la gioia bensì per il cruccio dei dirigenti Warner, che nonostante vendite ammontanti nei soli Stati Uniti a quasi dieci milioni di copie vorrebbero continuare a cavalcare un’onda lontana dall’essersi esaurita e poi creare attesa per il successore. Cruccio che si trasforma in sconcerto quando viene loro consegnato un LP che nella prima facciata somiglia zero al precedente. Già la copertina lo fa intuire, l’oud bagnato da una pioggerella di percussioni che introduce album e brano omonimo lo conferma: l’uomo di Minneapolis ha deciso di darsi alla psichedelia. Ed ecco una Paisley Park che in fatto di aderenza al canone del Sergente Pepe rivaleggia con i Dukes of Stratosphear, ecco l’eterea Condition of the Heart in cui il piano veleggia fra jazz e cameristica, ecco l’infiorettarsi di archi sulla melodia cantilenante di Raspberry Beret. Non che il secondo lato somigli granché di più all’idea che la massa si è fatta di Prince: se la psichedelia viene accantonata, il suono, tolta la magniloquente The Ladder, è sferzante e cede spesso a tentazioni hard. Parrebbe un suicidio commerciale, un po’ lo è: Around the World in a Day è comunque un numero uno USA, ma per poco e vendendo un quinto di Purple Rain.
Parade (Paisley Park / Warner Bros, 1986)
Meritatamente stroncato dai critici e pressoché ignorato dal pubblico, il film di cui quest’album è la colonna sonora, Under the Cherry Moon, è flop epico quanto lo era stato il trionfo di Purple Rain. Il disco, che al contrario è bellissimo, si ferma al numero 3 (però il singolo Kiss è l’ennesimo – uno degli ultimi – numero uno). Tutto in esso è perfetto ed emozionante, dagli archi e dagli ottoni a zonzo sulla ritmica meccanica di Christopher Tracy’s Parade, uno scampolo del lisergico Around the World in a Day, alla spettrale I Wonder U, dall’onirica Under the Cherry Moon alla strascicata e molto Sly Stone Life Can Be so Nice, dalla storta e ossessiva Mountains allo squisito jazzetto da musical (infatti) Do U Lie?, dall’accorata Sometimes It Snows in April a Girls & Boys, funk che traccheggia in attesa di una rivelazione di infinito. Svetta su tutto Kiss, altro funk e tanto minimale (percussioni scheletriche, chitarre con il wah wah, voce alla Curtis Mayfield) quanto di istantanea fascinazione. A dispetto della disastrosa performance del film, si direbbe insomma che Prince resti incapace di sbagliare una mossa. Da lì in avanti ne sbaglierà parecchie e però pure i peggiori fallimenti saranno in una certa misura gloriosi.
Sign O' the Times (Paisley Park / Warner Bros, 1987)
Triplo nelle intenzioni dell’artefice, Sign O’ the Times si riduceva a doppio su vigorose sollecitazioni di una casa discografica per un verso innervosita dalle bizze di Mr. Nelson, per un altro da un declino di popolarità ormai evidente. Quando Parade si arrestava al numero 3 in Warner suonavano tutti gli allarmi e così il progetto Crystal Ball veniva cassato. Lampante dimostrazione di come la gratitudine non sia di questo mondo, se si pensa alle milionate di dischi vendute da Prince già prima di Purple Rain. Ma forse (per quanto qualche dubbio la pubblicazione nel 2020 di uno straripante box con quattro CD di materiali in studio inediti lo abbia fatto venire) è andata bene così, giacché Sign O’ the Times pare perfetto e dunque non perfettibile, variegato ma coeso e coerente come forse non sarebbe stato senza i tagli. C’è una Kiss più veloce (Play in the Sunshine), c’è della electro (Housequake, Hot Thing), c’è del blues abbastanza canonico (Slow Love) e dell’altro a bagno nell’LSD (The Cross), ci sono una strizzata d’occhio a Barry White (If I Was Your Girlfriend), una ai Parliament (It’s Gonna Be a Beautiful Night), un lento da struscio e da urlo (Adore). Sono comunque ottanta minuti e non si butta niente.
Diamonds and Pearls (Paisley Park / Warner Bros, 1991)
Fra qualche rara gemma (le più luccicanti la ballata Anna Stesia e una Dance On dal titolo programmatico) molto vi è viceversa di francamente dispensabile nel 1988 nei tre quarti d’ora di Lovesexy, assemblato frettolosamente all’indomani di un abortito (e piratatissimo fino alla pubblicazione ufficiale diversi anni dopo) The Black Album, e nelle colonne sonore Batman e Graffiti Bridge, rispettivamente dell’89 e del ’90. Sicché sembra miracoloso il ritorno in quota nell’ottobre 1991 con Diamonds and Pearls, che aggiorna il funky-soul-rock psichedelico del nostro uomo all’era dell’hip hop e convince appieno sia nel complesso che con una manciata di pezzi da antologia, dall’R&B a rotta di collo di Thunder a una canzone omonima languidissima (idem Insatiable), dal jazzetto da balera di Strollin’ al rap prima maniera di Jughead e Push, dal funk-blues di Willing and Able agli scampoli go-go di Get Off. Osserva qualcuno che, incorporando nella sua musica elementi di quell’hip hop a lungo guardato con diffidenza, Prince per la prima volta insegue i tempi invece di provare ad anticiparli. Vero, ma di che lamentarsi di fronte all’ispirazione ritrovata?
