[Storie] Rick Rubin e la figura del produttore guru
L'enigmatico personaggio che ha scatenato la furia cieca degli Slayer e adesso va in pensione con Jovanotti.
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Un uomo, un mistero, un veggente della musica scalzo e puccisissimo, che molti artisti adorano nonostante spesso non sia in sala d’incisione e, quando c’è, per lo più dorme.
Rock 'N' Rubin
Sono in tanti a domandarsi se Rick Rubin ci faccia o ci sia. Soprattutto, se lo domandano coloro che in fondo non hanno mai capito bene il ruolo del produttore nell’economia creativa e gestionale di un disco. Si tratta forse di quello che registra e vigila dalla sala comandi, la stanza piena di bottoni e manopole, che sorveglia e sentenzia su ciò che la band suona? Quello che decide se va bene o no quello che fanno? Oppure, come nel cinema, è chi appronta il capitale necessario per le spese relative alla realizzazione del disco? Prima di sciogliere simili quesiti, e ritenendo che magari i lettori di questo articolo non ne abbiano bisogno, aggiungiamo un altro fattore: tra coloro che si interrogano sull’enigma Rubin, tanti ne hanno scoperto l’esistenza solo in tempi relativamente recenti, cioè da dopo che è stato ingaggiato dai Metallica in uscita dal lungo sodalizio con Bob Rock per l’album Death Magnetic.
Abituata da diverso tempo a confessare in pubblico le proprie vicissitudini lavorative, la band ha sottolineato la grande importanza dell’operato di Rick, dicendo che lui è arrivato e ha fatto un discorso sul tornare alle radici, sul fingere che i Metallica dovessero ancora dimostrare chi erano e che quello in cui stavano lavorando ai nuovi pezzi non fosse il lussuoso studio di registrazione privato della band ma una pulciosa e umidissima cantina, la stessa cantina di merda da cui provenivano e dalla quale, magia delle magie, non se n’erano mai realmente andati. Detto questo, Rick ha guardato a lungo negli occhi James, Kirk e Lars e si è congedato con la calda raccomandazione di «darci dentro e… spaccare il culo!».
Quello che ai tanti fan dei Metallica ha causato maggiori perplessità non è stato tanto il fatto che Rubin avesse parlato e – senza più praticamente partecipare alla lavorazione del disco – intascato un sacco di soldi, ma che i Metallica stessi fossero stati capaci di riempirlo di grana solo per sentirsi dire ciò che qualsiasi fan sperava accadesse da circa vent’anni e che avrebbe potuto suggerire gratis. Questo Rubin, insomma, doveva avere sul serio un potere enorme se riusciva a convincere i Metallica a far pace con il proprio passato e rimettersi a suonare vecchio thrash metal, mollando una volta per tutte le ridicole velleità di rock mainstream e gli scenari laccati di MTV.
Ma è tutto qui il lavoro di un produttore? In effetti no. Da molti anni, tuttavia, Rick Rubin è pressoché questo. Il suo lavoro è dire quattro cose e sparire, e così, nel tempo, ha accumulato un curriculum imponente, realizzando dischi strepitosi e mettendo bocca su alcuni dei percorsi artistici più importanti del rock, del rap e del pop. Ciò nonostante, a mano a mano che il suo nome guadagnava un peso e un alone carismatico, il suo modo di lavorare prendeva una piega sempre più atipica, eccentrica e per molti versi “sospetta”.
Con il suo barbone sparato in faccia, il look da psicologo amico dei fiori, l’attitudine perenne verso la meditazione, l’aria profondamente rilassata e la passione per cuscini, caramelle a forma di orsetto e sofà comodi e morbidi, Rubin è probabilmente un personaggio che suggestiona il grande pubblico. Prima di lui solo un altro produttore è riuscito a guadagnare ancora di più l’attenzione delle star con cui lavorava: Phil Spector. Lui entrava in studio sfoderando una pistola automatica e dopo la calvizie indossava ogni giorno un parrucchino diverso. Quando, a forza di puntare l’arma contro tutti, ha finito per ammazzare qualcuno, è stato arrestato, processato e condannato in una escalation di parrucche, sproloqui e demoralizzazione generale.
