[Storie] Guida all'Old Skool dell'hip hop (dal '81 al '91) in 10 dischi
Ok il Bronx, i DJ, l'arte dello scratching, i campionamenti rubati e l'eterna questione di bianchi contro neri. Ma poi?
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di Eddy Cilìa
Eddy Cilìa distribuisce consigli per gli ascolti ai principianti assoluti: 10 album-simbolo per documentare quel magico decennio in cui uno stile inizialmente creato e fruito (quasi esclusivamente) da neri acquisisce una popolarità trasversale fino a incontrare addirittura il pubblico del rock.
In principio era la Parola. Messa in rima da poeti itineranti costituiva il fulcro della cultura orale delle genti d’Africa e continuò a esserlo quando le navi negriere iniziarono la più grande deportazione di massa che si ricordi. Stante la proibizione del tamburo in quasi tutto il Nord America (unica eccezione New Orleans: non a caso mamma del jazz e nonna del rock), gli schiavi non avranno altro modo per difendere la propria identità che continuare a passarsi storie. Ci sono logica e poesia nel fatto che coloro che sono considerati i primi rapper, i newyorkesi Last Poets, appoggiassero i loro versi su trame di sole percussioni. In principio era il Rap. Ma benché si tenda a usarli indifferentemente “rap” e “hip hop” non sono sinonimi, il primo una delle quattro discipline che danno vita al secondo essendo le restanti turntablism, ballo e graffiti. Per ovvie ragioni in questo racconto ci concentreremo sui soli aspetti musicali di un fenomeno di cui si designa il 1981 a inizio. Non il 1969, perché quello di Last Poets e Watts Prophets, loro contraltare sulla West Coast, era solo rap. Non il 1979 di Rapper’s Delight della Sugarhill Gang perché, diversamente da quanto accadeva nelle feste in cui tre DJ andavano da qualche tempo cambiando le regole del mettere dischi, la base di quel brano era suonata. Kool Herc (nato Clive Campbell), Grandmaster Flash (Joseph Saddler) e Afrika Bambaataa (Kevin Donovan) furono i primi a notare che i ballerini adoravano gli stacchi di batteria e ad avere l’idea di prolungarli suonando assieme due copie dello stesso vinile; a usare i cosiddetti break per unire frammenti anche brevissimi; a sfruttare l’effetto, lo “scratching”, che si ottiene riportando indietro un disco sotto la puntina. Degli anni fondativi dell’hip hop, quelli dell’incontro fra il Giradischi (il mitico Technics SL-1200) e la Parola, non esiste documentazione. Era una faccenda solo newyorkese e, come le jam nel jazz, del “qui e ora”. Se la Sugarhill Gang ebbe in ogni caso il merito di portarlo fuori dal Bronx il primo a ricostruire questo coraggioso mondo nuovo su vinile, dal vivo in studio in tre ore di acrobazie ai piatti e al microfono, fu però il Grandmaster Flash di Wheels of Steel, brano che di dieci canzoni ne faceva una nuova.
Il 1981 è il Big Bang di uno stile creato e fruito da neri fino all’incontro, oltre metà decennio, con il pubblico del rock. Sarà quando impatterà sulla gioventù bianca che comincerà a fare paura. Gli anni dall’86 all’89 rimangono i più fulgidi della sua epopea, florilegio di creatività senza pari fra i suoni terroristici dei Public Enemy e quelli gentili dei De La Soul, i riff dei Beastie Boys e l’eleganza hardcore di Eric B. & Rakim. Preferendogli il campionatore, l’hip hop dei ’90 smarrirà il rapporto con il giradischi. Tuttavia è un’altra la ragione che rende il 1991 uno spartiacque. Il 3 marzo un automobilista di colore veniva brutalmente pestato da alcuni agenti del LAPD. La loro assoluzione da lì a tredici mesi causerà una rivolta al termine della quale si conteranno cinquantotto morti. Incredibilmente imputata all’hip hop, che il razzismo della società statunitense si era limitato a fotografarlo, con il paradossale effetto che The Chronic di Dr. Dre, detonatore nel ’92 del gangsta-rap, starà a Straight Outta Compton degli N.W.A, dell’88, come un film a un TG.