Love Symbol (Paisley Park / Warner Bros, 1992)
«Il mio nome è Prince» proclama il primo brano del disco dopo. Non pleonasticamente visto che impresso sul jewel box c’è un simbolo che comprende in sé l’essenza di maschile e femminile e con il quale compiuti i trentacinque anni l’artista pretenderà di farsi chiamare. Non indicandone però la pronuncia e ingenerando un dilemma che dura a oggi su come riferirsi a quest’album, per alcuni Prince and the New Power Generation, per i più Love Symbol. Lavoro superlativo che sintetizza in un’ora e un quarto tre decenni di musica nera spruzzandoli profusamente di scratching e non si arresta lì, visto che vi si incontrano anche puntute chitarre rock e sitar e a un certo punto (3 Chains O’ Gold) si fa persino una gita all’Opera coi Queen. Le prime quattro canzoni costituiscono forse la migliore sequenza mai messa in fila da costui: vacillanti dopo la tiratissima My Name Is Prince, si viene atterrati dall’elementare ritornello, dal rap incorniciato dai fiati, dall’organo errebì, dalla chitarra jazz di Sexy MF; poi consolati da una Love 2 the 9’s prototipo di modern soul; infine rimessi in piedi da The Morning Papers, ballata elettrica grintosa quanto elegante. E che dire, più avanti, dell’esplosiva I Wanna Melt with U, del gospel di 7 o di una The Sacrifice of Victor che in 5’41” racchiude complessità e dinamica da musical?
The Rainbow Children (NPG, 2001)
I contrasti con la Warner giungono a un punto di non ritorno nel febbraio 1994, quando a Prince viene comunicata la decisione di chiudere la Paisley Park, suo marchio personale. È l’inizio di una guerra senza quartiere. Prince fonda la NPG, si toglie lo sfizio di andare al numero 3 dei singoli USA con The Most Beautiful Girl in the World, che la Warner aveva cassato, e quando deve consegnarle un album le rifila Come, raccolta di scarti viranti al porno. La Warner riesuma il Black Album? Lui si fa ritrarre con la scritta “slave” sulla fronte. The Gold Experience (1995) e Chaos and Disorder (1996) sono dei Come appena meno sfacciati. Infine si arriva al divorzio e molto del pubblico non ha retto a tanto autolesionismo. Di quello che resta una larghissima parte alza bandiera bianca di fronte a Emancipation, tre ore di musica da cui potrebbe cavarsene una buona, e agli album reperibili solo su internet. Che è il canale scelto inizialmente pure per The Rainbow Children ed è a ragione di ciò che ci vogliono mesi di passaparola prima che si sparga la voce che sì, ci ha messo un po’ più di tre giorni ma Prince è risorto. Più che eclettico schizofrenico ma sempre con del metodo nella sua follia, è il disco zappiano di Prince. Di una densità stordente, ma nel contempo swingante come Zappa mai.
3121 (NPG / Universal, 2006)
Tralasciando le innumerevoli realizzazioni “private” e il fenomenale live One Nite Alone, 3121 rappresentava il terzo atto della rivincita inscenata dall’Artista Che Per Qualche Tempo Non Volle Farsi Chiamare Prince, a seguire The Rainbow Children e il ritorno nel 2004 a una più canonica forma canzone e vendite di tutto rispetto con Musicology. Ritorno anche a una major con un contratto, per quel solo album, con la Columbia. La vendetta nei confronti di quanti lo avevano dato per finito si completava con un disco che lo riportava al vertice delle classifiche USA dopo che in vetta a una particolare graduatoria era già tornato nel 2004: cinquantasei milioni e mezzo di dollari i ricavi dei suoi concerti nordamericani di quell’anno. Pur notevoli il tango con piano latin jazz Te amo corazón, la ballatona Beautiful, Loved & Blessed, la collisione fra flamenco e hip hop di The Word e il soul-blues da pieni ’60 Satisfied, a entusiasmare sono soprattutto i brani ritmicamente più accesi: da una traccia omonima ferinamente funk a una singultante Lolita, da un’epidermica con tanto di rap Incense and Candles a Fury, novella Kiss di rockappiglio e densità elevate al cubo. Qui il Prince più memorabile della seconda metà di carriera. L’ultimo imprescindibile.
Originals (NPG / Warner Bros, 2019)
Allo sconforto per la scomparsa di Prince si accompagna il timore che il suo archivio venga svaligiato senza metodo né rispetto, come accaduto nei primi ‘70 a Jimi Hendrix. A sette mesi dal luttuoso evento la prima uscita del caro estinto è invece banalmente una raccolta doppia, 4Ever, che copre gli anni dal ‘78 al ‘93 offrendo su quaranta tracce la miseria di un singolo non da album e un inedito. La segue non proprio dappresso nell’agosto 2018 una complementare Anthology: 1995-2010, solo in streaming e composta da trentasette brani tutti già noti. Sicché il primo Prince post mortem di reale interesse per i cultori, ma esclusivamente quelli di strettissima osservanza, è da lì a un mese lo scarno Piano and a Microphone 1983. Ben altro regala, suscitando l’entusiasmo della critica, facendo buoni numeri al botteghino e raccomandandosi a chiunque già possieda il resto di questa lista, Originals. Sono quindici canzoni che Prince aveva scritto per altri – la seconda più celebre Manic Monday, portata al successo dalle Bangles – e quattordici nelle versioni per l’appunto originali mai erano state pubblicate legalmente in precedenza. La quindicesima? La più bella e famosa del lotto, quella Nothing Compares 2 U cui resterà legata per sempre la memoria di Sinéad O’Connor.
Io direi anche Controversy. L'album che ha fatto capire a tutti che Prince sarebbe stato qualcosa di differente da tutto il resto.