Un enigma in espansione
Di sicuro Rubin non è un violento: non fa paura e non intimidisce gli artisti. Chi ha lavorato con lui prova mediamente una stima e una gratitudine sconfinate, un affetto genuino. Lo definiscono tutti come un “orsacchiottone” esoterico. C’è però anche chi non ha mai abboccato a questo modus operandi tra lo stregone e il counselor alternativo pacioccone. Questo è successo soprattutto negli ultimi quindici anni, quando Rick è diventato praticamente l’ultimo a guadagnare un sacco di soldi facendo il produttore in un mercato che, al di là del pop più eclatante e “largo”, è talmente andato in malora da dover rinunciare alla figura del produttore e rassegnarsi a vederla estinguersi.
Spieghiamolo una volta per tutte: il produttore di solito non mette soldi ma li prende perché guida la band, anche se spesso non sa suonare uno strumento. Consiglia, critica, sferza, incoraggia e ispira il gruppo immergendosi fino al collo nell’impresa di realizzare un disco grandioso. A volte è la band a cercare un determinato produttore. Succede anche che sia il produttore stesso, come una specie di medium o un divinatore, ad andare in cerca del gruppo e si proponga, come guidato da una specie di illuminazione onirica: «Devo lavorare con voi, fatemi produrre il vostro prossimo album e non ve ne pentirete».
Di certo tutti i produttori hanno forgiato un suono e il loro nome è il collante acustico tra molti dischi di gruppi diversissimi. Rubin pure ha ideato un certo timbro e uno stile in cui lui è riconoscibile attraverso le sue band. Essendo un fan del vecchio rock più asciutto e deciso, e venendo da un ambiente all’epoca molto vago e sperimentale, che è quello dell’hip hop anni ‘80, Rubin si è fatto le ossa in un contesto molto più spartano e povero di dinamiche. Si è spostato sul metal negli anni in cui questo comparto del music business stava per raggiungere i massimi livelli commerciali di tutta la propria storia, ma non era così evidente. Lui lo ha scelto, come ispirato in un sogno. Via il rap, avanti con il metallo.
Ha prodotto gli Slayer «quando nessuno li avrebbe toccati nemmeno con un bastone», ha detto qualcuno: è vero. Il gruppo thrash di Los Angeles ha realizzato con Rick il proprio capolavoro assoluto, Reign in Blood. Ed è risaputo che sia stato proprio lui a cambiare quelle due o tre cosette che hanno liberato definitivamente la band da ciò che la rallentava. Appena Rick li ha alleggeriti, gli Slayer hanno fatto terra bruciata dietro di loro. Dopo Reign in Blood hanno continuato a usare il medesimo suono che Rubin aveva cesellato per loro, diminuendo le compressioni, snellendo tutto, eliminando tutti i riverberi e gli effetti ridondanti degli Eighties. Rick ci ha restituito gli Slayer nella forma più cruda e viva, determinando una svolta netta e imprendibile nelle zone estreme del metal.
Dagli Slayer è poi passato a cose meno pesanti, come Danzig o Cult e ha realizzato con loro dischi epocali. Ha continuato a praticare il mantra che più si toglie, meglio è, e infine ha messo le mani su una delle band più promettenti e incasinate in circolazione, ovvero i Red Hot Chili Peppers. Li ha guidati dentro una casa infestata e li ha aiutati a creare e incidere il loro album definitivo, Blood Sugar Sex Magik. Il lavoro di Rubin non era quello di un professionista che aveva bene idea di dove mettere le mani in uno studio di registrazione (lui non lo sapeva e non l’ha mai saputo davvero fino in fondo), ma quello di un sensitivo, un profeta, un telepatico, uno psicologo, un padre e un fantasma.
Nel tempo, Rick ha maturato un vero e proprio sistema di regole strategiche per aumentare al massimo la creatività, costellando le sessioni in studio di scenette divertenti, uscite misteriose, pennichelle inattese e manovre coercitive che lui – disco dopo disco, capolavoro dopo capolavoro – ha trasformato in una specie di strano show a uso dei soli artisti. Ad esempio ha imposto ai suoi gruppi di provare anche le idee che non piacciono istintivamente, di scartarle dopo e mai a priori, di tentare le soluzioni più pazzesche. Ma tutte le regole stavano dietro a un’altra regola basilare: quella di seguire l’istinto… di lui.
