[Storie] Paul Simon: ancora splendido dopo tutti questi anni
Naturale parafrasare il titolo del primo capolavoro del Simon solista, visto il suo carattere di disco eterno.
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Tentare di esorcizzare e di superare gli strascichi di un matrimonio andato a rotoli può essere una bella maniera di rinascere. A maggior ragione se il tuo mestiere è scrivere canzoni e se ti trovi nel cuore degli anni Settanta. Esattamente quello che è successo all’altra metà di Art Garfunkel con Still Crazy After All These Years.
Artista: Paul Simon
Titolo: Still Crazy After All These Years
Anno: 1975
Tracklist:
Still Crazy After All These Years – 3:26
(testo e musica: Paul Simon)My Little Town – 3:51
(testo e musica: Paul Simon)I Do It for Your Love – 3:35
(testo e musica: Paul Simon)50 Ways to Leave Your Lover – 3:37
(testo e musica: Paul Simon)Night Game – 2:58
(testo e musica: Paul Simon)Gone at Last – 3:40
(testo e musica: Paul Simon)Some Folks' Lives Roll Easy – 3:14
(testo e musica: Paul Simon)Have a Good Time – 3:26
(testo e musica: Paul Simon)You're Kind – 3:20
(testo e musica: Paul Simon)Silent Eyes – 4:12
(testo e musica: Paul Simon)
Formazione:
Paul Simon – voce, chitarre
Pete Carr, Joe Beck, Jerry Friedman, Hugh McCracken, John Tropea – chitarre
David Hood, Tony Levin, Gordon Edwards – basso
Roger Hawkins, Steve Gadd, Grady Tate – batteria
Barry Beckett, Bob James, Kenneth Ascher, Richard Tee, Leon Pendarvis – tastiere
Michael Brecker, Eddie Daniels, David Sanborn – sassofono
Will love really tear us apart?
Quel gran genio del nostro amico Ian Curtis ci aveva avvisato: l’amore ci avrebbe fatto a pezzi. Aveva ragione, ammettiamolo, tuttavia non possiamo evitare quello che dicono sia il sentimento più elevato. Quello che si è disegnato rugginoso come un coltello e lieve come il respiro in inverno. Quello che ti entra nella vita senza chiedere permesso e scombinando tutto, nel bene e nel male. Sappiamo fin troppo bene che razza di manigoldo possa essere l’amore, per quanto ci sia chi dubita della sua esistenza.
Noi, invece, siamo sicuri che presto o tardi tornerà anche quando sparisce senza lasciare nemmeno un biglietto. E non smettiamo di crederci e di credergli, anche se negli spazi apparentemente vuoti tra una visita e l’altra ci pieghiamo sotto ricordi amari, persone e sensazioni assenti, aspettative frantumate. Finché un giorno – fateci caso: quel dì non piove mai, però di acqua ne scende sempre a dirotto quando ci si lascia – scopri che i cocci si sono arrotondati. Che adesso non fanno più sanguinare e addirittura brillano.
Da par suo, chi scrive canzoni ha a disposizione un filone che, malgrado sia in assoluto il più sfruttato della cultura popolare, nelle mani “giuste” riesce ancora a elargire illuminazioni. Benché possano attingere da un ampio repertorio tematico, il più delle volte gli autori focalizzano l’attenzione sulle sciagure, vuoi per esorcizzare la sofferenza e vuoi perché è più interessante raccontare le ferite e le escoriazioni. Che siano autentiche o romanzate, non importa. Importa che qualcosa ci scuota e/o accarezzi l’anima, e che un intreccio di note e parole diventi il luogo dove l’esperienza del singolo trascolora nell’universale.
Importa che, in qualche maniera, un cerchio si chiuda e che ci sia chi si riconosce e si identifica in gemme così artefatte (nell’accezione doppia di “fatte di arte” e “fatte ad arte”) da essere autentiche e trasformarsi in una medicina. Tagliata su misura per il songwriting, la tradizione delle “pene d’amor perdute” è un panorama dove ci avventuriamo spesso e volentieri, costellato da capolavori che spiegano quanto e come l’amore faccia a pezzi e ricomponga. Ragion per cui, cogliendo l’occasione del suo cinquantesimo compleanno, vi raccontiamo uno dei conclamati antesignani di tutti i broken heart record che affollano i nostri scaffali.
