[Storie] Steve Albini: elogio dell'imperfezione
"Penso di essere bravo, ma non abbastanza da trasformare una trota in una salsiccia, o viceversa"
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Forse la biografia che compare sul sito degli Electrical Audio, i suoi studi di registrazione di Chicago, conteneva già una sorta di premonizione: “Steve Albini, o come preferisce pretenziosamente chiamarsi steve albini [in minuscolo, n.d.r.] è il membro più anziano dello staff di Electrical Audio, ha visto tutto e se ne è già stufato”. Ma era così stufo al punto di andarsene ad appena 61 anni, 3 giorni fa, per un banalissimo infarto?
Un’uscita di scena anche quella poco pretenziosa, forse; eppure la sua morte sta facendo più rumore e più male di tutte le chitarre, bassi e batterie che ha registrato nella sua lunga carriera. Semplicemente perché non esiste negli ultimi 30 anni una figura che abbia saputo essere altrettanto rilevante come musicista (Shellac, Rapeman, Big Black), come produttore (Pixies, Nirvana, PJ Harvey, Low e centinaia di altri) e come – perdonaci, Steve: lo so che poi ti arrabbi – intellettuale di riferimento di un certo approccio davvero indipendente e privo di fronzoli al vivere la musica, prima ancora che crearla, suonarla, produrla.
Chiedi chi erano i Bush
Non so se sia l’esposizione continua al feed ininterrotto di contenuti in cui viviamo ad avermi fritto il cervello, ma ho difficoltà a mantenere certi ricordi. Al contrario, un ricordo piuttosto nitido riguarda il titolo del primo album prodotto da Steve Albini che mi sia capitato di ascoltare. Non è un titolo che si vedrà molto in giro, nelle top 10 che circoleranno in questi giorni di lutto per la scomparsa di Steve Albini, e non sarà certamente sventolato da chiunque tenga un minimo alla propria reputazione di connoisseur musicale.
Si tratta di Razorblade Suitcase dei Bush, che sentii per la prima volta a 11 anni, copiato su una cassetta da mio fratello: non mi vergogno a dire che, da ragazzino che non sapeva nulla di nulla, Swallowed è stata una canzone importante per come mi ha ossessionato, certi pomeriggi.
La critica aveva preso a sassate quel disco, com’era certamente suo diritto fare: il coinvolgimento di una figura rispettata come Albini in cabina di regia non bastava a smacchiare l’affronto di fare grunge da inglesi nel 1996, quando a Londra e Manchester girava tutt’altra musica.
Nelle note della riedizione di qualche anno fa Albini difende a spada tratta la band. Non il suo stile, ma la sua etica: “A differenza di tutte le band inglesi montate dall’hype della stampa locale e incapaci di guadagnarsi l’attenzione degli americani, Oasis compresi - sintetizzo - i Bush si sono fatti due, tre volte il giro del continente finché non hanno convinto delle radio a suonare i loro pezzi”. E comunque, Insect Kin è un pezzaccio ancora oggi.
Le persone prima dei dischi
Steve Albini ci ha lasciati in questa valle di lacrime mercoledì 7 maggio 2024 all’età di 61 anni. Ricordarlo cominciando con quello che senza dubbio non è stato il suo lavoro più memorabile (ma comunque da lui difeso sempre) non vuol essere uno scherzo di cattivo gusto – una cosa che al limite lui avrebbe apprezzato. Inizio così perché, prima di celebrare il suono delle batterie degli album che ha registrato, prima di provare a tradurre in parole la sensazione di udire la sua chitarra spaccarti un timpano, bisogna ricordare una cosa centrale, forse cruciale: per Albini le persone erano molto più importanti dei dischi. Lo ha detto in tanti modi.
Non troppo tempo fa, in un’intervista a Il Cibicida, rispondendo a una domanda di Riccardo Marra sul disco preferito tra quelli su cui ha lavorato, l’ha ribadito con una frase piuttosto chiara: “Onestamente tendo a pensare alle relazioni che ho formato durante il lavoro come più importanti dei dischi, e scambierei volentieri tutti i dischi con il silenzio se potessi ancora avere certe amicizie di quegli anni”.