Grandmaster Flash & the Furious Five
The Message (Sugar Hill, 1982)
A iscrivere nel romanzo della musica del Novecento il nome d’arte di Joseph Saddler sarebbero bastati i 7’12” di The Adventures of Grandmaster Flash on the Wheels of Steel. Tante cose nel contempo. Innanzitutto uno dei classici dell’hip hop primigenio e fra essi il più plausibile nella ricreazione di cosa dovevano essere le performance nei parchi, nelle scuole, nei club newyorkesi dei suoi pionieri. In seconda istanza una sensazionale dimostrazione di virtuosismo nella manipolazione del vinile da parte del DJ che aggiunse un terzo piatto ai due canonici e introdusse l’uso del beat box. Infine, con il suo portare la tecnica del collage sonico a vertici insuperabili e con il sapiente uso del rumore, un eclatante caso di pop d’avanguardia. Sarebbero bastati, ed era il 1981, ma l’anno dopo si aggiungevano i 7’10” di The Message, un altro mix e – anello di congiunzione fra Last Poets e Public Enemy – il più duro ritratto mai tracciato da chiunque dell’America di Reagan. Battezzava l’esordio a 33 giri di Flash e sodali, che contiene pure le Avventure di cui sopra e tanto basta a renderlo indispensabile. Per avere pure il terzo e non meno fondamentale tassello di questa vicenda, l’inno anti-cocaina White Lines (Don’t Do It), dell’83, dovrete rivolgervi a una raccolta.
LL Cool J
Radio (Def Jam, 1985)
Sul davanti di copertina c’è giustappunto una radio, un enorme ghetto blaster: piena di manopole, cursori, lucine e insomma lungi dall’essenzialità del disco che è chiamata a rappresentare iconograficamente. Sul retro James Todd Smith, newyorkese di Long Island, si fa immortalare in una posa statuaria e sbruffoncella che fallisce l’impresa di farlo sembrare più adulto del diciassettenne che è. Occhio all’unico credito che vi compare. Leggete bene: non “produced by Rick Rubin” (fu la prima produzione del Barbuto), bensì “reduced by Rick Rubin”. Non è un dettaglio. Racconta alla perfezione un LP tanto asciutto nel porgersi quanto monumentale per impatto e importanza negli annali dell’hip hop. Un LP fatto di un sapiente niente, il pulsare e il crepitare di una batteria elettronica, dello scratching, occasionalmente un campionamento. E sopra questi fondali scheletrici LL Cool J (semi-acronimo per un vanaglorioso Ladies Love Cool James) schiaffeggia rime con tutto l’umorismo e la poesia della metropoli afroamericana e dei suoi verdissimi anni. Non avesse fatto nient’altro starebbe qui, con il disco che vendendo un milione di copie regalava alla Def Jam il primo platino e la pietra d’angolo di quello che sarà in breve un impero.
Run-D.M.C.
Raising Hell (Profile, 1986)
Sin dai primi ’90 quando si parla di Old Skool è innanzitutto ai rapper Joseph “Run” Simmons e Darryl “DMC” Daniels e al DJ Jason “Jay Master Jay” Mizell che si pensa. Dimenticando che nell’hip hop nulla è mai suonato NEW School quanto il trio di Hollis. Era con costoro che il genere usciva dall’infanzia ed entrava in un’eccitantissima adolescenza. Anni luce separano It’s Like That / Suckers M.C.’s, loro primo 45 giri datato 1983, e il suo aggressivo minimalismo dal funk stratificato e godereccio dei primordi del genere. Lunga la serie dei record allineati dai ragazzi: Run-D.M.C. (1984) primo disco d’oro nella storia dell’hip hop e primo album concepito come tale; King of Rock (1985) il primo a venire stampato pure in CD; Raising Hell il primo multiplatino. In quello stesso 1986 i Run-D.M.C. erano la prima posse in copertina su Rolling Stone e con un video su MTV: Walk This Way, rielaborazione (presenti gli autori) di un cavallo di battaglia degli Aerosmith che spalancava a un genere e a un’estetica ancora in divenire le porte del mercato del rock. Gli autori ne rimarranno presto chiusi fuori, perdendo nel contempo anche la leadership di settore, ma Raising Hell – suono assai più pieno dei comunque strepitosi predecessori – resta un caposaldo sia dell’hardcore che del crossover.
Beastie Boys
Licensed to Ill (Def Jam, 1986)
Come accadrà un lustro dopo con Nevermind, per chi ha orecchie per intendere già dal primo brano di Licensed to Ill è chiaro che ci si trova in presenza di un lavoro epocale. C’è molto teen spirit (sebbene non della tormentata qualità che avrà quello di Cobain; opposto anzi) in Rhymin & Stealin’. Un titolo programmatico: le tre bestioline rimano su basi campionate e dunque rubate. Un colpo di genio: mettere insieme le scansioni e le tecniche dell’hip hop con i riff chitarristici del rock più greve. Licensed to Ill è un ciclone che travolge gli Stati Uniti. Musicale: se The New Style, Paul Revere, Hold It Now, Hit It inclinano verso l’hardcore nell’accezione hip hop del termine, risultando così poco invitanti per i ragazzini bianchi (e viceversa magnifiche per i neri), il resto del programma li fa impazzire. Rhymin & Stealin’ è distillato di Sabba Nero, le scansioni alla AC/DC di Fight for Your Right to Party e No Sleep Till Brooklyn testosterone puro, le cantilene dementi di She’s Crafty e Girls un anticipo della Weltanschauung dei filosofi a venire Beavis e Butt-Head. Di costume: per la prima volta il pubblico bianco si accosta in massa all’hip hop e quello nero adotta dei bianchi. Per una certa America una faccenda intollerabile.