Separazioni
Forse si tratta di una mera casualità, anche se propenderemmo per il “no”. Stiamo parlando del fatto che i precursori (non ce ne voglia Joni Mitchell: è vero che Blue risale al 1971, ma altrettanto innegabilmente non è del tutto incentrato sull’argomento…) dei grandi album che raccontano e affrontano le macerie di una relazione finita male abbiano visto la luce nel medesimo anno, separati all’incirca da una decina di mesi. Il venti gennaio 1975 Bob Dylan mandava nei negozi il suo ennesimo capolavoro, quel Blood on the Tracks per lo più scarno e raccolto nel quale (de)cantava il rancore cavandone meraviglie come Tangled Up in Blue, Shelter from the Storm e Buckets of Rain.
In un classico che sancisce il definitivo addio allo spirito dei Sixties, i punti di osservazione e trattazione sono completo appannaggio di un individuo che, nel suo tipico gioco di maschere e metafore, porta in piazza una tormentata separazione e le riflessioni che ne derivano. Anche se il diretto interessato si affrettava subito a negare l’evidenza citando altre fonti per l’ispirazione (nello specifico: i racconti di Anton Chekhov), i versi che qui esplodono e là ripiegano su se stessi racchiudono l’intera gamma compresa tra l’amarezza di If You See Her, Say Hello e la rabbia che fuoriesce dal vaso di Pandora di un cuore spezzato in Idiot Wind.
L’esatto centro degli anni Settanta gronda scontento e nel rock è per molti versi una stasi artistica, a tratti increspata da movimenti sotterranei che, sotto una pesante cappa di riflusso, sono in pochi a notare. Non è però il caso di Paul Simon, ennesimo immenso cantautore di origine ebraica – come Dylan, Leonard Cohen, Lou Reed – che verso metà ottobre di quello stesso 1975 transita sotto le forche caudine di un amore andato a rotoli e ne ragiona in un album vendutissimo con pieno merito.
Per rendersi conto delle tematiche, di Still Crazy After All These Years occorre però scandagliare attentamente i testi, poiché l’eredità del divorzio da Peggy Harper è sistemata con cura tra le pieghe di un ordito di folk, rock e jazz che solo occasionalmente adotta forme ombrose, forse per occultare il messaggio o per renderlo meno aspro. Inoltre, le ceneri di un rapporto coniugale non sono l’unico punto di partenza per sviscerare i massimi sistemi: siccome le coppie scoppiano ma possono pure ricomporsi, in My Little Town ecco affacciarsi l’inconfondibile ugola di Art Garfunkel.
Eppure non può essere solo colpa di Freud, altrimenti come lo spieghi un trentatré giri che, pur adottando un respiro per forza di cose crepuscolare, illumina un preciso momento storico? Per questo motivo risulta utile fare qualche passo indietro per comprendere la bellezza e i significati sussurrati di un gioiello che non sbuca dal nulla. Tutt’altro, poiché Simon vi giunge avendo in carniere altri due lavori solisti e la scala reale calata con Art, con la quale ha contribuito allo sbocciare del folk-rock (tramite l’elettrificazione di The Sound of Silence, colpo di genio del produttore Tom Wilson volto a inserirsi nella scia dei Byrds) per poi forgiare un’idea adulta di canzone d’autore, sia sotto il profilo delle liriche sia per quanto attiene alle sonorità impreziosite da un gusto melodico immediato ma tutt’altro che banale.
La premiata ditta Simon & Garfunkel chiude i battenti spedendo il suo manufatto più riuscito in cima alle classifiche. Nel 1970 Bridge over Troubled Water spodesta Led Zeppelin II da un primo posto della chart di Billboard che occuperà a lungo, però in quel momento – con la possibile eccezione del duo – nessuno sa che rappresenta un sigillo al decennio e a una vicenda artistica/umana dove le crepe sono ormai insanabili. E solo i più lungimiranti possono vagamente intuire che quel pezzo di vinile sta per proiettare il pubblico e il suo principale artefice su tempi in cui un cantautorato introspettivo che sposta il baricentro da “noi” a “io” si imporrà in via definitiva.
Ricongiungimenti
Il talento che esordisce in solitaria nel 1972 ci mette la faccia, non ha nulla da dimostrare e tira somme esistenziali guardandosi attorno però pure avanti. Come spesso accade, l’omonimia di Paul Simon racchiude una precisa dichiarazione di intenti, dal momento che sulla copertina il saldarsi tra nome, cognome e il volto sorridente in primissimo piano pare volerci dire “questo sono io, adesso: con le mie canzoni, la mia storia, me stesso”. Stanno anche lì le fondamenta di un’opera che, seguendo la metodologia vincente stabilita con Garfunkel, poggia una calligrafia di altissimo livello su arredi ricchi ma calibrati e su una viva curiosità verso ciò che sarà etichettato come world music.