E qui non sto solo parlando dei meriti umani di Albini – una persona che nella mezza età ha compiuto un percorso profondo di autocritica a proposito delle idiozie estremiste che aveva sostenuto da giovane senza pensarci. In realtà sto già parlando della sua filosofia da produttore (anzi, tecnico del suono, come preferiva dire lui): lasciare che la band si esprimesse nel modo più autentico possibile, cercando di fissare su nastro magnetico la sensazione di sentirli dal vivo, a un passo da te, in uno spazio reale.
Conosceva i trucchi del mestiere per far suonare urgente musica che era urgente prima ancora di raggiungere il microfono. Un esempio: la batteria frustata da Mimi Parker in Dinosaur Act dei Low non è soltanto un bel suono di rullante, ma è frugale e disperata come la voce di Alan Sparhawk, è ostinata e stolta come le azioni di chi si ripete senza sapere cosa dice o cosa fa; ma tutto questo è prima di tutto nell’intenzione di chi quella canzone l’ha creata. Steve era solo la persona più giusta per trasmettere a tutti noi queste sensazioni.
Come suona un disco prodotto da Albini
L’attività di Steve Albini come giornalista musicale nelle fanzine della Chicago dei primi anni ‘80 viene spesso citata di corsa per passare a dettagli più creativi, come l’inizio e la fine dei Big Black, una fiammata nei lombi di cosa è stato il post-punk e post-hardcore nel Midwest, e poi l’attività di “produzione”. Io penso che la capacità di valutare onestamente il proprio gusto gli abbia permesso di metterlo un po’ da parte, all’occorrenza; che l’atto di soppesare gli elementi costitutivi di una canzone (e della scrittura prima di tutto) per arrivare più precisamente al suo messaggio, al suo contenuto, l’abbia aiutato a stare alla larga dalle sovrastrutture e osservare tutto – la musica che ha fatto, quella che ha registrato, le sue azioni – in modo onesto e critico. Oltre a dargli un’eloquenza che chiunque faccia il nostro mestiere darebbe un braccio per avere.
Non esiste un “suono Albini”; e allo stesso tempo riconosceresti un disco prodotto da Albini anche con un orecchio solo. Ovviamente, tanta roba noise e post-rock e, più generalmente, “storta” è stata registrata con il suo aiuto, perché molte band che suonavano quel genere di cose erano intenzionate, prima o poi, a lavorare con lui, che con certa musica ci trafficava da sempre, che i suoni aspri e infranti li rispettava e adorava, che sapeva quanta magia sprigiona da una catastrofe sonora più che da una precisione fittizia.
The Jesus Lizard, Slint, Uzeda, Oxbow, i Mogwai di My Father My King, Mclusky, Melt-Banana, Don Caballero, METZ (e potremmo continuare a lungo…) sono alcuni dei nomi che dai quattro angoli del pianeta si sono trovati accomunati nel privilegio di un disco registrato da Steve Albini, per evidente affinità di spirito e di gusti.
Eppure, alcuni dei lavori più apprezzati della sua discografia (togliendo evidenti “hit” come Pixies, Breeders o Nirvana, e non certo per loro demerito) stanno da tutt’altra parte, musicalmente parlando: Ys di Joanna Newsom, The Magnolia Electric Co. di Songs:Ohia;, il già citato Things We Lost In The Fire. Tutti non fanno dell’assalto sonoro la forza principale, ma rendono l’imperfezione (dell’uomo, delle cose, della vita) una caratteristica.
Per imperfezione non intendo “errore lasciato dentro a un disco”, ma il presentimento che tutto possa collassare da un momento all’altro. Che, prima di tirare giù il sipario, ci sia un’ultima chance di dire la propria. Pochi album nella storia della musica registrata riescono a catturare questa sensazione di disastro imminente meglio di Rid Of Me, il capolavoro di PJ Harvey, e forse anche di Albini, dove scrittura e suono sono in perfetto allineamento. Perché il sound di Albini non è (soltanto) un fatto tecnico: la conseguenza di come certi microfoni reagiscono a certi strumenti se collocati in certi spazi (talvolta appesi al soffitto, in una specie di scherzo giocato agli Slint); il trucco di far suonare una chitarra come se al posto delle corde avesse della lana di vetro; la conoscenza dell’acustica necessaria a dare a certe incisioni l’atmosfera putrida e spaziosa di un concerto in un capannone.