Fidarsi è bene
Talvolta le difficoltà tra Rick e gli artisti nascono dal suo modo di interromperli all’improvviso mentre suonano, dicendo semplicemente “non farlo”, senza offrire alcuna spiegazione; come se lui avesse un campanellino interno che suona ogni volta che sente qualcosa che non funziona, che non va proprio. Perché no? Boh! Fai come ti dico e basta. Si tratta di una questione di gusto, oppure è una specie di allergia a certe soluzioni che reputa scontate? Di fatto, non sa neanche lui perché intima a una band o un musicista di cambiare strada e mollare una certa idea.
Così come tanti hanno denunciato una carenza di spiegazioni quando Rick dice a un gruppo che il brano ha bisogno di un passaggio in più dopo il primo ritornello e deve ripetere una certa strofa anche nella seconda parte. Cosa? Ma che c’entra? Teoricamente rischia di trasformarsi in una lagna. Eppure lui insiste. Aggiungi qui, raddoppia di là, taglia e cuci, fa come dico. Sembra che l’armonia strutturale che Rubin percepisce dentro di sé e che visualizza nel suo “occhio acustico” sia una mano perentoria d’aiuto che qualsiasi artista sotto la sua guida deve afferrare. Senza obiezioni, proteste o tanto meno rifiuti.
Rick Rubin è famoso per aver rilanciato Johnny Cash in un periodo in cui il famoso artista country era semidimenticato, condannato a una routine di balere, manierismi e vetuste nostalgie fino alla tomba. Lui è riuscito a liberarlo di tutta la coltre di vecchiume stile Nashville e riconsegnarne la purezza interpretativa a un pubblico giovane che non si sarebbe mai avvicinato a Cash nella vecchia forma. Johnny ha talmente creduto all’istinto di Rick da cantare qualsiasi cosa lui gli sottoponesse, come una Rusty Cage dei Soundgarden in meravigliosa versione acustica. Pure Tom Petty ringraziava ogni giorno Rubin per averlo aiutato a rinascere e stravincere negli anni ‘90, e ci sono molti altri, tra cui i Red Hot, che tuttora non riescono a fare a meno di lui.
Così come ce ne sono altri, per esempio i Black Sabbath, che non hanno percepito la magia di Rick, non hanno scorto la sua saggezza millenaria e desertica da quegli occhi pallati e non si sono assolutamente fidati dei suoi diktat senza argomentazioni. Per loro 13 è stato un fallimento. Eppure anche un lavoro come quello contiene la stessa strana tensione di capolavori come Toxicity dei System of a Down o l’attesa palpabile di un miracolo tra le righe degli alleluia sardonici di Kid Rock in Born Free.
Certo, oggi Rick Rubin è l’ultimo esemplare di un mondo discografico in via di estinzione. Lui c’è ancora, ma non esiste più uno scenario rock che possa permettersi di pagarlo e dargli l’occasione di plasmare nuovi gruppi, individuare ed esaltare grandi canzoni. E così ha condotto il suo personaggio in contesti sempre più isolati e prossimi al pensionamento. Ha diradato gli impegni di lavoro e si è dato alla viticoltura e all’agriturismo in Toscana. Tra le sue ultime uscite ci sono il dannato Ed Sheeran e il delirante Kanye West. Soprattutto, ha gestito ben cinque dischi di Jovanotti, che negli ultimi anni è il solo artista con cui lavora volentieri.
Ce lo immaginiamo mentre si intrufola nello studio di registrazione di Lorenzone senza preavviso, ciabattando fino a un angolo che si è fatto arredare appositamente con tappeti persiani, cuscini, gatti impagliati e un comodo lettino. Si sdraia avvolto nelle sue vesti dai motivi orientali, inforca gli occhiali da sole che non ha mai restituito a Kerry King e, chiudendo gli occhi, ascolta i “piriperi” eco-progressisti che Jova ha appena realizzato. Annuisce, balbetta un paio di consigli spirituali e si addormenta. Dopo qualche ora si ridesta. Dice ai fonici rimasti lì di riferire a Mr. Jovanotti «That is all right!» e se ne va.
Non si sa dove, non si sa come, non si sa quando, ma prima o poi state sicuri che tornerà.
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