L’architettura è perfetta per un folk rock che si cimenta disinvolto con il reggae – una novità per l’epoca – e la latinità centrando le hit di classe Me and Julio Down by the Schoolyard e Mother and Child Reunion, porgendo inoltre influssi andini finalmente persuasivi in Duncan, spruzzando jazz in Everything Put Together Falls Apart e ipotizzando un Randy Newman privo di cinismo in Run That Body Down. Per ottenere un disco eccelso aggiungete la nervosa Armistice Day, una Peace Like a River che trasloca Crosby, Stills & Nash a New York, un’esplicativa Paranoia Blues, la magistrale articolazione d’insieme di Congratulations e le aperture melodiche di Papa Hobo.
In luogo di proporne la copia conforme, l’anno successivo There Goes Rhymin’ Simon si indirizza verso marcate influenze black (una parte della scaletta è messa su nastro in Alabama, ai prestigiosi studi Muscle Shoals) senza trascurare la penna. Gli esiti sono da favola nel malinconico ritratto della nazione American Tune, nella polvere d’oro di St. Judy’s Comet, in una spigliata Kodachrome che salda il conto con gli Everly Brothers, nella vivida cartolina da New Orleans Take Me to the Mardi Gras, nel soul arrangiato da Allen Toussaint Tenderness, in una One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor a tratti stralunata e nel frizzante gospel Loves Me Like a Rock.
Di per sé sarebbe un uno-due più che sufficiente, tuttavia Still Crazy After All These Years svolta in punta di piedi per meditare sui perché e i percome dell’amore che viene ma più che altro se ne va. Al cambio di passo testuale (nel bagaglio non manca nulla: disillusione, speranze malriposte, sarcasmo e cinismo talvolta ammorbiditi da pennellate umoristiche) corrispondono suoni che, una volta afferrato l’argomento su cui verte il disco, inizialmente spiazzano con lievi tessiture acustiche e un tepore jazzato. Il susseguirsi degli ascolti svela invece che la bolla sospesa di quieta e raffinata agitazione è il teatro ideale per confessioni tra amici dipanate sotto gli occhi di tutti.
Non è affatto un controsenso. Per citare Lou Reed, l’artista «cresce in pubblico»: di conseguenza, chi ascolta è contemporaneamente il destinatario e il confidente cui affidare il successo 50 Ways to Leave Your Lover dove l’immediatezza del ritornello squarcia il sapore di mestizia, la vena gospel che insegue ricordi di rock’n’roll in Gone at Last e la malinconia non priva di tensione di una title track che inaugura il programma stabilendone l’umore generale.
Se a fine programma il brivido raccolto Silent Eyes diverge dal tema affrontando l’Olocausto, il resto del quadro è dipinto dall’amarognolo inno My Little Town, da una Have a Good Time che blueseggia finché in coda non viene scartavetrata dall’inatteso irrompere del sax di Phil Woods, dalla I Do It for Your Love da suscitare l’invidia di Paul McCartney, da una Night Game rarefatta e percorsa dall’armonica di Toots Thielemans, dalla Some Folks’ Lives Roll Easy che salda romanticismo, leggiadria e parole che trasudano rassegnazione e da una più ritmata You’re Kind che, verso la fine, lascia filtrare un po’ di luce nella stanza.
La catarsi si rivela una medaglia d’oro massiccio che ovviamente possiede un rovescio. Nella mossa successiva Simon torna sull’argomento, rincara la dose e per la prima e unica volta inciampa nel progetto One-Trick Pony, trascurabile sia per quanto concerne il film (farina del sacco di Paul, la sceneggiatura racconta di un musicista che cerca di salvare carriera e matrimonio: per caso, vi è partito un déjà-vu?) che per la fiacca colonna sonora. Dopo essere passato sul libro paga della Warner, nel 1981 festeggia con Art la, ehm… madre di tutte le reunion davanti alla folla di Central Park.
Dall’evento si trae un doppio vinile che fa sfracelli al botteghino e che chiunque ha ascoltato almeno una volta. Sull’onda dell’entusiasmo, il duo progetta di entrare in studio ma non se ne farà nulla, poiché l’astio interrompe la tournée e cancellerà Garfunkel da Hearts and Bones. Lavoro ottimo, quello, ciò nonostante a quasi dieci anni da Still Crazy After All These Years il buon Paul si ritiene creativamente svuotato. Cambierà idea nel momento in cui un amico gli passa una cassetta del gruppo sudafricano Boyoyo Boys e in cambio riceve un’illuminazione che presto trasformerà in Graceland, ennesima pietra miliare e suo capolavoro assoluto.
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