[Storie] Il debutto dei Supergrass: mica solo canzonette
Perchè "I Should Coco" è una pietra miliare del britpop dei Novanta
Ci sono band che dicono tutto nel disco d’esordio e poi si spengono, altre che maturano un po’ alla volta, altre ancora che girano attorno alla grandezza senza arrivarci. I Supergrass, invece, con I Should Coco, sono nati grandi e grandi sono rimasti.
Artista: Supergrass
Titolo: I Should Coco
Anno: 1995
Tracklist:
I'd Like to Know – 4:02
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Caught by the Fuzz – 2:16
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Mansize Rooster – 2:34
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Alright – 3:01
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Lose It – 2:37
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Lenny – 2:42
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Strange Ones – 4:19
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Sitting Up Straight – 2:20
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)She's So Loose – 2:59
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)We're Not Supposed To – 2:03
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Time – 3:10
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Sofa (of My Lethargy) – 6:18
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)Time to Go – 1:56
(testo e musica: Gaz Coombes, Danny Goffey, Mick Quinn)
Formazione:
Gaz Coombes – voce, chitarre
Mick Quinn – basso, cori
Danny Goffey – batteria, cori
Caught by music
Ascoltiamo un sacco di generi diversi di musica. Non siamo un gruppo che propone il revival dei Sixties! Ci piacciono cose degli anni ’70 e anche oltre: tutto, da Sly and the Family Stone e la Motown a Frank Black e Tricky.
Mick Quinn
Verrebbe da risolvere la questione così, ricorrendo a una dichiarazione sincera e soprattutto corrispondente al vero da parte di uno dei diretti interessati. In poche ma significative frasi, infatti, Mick Quinn riesce a spiegare perfettamente cosa sono stati i Supergrass: una grande band, tanto per cominciare e giusto per piantare un importante paletto. E poi – prima, in realtà – un vero e proprio power pop trio che, dando ascolto alla cosiddetta giurisprudenza critica, nel contesto del fenomeno britpop si è giocato con i Pulp lo status di “terzo polo”. Tuttavia, come per i dandy di Sheffield, anche in questo caso c’è molto di più.
Perché, se proprio ci tenete a sapere la nostra umile opinione, vi diremo che, essendo i Blur inarrivabili e impareggiabili, sia la combriccola guidata da Jarvis Cocker che i ragazzacci di Oxford hanno dato un paio di giri di pista ai fratelli Gallagher. Bollateci in tutta tranquillità come snob e/o bastian contrari, tuttavia provate a mettere sul piatto della bilancia una scrittura insieme robusta e policroma, la giusta dose di umorismo, un piglio esecutivo impetuoso e nondimeno attento alle sfumature che, strada facendo, si affina e affianca all’evoluzione della calligrafia. Soprattutto, pensate all’intelligenza che cuce tra loro diverse fonti di una tradizione pregressa – il pop d’oltremanica nelle sue molteplici varianti, ovviamente – scansando i cliché e che, invece di sfaldarsi in formule ripetute fino alla perdita di valore e significato, sfocia in un tassello di quello stesso magnifico retaggio.
Ma se siete così esigenti che tutto ciò ancora non vi basta, vogliamo essere generosi e ricordiamo un’onestà che ha convinto a uscire di scena discograficamente (al netto delle cicliche tournée autocelebrative con annesse rimpatriate) quando non si avevano più argomenti convincenti, la disinvoltura nel ritoccare il pop “alto” con felice attitudine camp e l’abilità nel mescolare carte conosciute in modo inaudito. Oltre al puro talento, una spiegazione sta nella fortuna di salire alla ribalta lungo gli anni Novanta, ovvero in un’epoca dove il meticciato, sale dell’arte e lingua franca della musica popolare, rappresentava insieme un punto di partenza e un orizzonte creativo cui ambire.