Public Enemy
Yo! Bum Rush The Snow (Def Jam, 1987)
«Una combinazione tra Run-D.M.C. e Clash»: definizione che dobbiamo a chi portò il Nemico Pubblico alla Def Jam, Bill Stephney. D’effetto e azzeccata, ma incompleta: dimentica Marvin Gaye e Metallica, Last Poets e James Brown, come minimo. Public Enemy è un Suono: denso, martellante, che occupa ogni spazio e non dà requie. Una pulsazione funky che tiene insieme le trame di tappeti da fachiri, fatti di chitarre che sono cocci di bottiglia, scratching, sirene, clacson, raffiche di mitra, rumori di strada. Una sensibilità pop straordinaria che con i suddetti elementi tesse canzoni orecchiabili. Public Enemy è un’Immagine: barricadera come quella dei Clash ma meno romantica, più minacciosa. Public Enemy è un Programma: creare “cinquemila potenziali leader neri”. Mancato? Non per limiti loro. Yo! Bum Rush the Show suona tuttora moderno, potentissimo, abrasivo ai limiti del fastidio. Se le tematiche politiche sono ancora sfocate, il suono è già perfettamente a punto, tanto che le variazioni successive saranno sempre apportate per linee interne. Il riff micidiale di Sophisticated Bitch e il flirt con metal e musica industriale della traccia omonima chiariscono perché Chuck D e soci risultarono irresistibili per la platea del rock ben prima del sodalizio con gli Anthrax di Bring the Noise.
Boogie Down Productions
Criminal Minded (B-Boy, 1987)
Circondato da leggende metropolitane il primo Boogie Down Productions, unico con la formazione originale a due prima che la sigla diventasse un secondo e anzi terzo pseudonimo per Lawrence “Krisna” Parker, in arte KRS-One: la più accreditata racconta che l’etichetta per cui usciva nacque come copertura per un traffico illegale di materiali pornografici. Criminal Minded non per modo di dire, allora. Non è purtroppo mito ma tragica realtà che uno dei due ragazzoni che la copertina immortala dietro un mixer pistole in pugno, Scott La Rock, rimaneva ucciso in una rissa poco dopo la pubblicazione del disco. Tutt’altro che un delinquente, faceva l’assistente sociale e per lui era pura pantomima anni in anticipo sul gangsta-rap un’immagine malavitosa che calzava di più al socio, cresciuto in condizioni disagiatissime, senza un tetto sulla testa e con la fedina già sporca per spaccio, nondimeno con una sete di conoscenza che contemporaneamente lo faceva topo di biblioteca. Sarà il suo riscatto. Rime che tratteggiano duri scenari di strada su basi perlopiù scheletriche e al pari aggressive, eppure dotate di una certa orecchiabilità (clamorosa in una The Bridge Is Over che campiona Billy Joel e punta la dancehall), Criminal Minded è pietra miliare sulla strada del rap duro e puro.
Eric B. & Rakim
Paid in Full (4th & B'Way, 1987)
Dopo avere infranto grazie a Run-D.M.C. e Beastie Boys la barriera razziale il genere entra nell’età adulta e aurea con i coevi debutti di Boogie Down Productions, Public Enemy ed Eric B. & Rakim. Rispetto al primo, Paid in Full vanta un’eleganza e una tecnica superiori. Del secondo è l’antitesi: scarno piuttosto che denso, giocato su dettagli e atmosfere anziché sull’impatto. Se in un più ampio contesto black e pop Yo! Bum Rush the Show si fa valere maggiormente in un ambito strettamente hip hop è l’esordio della più classica delle coppie DJ – Eric Barrier, studi di tromba e chitarra – più rapper – William Griffin Jr., nipote d’arte essendo imparentato con la leggenda del rhythm’n’blues Ruth Brown – a vincere il confronto. Il poker di assi che spariglia la partita: My Melody, minimale quanto insidioso; I Know You Got Soul, pattern ritmico scippato a James Brown che si rivelerà fondamentale per la sua riscoperta da parte delle giovani generazioni; una title track melodica quanto ipnotica; Eric B. Is President, invincibilmente flemmatico. Da lì a un anno Follow the Leader esalterà almeno altrettanto. Se gli si è preferito il disco prima è stato solamente per una rilevanza storica giocoforza superiore.