Il fattore umano
Prima di tutto il suono di Albini è un fatto umano: anche per questo, lo stesso Steve ha riconosciuto ogni merito prima di tutto a chi la musica la suonava, nel suo studio. L’urgenza e l’onestà artistica di quel che hai scritto e ora stai tirando fuori dal tuo strumento è sempre stata più importante, per lui, rispetto a un predeterminato set di stili e timbri: altrimenti Kicking Around A Couple di Smog/Bill Callahan non siederebbe così bene nella sua discografia, pur trattandosi di una manciata di tracce scarnissime, voce-e-chitarra (e poco più); altrimenti non assoceremmo per sempre il suo nome a quello della folk singer Nina Nastasia, che con altri tecnici non ha mai registrato nulla.
Era questione di orecchio, e di testa. Saper ascoltare le persone era il suo metodo per ascoltare (e poi restituire a noi) la musica fatta da quelle persone, la verità più devastante di quel che altrimenti sarebbe stato solo un mucchio ordinato di note e parole: spesso si trattava di una verità terribile e scostante, la reazione crudele alla crudeltà del mondo, ed evidentemente ha attirato molte persone che la pensavano come lui su cosa la musica potesse provocare in chi l’ascolta. Ma più di frequente, l’abilità era semplicemente quella di restituire sul disco un certo suono, tendenzialmente il suono della band dal vivo. Cosa che ho provato di persona sentendo Neurosis, Godspeed You! Black Emperor, High On Fire, oltre agli Shellac. E per farlo non basta saper maneggiare un mixer. Bisogna conoscere gli artisti, fidarsi di loro, lasciare che loro si fidino di te.
Suonare lo studio
Un aneddoto incredibile, tra quelli circolati in queste ore, riguarda l’incisione di Farewell Transmission, la traccia di apertura del citato disco del 2003 di Songs:Ohia. Stando a quanto raccontò lo stesso Jason Molina, la sessione per quella traccia prevedeva il contributo di una serie di musicisti aggiuntivi rispetto al solito (dodici in tutto). Dal momento che il tempo stringeva e i soldi stavano finendo, Jason si azzardò a inciderla in presa diretta e senza averla provata nemmeno una volta. Si limitò a presentarla lì per lì ai musicisti, con il giro di accordi e la struttura, senza indicazioni di quando il brano sarebbe finito: per questo, alla fine, si sente Molina dire “Listen! Listen”.
Albini si fidò di tutti, seguì con attenzione quel che di fatto era un’improvvisazione, aprendo o chiudendo una porta dello studio quando la registrazione pareva troppo forte o troppo tenue (“suonare lo studio”, alla lettera): il risultato lo possiamo sentire tutti quanti schiacciando play. Esempi come questo si sprecano. Per ogni scazzo contro una band presa a male parole, per ogni messaggio contro la mercificazione della musica elettronica, per ogni tentativo goffo e stupido di usare opinioni tranchant come oggetto contundente, esistono centinaia di ore di musica che dimostrano la profonda empatia di Albini.
Tirare via la vernice dalle pareti
Qualche anno fa, su Twitter, Steve scrisse una cosa che ha fatto crollare la mia idea di come in un disco funzioni una scaletta pensata bene: “La terza traccia dovrebbe essere quella che ti sconvolge. La uno deve dire alla gente, ‘ehi siamo qui’, e puoi tirare a vuoto nella due, ma la tre deve tirare via la vernice dalle pareti”. Ho sempre creduto che la seconda traccia fosse la “vera hit” e allora dovrò scrivere a qualcuno e chiedergli scusa. Adesso sarò costretto ad andarmi a sentire tutte le tracce numero tre della sua carriera, immaginando quel discorso che viene ripetuto a ogni gruppo che passa dall’Electrical Audio di Chicago oppure incontrato a metà strada o chissà dove. A ben vedere, in Swallowed era proprio la canzone numero tre. Per forza Albini non ha mai parlato male di loro.
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