Lasciandosi alle spalle un’ansia dell’originalità che nella cultura occidentale costituisce tuttora un falso problema, i tre hanno sintetizzato una scintillante e appassionata sintesi del miglior pop albionico e non si sono fermati a un solo memorabile album e al ruolo di “sensazione” che sorprende per la verde età. Come ogni grande gruppo degno di tal nome, i Supergrass hanno continuato a variare la ricetta sulla base di una crescente maturità e delle pieghe del vissuto. Felici di piacerci, certo che sì. E ancor più felici noi della loro esistenza.
We are young
Suonano con tutta la bravura e la sicurezza di un gruppo in circolazione da decenni ma che brucia dell’eccitazione della novità. Non vi è nulla di artificioso in questo album, nulla che sia stato aggiunto per impressionare.
Steve Sutherland, New Musical Express
Giovani, certo che sì. Però tutt’altro che ingenui, sprovveduti o, peggio che mai, opportunisti saltati sul carro di una voga momentanea. Parla chiaro al proposito la rapida ascesa che non ha affatto stritolato una formazione composta da ragazzi – addirittura degli adolescenti, quando incisero il primo 45 giri – con le idee inusualmente chiare. Considerando la carta d’identità, non stupisce che il sedicenne Gaz Coombes si ritrovi a cantare e suonare la chitarra con Danny Goffey (batterista di due anni più, ehm… anziano) nel tipico complesso scolastico: tali The Jennifers in cui militano il fratello di Danny, Nick, e Andy Davies.
Gli sbarbatelli iniziano a farsi un nome nella scena indie di Oxford mescolando beat e Madchester con un’attività concertistica e un demo che vengono captati dai radar della Nude. Nel 1992 l’etichetta, che ha in rampa di lancio i Suede, pubblica l’EP Just Got Back Today, apprezzabile benché destinato a non avere un proseguo dal momento che sorgono divergenze reciproche e una Tightrope da Stone Roses alle prese con un rhythm’n’blues in candeggina è dapprima accantonata e successivamente inserita in una compilation.
Il gruppo si separa nell’autunno dello stesso anno, Gaz inizia a lavorare e fa amicizia con il collega Quinn, invitandolo a imbracciare il basso in alcune jam con lui e Goffey. Constatata l’alchimia, da lì a lanciarsi in una nuova avventura nel febbraio ‘93 il passo è breve, e ancor meno – due mesi – occorre affinché si accorci la ragione sociale Theodore Supergrass, inizialmente intesa come un solista fittizio con tanto di cartone animato cui affidare le interviste. Abbandonata un’idea in anticipo sui Gorillaz troppo costosa per i tempi, ci si concentra sul repertorio e sulle esibizioni dal vivo.
A metà del 1994 i Supergrass escono allo scoperto con Caught by the Fuzz, travolgente e irresistibile beat’n’roll in vena Buzzcocks che racconta l’arresto di Gaz per possesso di cannabis. Affidato al piccolo marchio locale Backbeat, il 7” va esaurito in un battibaleno grazie al sostegno di John Peel, che lo programma spesso e volentieri su Radio One. Il biglietto da visita non sfugge neppure alla EMI, lesta a mettere il terzetto sotto contratto tramite la Parlophone e a ristampare il dischetto. In autunno New Musical Express e Melody Maker lo eleggono contemporaneamente singolo della settimana ed è un privilegio raro. Il bello, però, deve ancora arrivare.
Pumping on your stereo
È assurdo che la gente pensi che suoneremo sempre come agli inizi. Siamo orgogliosi del nostro primo album e del successo che ha avuto, ma non abbiamo mai voluto restare fedeli a una formula. Il nostro scopo è progredire e far sì che la musica resti interessante per noi e per chi ci segue.