De La Soul
3 Feet High and Rising (Tommy Boy, 1989)
Totalizzano cinquantasette anni in tre Posdnous, Trugoy The Dove e P.A. Pasemaster Mase quando, con il fondamentale apporto di Prince Paul degli Stetsasonic, mettono mano a 3 Feet High and Rising. Vengono da Amityville, cittadina resa famosa dieci anni prima da una pellicola culto per ogni amante dell’horror, ma nel loro esordio non disegnano gli scenari gotici che nell’hip hop faranno irruzione con il Wu-Tang Clan. Tutt’altro. Una copertina tempestata di fiori e il vecchio simbolo hippie del “fate l’amore, non la guerra” iscritto nella “o” di “Soul” annunciano che altra musica nera è pronta, vent’anni dopo la funkadelia, a mandare giù e a far salire su zuccherini all’acido lisergico. Senza flirt con il rock però. Eppure è proprio il pubblico bianco che si entusiasma di più, facendosi per la prima volta conquistare da una posse senza che questa ricorra ai riff dell’hard (i Run-D.M.C.) o a posture alla Clash (i Public Enemy). Piacciono il passo lento, l’ironia, i campionamenti assurdi (la lezione di francese di Transmitting Live from Mars), le melodie talvolta oblique e talaltra talmente semplici (The Magic Number) da rasentare la filastrocca da nido d’infanzia. I De La Soul faranno ancora e a lungo belle cose, rimanendo però confinati in un ambito di genere che agli esordi avevano saputo trascendere.
Gang Starr
Step in the Arena (Chrysalis, 1991)
Al contrario di come potrebbe far pensare il titolo, per la coppia formata da Guru – un rapper di Boston che porge le sue rime con un senso dello swing senza eguali – e Premier – un DJ di Brooklyn dalla vastissima cultura musicale e dalla tecnica ineccepibile – Step in the Arena non è l’esordio. Tuttavia per il grande pubblico è come se lo fosse, visto che due anni prima l’eccellente No More Mr. Nice Guy è passato inosservato, riscuotendo giusto l’apprezzamento di frange dell’underground che ne gradiscono il gusto profondamente jazz. Capita però che fra i pochi acquirenti ci sia Spike Lee, che gradisce a tal punto da convocare i Gang Starr per la colonna sonora di Mo’ Better Blues. Jazz Thing, una collaborazione con Branford Marsalis, è il brano che la illumina e segna una svolta nella carriera di Guru e Premier, da qui in avanti un mito che miracolosamente non deluderà mai, confezionando un capolavoro via l’altro. Preferire in assoluto Step in the Arena ai successivi di un anno Daily Operation o di altri due Hard to Earn è questione di gusti e più che altro di pregnanza epocale. Né manca chi individua piuttosto in Moment of Truth (1998), o addirittura in The Ownerz (2003), il capolavoro di un sodalizio che non sbagliò un colpo.
Cypress Hill
Cypress Hill (Ruffhouse / Columbia, 1991)
Probabilmente non immaginavano nemmeno loro che sarebbero durati tanto a lungo, arrivando in buona forma al terzo decennio del secolo dopo. A maggior ragione perché quando nel 1986, a Los Angeles, il ventenne cubano Senen Reyes (Sen Dog), il diciottenne italoamericano Lawrence Muggerud (Muggs) e il sedicenne mezzo cubano e mezzo messicano Louis Freese (B Real) formavano i DVX, prima incarnazione dei Cypress Hill, nell’hip hop il concetto di “carriera” manco esisteva ancora. E poi avevano già tutti carriere alternative bene avviate: il primo sui campi di football, il secondo sui diamanti del baseball, il terzo un ras in… ahem… erba dello spaccio che una pallottola convinceva che il crimine sarebbe stato meglio raccontarlo che praticarlo. Incidente decisivo nel persuadere i tre amici che girare dischi e rappare avrebbero potuto trasformarsi in qualcosa più di un hobby. L’omonimo debutto renderà subito immensamente popolare uno stile di immediata riconoscibilità, latin funk con venature rock possente e torpido e sopra dure storie di strada che scivolerebbero nel noir non vi facesse già spesso capolino l’amatissima Mother Mary. Accendine un altro, Stonato è il modo di camminare, Qualcosa per i fattoni titoli inequivocabili al riguardo.
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