Gaz Coombes
Traino con i fiocchi, il gustoso candito Caught by the Fuzz che solleva un’onda di rispetto e approvazione tra pubblico, critica e colleghi. Ed è ancora lui che nella primavera del ‘95 spiana la strada al ventesimo posto di Mansize Rooster, pop con i muscoli flessi a spasso nel cabaret a fare cosa unica delle due anime dei Kinks. Quando Lenny porta il glam in gita al pub e nei Top 10, esplode una “Supergrass mania” che cavalca il britpop, sfrutta MTV con sagacia e salda i pilastri di cui sopra al singolo “doppio lato A” – come da usanza degli anni Sessanta – Alright / Time per costruire la solidissima intelaiatura di I Should Coco.
Fuori in maggio, l’album va in vetta senza passare dal via allorché il Marc Bolan tutto bollicine e falsa spensieratezza di Alright (percepita come inno generazionale, quando trattasi in realtà di una meditazione a presa rapida che recita «siamo strani nei nostri mondi») centra la seconda piazza. Numeri che conterebbero poco e anzi nulla se sotto il clamore non ci fosse della sostanza. Ma c’è eccome, al di là di un’adeguatamente folkloristica diceria secondo la quale Steven Spielberg pensa a una sitcom in stile Monkees con protagonista il trio. A noi è la robustezza dell’oliato meccanismo I Should Coco che interessa. Sono l’energia, l’eclettismo e l’estro perennemente a fuoco di chi, appena salutata l’adolescenza, forgia un anello di congiunzione tra Buzzcocks, Beatles, T.Rex e Ray Davies che, in virtù del suo magico sincretismo, è riconoscibile e persino originale.
Inventiva, stile e una benvenuta (auto)ironia sono le altre architravi del palazzo che, preso il titolo dal gergo rimato Cockney e forte di una veste grafica già retromaniaca, recupera i 45 giri per accostarli a gioielli di pari caratura. Negli estremi di una I’d Like to Know snodata a rotta di collo tra Jam, Stranglers e garage poppizzato e del folk elettroacustico a tinte country memore del Paul McCartney solista Time to Go, sfilano le screziature psichedeliche di Sofa (of My Lethargy), una Lose It che sferza secca e ombrosa, gli esaltanti cambi di passo e atmosfera di Strange Ones e l’elastica frenesia di Sitting Up Straight, laddove alla slanciata She’s so Loose che scintilla dentro un sottile alveo melanconico, rispondono la bossa nova inzuppata nell’elio e nell’acido lisergico We’re Not Supposed to e l’omaggio bolaniano del vibrante blues spolverato di lustrini Time.
I Should Coco è un bene degli dei che con pieno merito fa incetta di premi, vende a carrettate ed è portato in tour per diciotto mesi. Eppure, è battendo il ferro rovente che i giovanotti consolidano ulteriormente l’intesa e crescono sotto ogni punto di vista: prova ne sia una carriera che, decollata al primo tentativo con una vetta commerciale e creativa, predilige da subito cadenze di pubblicazione per nulla affrettate. Che i nostri eroi posseggano talento e detestino ripetersi lo dimostra in capo a un biennio In It for the Money, 33 giri che accoglie composizioni più mature ed elaborate confermando il successo e il plauso critico.
Sarà una costante anche per gli album pubblicati da lì in poi, tutti da inserire negli scaffali in ragione di un livello medio molto elevato e dei tanti gioiellini che racchiudono. Unica anomalia il dimesso Diamond Hoo Ha, addio datato 2008 di una formazione nel frattempo allargatasi a quartetto con l’ingresso ufficiale del tastierista Rob Coombes, che già era presenza regolare in studio e sul palco. Scarsamente rilevanti i percorsi in solitaria, gradevole la cover band “di lusso” Hotrats allestita da Gaz e Danny con la produzione di Nigel Godrich e pleonastiche le svariate reunions. A tutt’oggi rimane chiuso in un cassetto Release the Drones, LP mai completato dal taglio – tramandano le cronache – sperimentale e influenzato dal krautrock. Chissà che un giorno o l’altro i Supergrass non decidano di rispolverarlo per chiudere il cerchio e stupirci un’ultima volta. Del resto, che le loro non siano solo canzonette ce lo hanno ampiamente dimostrato.